Un altro giorno senza niente di particolare: in mare non tira un alito di vento e regna la calma. Fin troppa, secondo l’equipaggio. Qualche settimana fa il capitano aveva proposto una scorreria a nord dell’isola di Hispaniola. Ma finora non abbiamo avvistato neanche una nave che valesse la pena di assaltare. L’equipaggio sta per perdere la pazienza.

Il quartiermastro, che è il responsabile degli alloggiamenti e del vitto, sollecita un’assemblea per decidere insieme cosa fare. Il discorso del capitano non convince nessuno e ne segue una discussione in cui si decide di cambiare rotta: si andrà verso il canale Sopravento, tra Cuba e Hispaniola, per tendere un’imboscata ai mercantili spagnoli carichi d’oro. Il capitano è in minoranza ma non perde il posto: l’assemblea si pronuncia contro la sua destituzione.

C’erano anche le regole che servivano a mantenere la disciplina: luci spente alle otto, niente scommesse con dadi o carte, niente risse

Anche se quella che abbiamo appena raccontato è una vicenda inventata, è vero che alla fine del seicento scene del genere si sarebbero potute verificare. Secondo gli studi più recenti, la vita a bordo delle navi pirata seguiva norme sorprendentemente eque, con divisione dei poteri, decisioni collettive e perfino la possibilità di destituire il capitano. E inoltre, prima di partire per una delle loro scorrerie, l’equipaggio stabiliva le regole da seguire.

Ce lo rivelano per esempio gli scritti di Alexandre Exquemelin, che a partire dal 1666 operò per conto della Compagnia francese delle Indie occidentali nei Caraibi, dove si unì ai corsari passando gli anni successivi a fare da chirurgo sulle loro navi. Il suo libro De Americaensche zee-roovers (I pirati delle Americhe) è tra le fonti principali per quanto riguarda la vita dei pirati. Exquemelin cita anche alcuni estratti da un codice per bucanieri: “Per stabilire la rotta, i pirati votano”. Seguono dettagliate descrizioni sui risarcimenti che gli sarebbero spettati in caso di ferimento: la perdita della gamba destra, per esempio, era compensata con cinquecento monete spagnole d’argento prese dalla cassa della nave o con cinque schiavi.

Anche la divisione del bottino era stabilita in anticipo: “Quando si assalta una nave a nessuno è permesso di saccheggiarla tenendo per sé il bottino. Tutto ciò che viene razziato – danaro, gioielli, pietre preziose e merci – va diviso tra tutti e nessuno deve ricevere neanche un penny più di quel che gli spetta”. Il capitano e il quartiermastro prendevano al massimo il doppio di un pirata semplice.

Un’altra fondamentale raccolta di fonti sulla pirateria caraibica, A general history of the robberies and murders of the most notorious pyrates (Storia generale delle rapine e dei delitti dei pirati più famosi), del 1724, riporta dati analoghi. L’autore di questo libro aveva come pseudonimo Captain Charles Johnson e la sua vera identità è rimasta ignota. Nella sua opera il confine tra verità e finzione non è facile da tracciare. Anche qui, però, si parla a lungo degli elementi egualitari dei regolamenti di bordo: “Ogni uomo ha diritto di voto per quanto riguarda le questioni all’ordine del giorno e ha uguale accesso a viveri e liquori secondo le sue esigenze”.

In più c’erano le regole che servivano a mantenere la disciplina: luci spente alle otto, niente scommesse con dadi o carte, niente risse. Il tutto era stabilito con un patto deciso insieme prima della partenza a cui tutti giuravano fedeltà. Le regole servivano ad assicurare l’efficienza nelle razzie: conflitti interni e ruoli mal distribuiti avrebbero potuto paralizzare l’attività della nave. Le costituzioni dei pirati, approvate collettivamente, prevenivano il problema aiutando a trasformare gruppi di fuorilegge in equipaggi efficienti.

Ma è tutto qua? Alcuni studiosi vanno ancora oltre nell’interpretazione dei regolamenti ugualitari e partecipativi dei pirati che, secondo l’antropologo David Graeber, sarebbero stati addirittura i primi democratici dell’età moderna. Nel suo libro L’utopia pirata di Libertalia (Elèuthera 2021) Graeber sostiene che sono stati proprio i pirati a inaugurare lo sviluppo delle società illuministico-liberali. Ai suoi occhi le navi pirata erano “laboratori perfetti per esperimenti democratici”.

Il ricercatore arriva a questa conclusione analizzando anche la composizione degli equipaggi. Tra i pirati, infatti, oltre a ex marinai delle flotte militari europee c’erano schiavi africani in fuga, indigeni delle due Americhe, creoli dei Caraibi e arabi: persone con una grande varietà di percorsi alle spalle. E proprio questo crogiolo di esperienze, secondo Graeber, avrebbe contribuito all’emergere di nuove forme di convivenza politica.

Ma le novità non erano solo sulle navi. Se Graeber ha ragione, allora i corsari hanno influenzato anche quel che succedeva sulla terraferma, cosa che cerca di dimostrare portando il caso del Madagascar. A partire dal 1710 i britannici cominciarono a reprimere con forza la pirateria nei Caraibi, spingendo molti pirati a insediarsi sulla costa malgascia orientale dove, secondo Graeber, avrebbero introdotto le proprie convenzioni per poi sviluppare insieme alle comunità locali, che già avevano una cultura di stampo ugualitario, un esperimento protoilluminista capace di arrivare in Europa. Perfino l’emancipazione femminile, sostiene l’antropologo, sarebbe stata incentivata dal loro arrivo: spesso le donne del posto sposavano i corsari per usare i loro bottini come capitale iniziale per avviare delle attività eco­nomiche.

Insomma, secondo Graeber è evidente che, al pari dei grandi filosofi, da Montesquieu ad Adam Smith, anche il bucaniere con la gamba di legno è un protagonista dell’illuminismo, un’avanguardia militante degli ideali di autonomia, libertà e uguaglianza. Su questo l’autore basa la tesi secondo cui non furono solo gli aristocratici colti dell’Europa del settecento a promuovere le idee di emancipazione: l’illuminismo europeo sarebbe invece una sintesi d’influenze disparate, alcune provenienti dalla periferia del mondo allora conosciuto e da persone il cui contributo alla liberazione dalla società classista e dall’assolutismo monarchico è ancora oggi sottovalutato. I corsari sarebbero luminose figure di progresso, outsider democratici capaci d’innovazione perché costretti a organizzarsi in condizioni fuori dell’ordinario.

Ma tra gli studiosi c’è chi pensa che si tratti di pura fantasia. L’autore tedesco Sieg­fried Kohlhammer, per esempio, nel suo Piraten. Vom seeräuber zum sozialrevolutionär (Pirati. Da bucaniere a rivoluzionario) rifiuta qualsiasi interpretazione positiva del fenomeno: sostiene che i pirati non erano democratici, ma avidi criminali. In realtà la pirateria non sarebbe altro che un “flagello dell’umanità”.

Secondo Kohlhammer è soprattutto grazie ai rivolgimenti sociali degli anni sessanta del novecento che sulla pirateria è stata proiettata ogni sorta d’idea utopistica e antiborghese. La pirateria è stata romanticizzata e ancora oggi è studiata e discussa acriticamente. In un’appassionata resa dei conti, Kohlhammer ricorda il coinvolgimento dei pirati nel commercio di schiavi e il fatto che si mettessero talvolta al servizio degli stati coloniali, dando così un contributo all’imperialismo. Di libertà e uguaglianza nessuna traccia, insomma, nemmeno per quanto riguarda le donne: