Il sangue è passato dall’etichetta sul retro della camicia intorno al colletto fino al primo bottone, per poi espandersi sulla parte destra del petto. Ci sono anche tre o quattro punti in cui è schizzato fuori, forse in seguito a un violento colpo alla testa, quello che ha ferito Min Nyo. Il sangue è secco. Ma testimonierà per sempre la violenza che l’ha fatto scorrere. Min Nyo ora tiene la sua camicia in grembo, ma l’aveva indosso la mattina del 10 marzo 2021 a Pyay, una cittadina nella regione birmana di Bago. Era uscito in strada per filmare le proteste contro i militari, facendo semplicemente il suo lavoro di giornalista televisivo. Ma è stato fermato e messo in piedi davanti a un muro del commissariato di polizia con un sacchetto di plastica infilato sulla testa, e poi picchiato e sbattuto in galera. È una camicia grigia a maniche corte, con strisce bianche e blu in alcuni punti. Taglia piccola.
Ora che è al sicuro in una stanza d’albergo nella città tailandese di Mae Sot, al confine con la Birmania, può parlare liberamente dei sette mesi trascorsi in carcere nel suo paese. Mentre parla continua a tenersi la nuca con la mano, come se massaggiandola cercasse di far passare il ricordo del dolore.
Min Nyo ha accettato di usare il suo vero nome e di mostrare il suo volto, ma ha escluso di farci incontrare la sua famiglia – la moglie e i tre figli – e ha chiesto di non rivelare dove vive. “Non si farebbero problemi a ucciderci”, dice. Min Nyo è riuscito a sfuggire alla giunta, ma la paura non lo abbandona.
Una vita migliore
La Birmania, il suo paese, è appena al di là del fiume. Può vederla. E non può dimenticarla. Sulle strade polverose di Mae Sot, nel nordovest della Thailandia, sono allineati edifici a tre piani, negozi, carrozzerie e appartamenti. Ci vivono circa cinquantamila cittadini tailandesi e una comunità di profughi e migranti provenienti dalla Birmania che si stima essere quasi il doppio. Il mercato principale – dove si vendono papaya, pollame e pesci tilapia freschi – è diviso in una zona tailandese e una birmana. Sui banchi dei molti venditori birmani è disponibile la thanaka, una crema giallognola fatta con corteccia macinata, che in Birmania uomini e donne usano per proteggere la pelle dal sole.
Mae Sot è sempre stata una destinazione per gli attivisti dell’opposizione birmana, oltre che per i migranti in cerca di una vita migliore e impiegati in alberghi, ristoranti, cucine, fabbriche o come tassisti. Ci sono due valichi di frontiera in città, due ampie strade piene di camion che trasportano merci da una parte all’altra del confine: materiale da costruzione, prodotti alimentari, droga di contrabbando, giada e legname. E c’è anche il fiume, che non è mai davvero stato una barriera. Agricoltori e pescatori attraversano il corso d’acqua ogni giorno sulle loro piccole imbarcazioni.
Sogni spezzati
Il 1 febbraio 2021 la giunta militare birmana ha rovesciato il governo ed è tornata al potere, mettendo fine a un periodo in cui le cose sembravano promettere bene per il paese. L’esercito ha arrestato la leader di fatto del governo, Aung San Suu Kyi. Da allora Mae Sot è diventata un approdo per chi scappa dalla Birmania, compresi i perseguitati e le persone arrestate e poi scarcerate. Sul lato tailandese del confine, davanti a un tè al latte parlano dei loro sogni spezzati e delle loro speranze di trovare asilo negli Stati Uniti, in Canada o in Europa. Oppure preparano piani per una resistenza armata. Mae Sot è ormai piena di guerriglieri.
In città l’Onu e altre organizzazioni gestiscono alloggi sicuri dove i profughi possono vivere per un po’. Questi piccoli appartamenti sono sparsi in tutta la città ed è da questi rifugi che le persone provenienti dalla Birmania, in alcuni casi intere famiglie, compilano le loro richieste d’asilo. Di giorno le si può incontrare nei caffè del centro, dove il tè birmano viene servito insieme a roti fritto con latte condensato e laphet toke, un’insalata fatta di foglie di tè fermentato, inserita nel menù come un ricordo silenzioso della madrepatria.
Fino al febbraio 2021 sembrava che la Birmania e i suoi 55 milioni di abitanti stessero procedendo verso un futuro di maggiore apertura e democrazia, dopo decenni di dittature militari, guerre civili e deportazioni. Dopo molti anni di censura e isolamento, a metà degli anni dieci del duemila la maggior parte degli abitanti aveva accesso a internet. Gli studenti universitari potevano trascorrere dei semestri di studio all’estero, e crescevano usando smartphone e social network. Avevano capito che le libertà politiche e sociali erano fondamentali.
Oggi, invece, il potere è di nuovo nelle mani di uomini che non sanno che farsene della democrazia e che capiscono solo il linguaggio della violenza. Dopo il colpo di stato, la giunta militare ha arrestato diecimila persone, uccidendone, secondo l’Associazione d’assistenza ai prigionieri politici, più di mille. L’esercito è composto da trecentomila unità ed è armato da Russia e Cina.
All’inizio, subito dopo il golpe, gli abitanti di Rangoon e delle altre città protestavano dai balconi facendo baccano con le pentole la sera e organizzando manifestazioni pacifiche. Ma poi l’esercito ha sparato in testa a una manifestante di vent’anni e, poco dopo, a una bambina di sei anni che stava cercando riparo tra le braccia del padre. Molti dicono che quello è stato il momento in cui la protesta, inizialmente pacifica, è diventata una lotta violenta.
“Undici mesi dopo il golpe, il Consiglio d’amministrazione dello stato, com’è noto ufficialmente il regime, non è ancora riuscito a consolidare il suo controllo sul paese”, scrive il direttore del giornale birmano Irrawaddy Aung Zaw. “L’opposizione alla giunta rimane forte ed è probabile che si rafforzerà nel 2022, rendendo cupe le previsioni per il nuovo anno. Il regime ha trasformato la Birmania in un campo di morte e continua a uccidere e incarcerare attivisti e civili, con decine di migliaia di sfollati che scappano dalla campagna di terrore della giunta nelle zone rurali. Le immagini dei cadaveri bruciati hanno sconvolto il mondo ma alle espressioni di preoccupazione non sono seguite azioni concrete da parte della comunità internazionale. La giunta continua a comportarsi da forza d’occupazione, un po’ come quelle britanniche o giapponesi durante il periodo coloniale, che facevano impunemente terra bruciata intorno al nemico. Avendo capito che le speranze iniziali di un intervento internazionale erano mal poste, il popolo birmano ha deciso che è ora di imbracciare le armi. In giro per il paese sono spuntati gruppi delle Forze di difesa popolari (Pdf). Sanno di combattere contro un esercito forte, allora perché continuano? Perché sanno che se i golpisti avranno la meglio la Birmania rimarrà schiava dei militari per sempre. All’estero la giunta ha pochi amici ed è stata riconosciuta solo da Russia, Serbia, Bielorussia (che forniscono armi all’esercito), Corea del Nord e Cambogia. Cina, India e Thailandia che hanno fatto aperture diplomatiche, devono stare attente alle conseguenze. I militari guidano il paese dall’indipendenza, nel 1948. Il golpe è stato l’ennesimo tentativo di controllare i settori essenziali per preservare i loro interessi, e smentisce l’idea diffusa che l’esercito sia l’unica istituzione in grado di tenere insieme la Birmania. Molti birmani hanno smesso di chiedersi come l’esercito può essere riformato: la questione è come fare per sbarazzarsene”. ◆
In un’altra stanza d’albergo non lontano da Mae Sot, in una cittadina vicina che non nominiamo, una donna che chiede di essere chiamata Thinzar dice: “Stiamo combattendo contro la giunta. Non abbiamo scelta. Continueremo a lottare fino alla vittoria”. Thinzar ha 25 anni. Ha studiato economia a Rangoon, ha cominciato a collezionare opere d’arte e ogni tanto dipinge. Una tavolozza di colori acrilici e una piccola tela giacciono sullo scaffale dietro di lei, con un dipinto abbozzato: figure astratte nere con macchie rosse. Thinzar fa un tiro dalla sua sigaretta elettronica. I suoi genitori hanno partecipato ai disordini politici del 1988 e del 2007 e hanno passato diversi periodi in prigione. Ma non hanno mai smesso di lottare. Ora è il turno di Thinzar. Il suo ruolo è far arrivare armi e munizioni dalla Thailandia ai combattenti clandestini ancora in Birmania. Un ex ingegnere fuggito in Thailandia da Rangoon costruisce detonatori a distanza. Thinzar si occupa di farli arrivare in Birmania. I ribelli li usano per far saltare in aria veicoli militari e soldati dell’esercito. “Per uccidere la spazzatura”, dice lei. Thinzar spiega che per lei è diventato troppo pericoloso rimanere in Birmania e che il suo nome è stato inserito in una lista nera. Racconta che prima di partire ha visto i suoi compagni di lotta morire davanti ai suoi occhi, mentre insieme ad altri li trascinava lontano dalla strada. Si rifiuta, però, di lasciare il suo paese allo sbando.
Dopo il golpe, in Birmania si è formato un esercito di guerriglieri. Secondo l’International crisis group è composto da centinaia di combattenti armati appartenenti alle Forze di difesa del popolo. Nelle foreste e nelle aree controllate dalle minoranze etniche, si stanno preparando a combattere contro l’esercito del loro paese. Abbiamo visto le foto dei campi di addestramento. Studenti, ragazzi, ragazze e insegnanti provenienti dalle città: stanno tutti strisciando nel fango della giungla, costruendo rifugi di fortuna e imparando a usare le armi. Molti di loro prima non erano impegnati politicamente. Oggi, però, sono uniti nella convinzione di far parte dell’ultima generazione che può impedire alla Birmania di rimanere per sempre una dittatura militare. Ma cosa può aspettarsi di ottenere questo gruppo di dilettanti in una battaglia contro militari ben equipaggiati?
◆ Il 7 gennaio 2022 Hun Sen, primo ministro cambogiano e presidente di turno dell’Associazione delle nazioni del sudest asiatico (Asean), è stato il primo leader straniero ad andare in visita ufficiale in Birmania, suscitando proteste all’interno dell’associazione e la cancellazione di un vertice in programma questa settimana. Finora i leader dell’Asean avevano evitato di incontrare il capo della giunta Min Aung Hlaing.
◆Il 18 gennaio Noeleen Heyzer, inviata speciale del segretario generale dell’Onu per la Birmania, ha chiesto l’aiuto della Thailandia per evitare che la crisi nel paese peggiori.
Al Jazeera
Le armi che Thinzar sta facendo arrivare illegalmente in Birmania molto probabilmente uccideranno delle persone, e alcune delle vittime potrebbero essere civili. “Se vogliamo distruggere il sistema, dobbiamo accettarlo”, dice Thinzar. “Stiamo facendo quello che dobbiamo fare”. Alla domanda se il colpo di stato l’abbia cambiata, risponde: “Certo che mi ha cambiato. Un anno fa volevo aprire una galleria d’arte o creare un circolo di lettori. Oggi contribuisco a uccidere delle persone”. Ma ammette di avere paura. “Sono umana. Sono giovane. Ho paura di morire. Può darsi che muoia. E se sarà così, qualcun altro si farà avanti e continuerà il mio lavoro. La Birmania dev’essere libera. Stavolta deve funzionare. Vinceremo”.
La famiglia di Thinzar ha ottenuto asilo in un altro paese, molto lontano. Ma lei intende rimanere in Thailandia, con lo sguardo puntato sul suo paese. Racconta di aver avuto problemi d’insonnia negli ultimi sei mesi, e di aver preso due diversi tipi di sonniferi nel tentativo di spegnere il cervello di notte.
Min Nyo, l’uomo che conserva la sua camicia insanguinata come prova delle violenze, dice che se non avesse avuto una famiglia avrebbe continuato a fare attività politica in Birmania. Ha lasciato il paese per loro. Ora fa tutto quel che può per sostenere le persone che vivono ancora oltre il confine: gli amici e gli ex colleghi di lavoro. Gli fornisce informazioni, ascolta le loro paure e chiede di cos’hanno bisogno. Thinzar e Min Nyo sono solo due delle centinaia di persone bloccate a Mae Sot. Sono al sicuro e potrebbero facilmente trasferirsi altrove, in un posto dove non dovrebbero osservare ogni giorno il loro paese dall’altra parte del fiume. Potrebbero cercare di cominciare una nuova vita da qualche altra parte ed essere finalmente liberi. Da quando ha ottenuto l’indipendenza dagli inglesi negli anni sessanta, la Birmania non ha praticamente mai vissuto un momento di pace. Il paese è stato continuamente scosso da conflitti etnici, lotte per regioni semiautonome e dittature militari. Perché Thinzar, Min Nyo e gli altri credono che questa volta la storia sarà diversa?
“È una domanda sbagliata”, dice Thinzar. “Non ho scelto io questo destino. Sono i militari ad averci portato via il futuro”. Min Nyo è d’accordo. “Ci trattano come animali. Non pensavano che ci saremmo difesi così. Che la libertà avrebbe significato tanto per noi. Ma ne vale la pena”. E poi dicono tutti praticamente la stessa cosa, dalle loro nuove case a Mae Sot e dintorni. Che ci vorrà molto tempo e molta forza. Ma che il popolo birmano alla fine vincerà. E non si tirerà indietro. ◆ ff
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Questo articolo è uscito sul numero 1444 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati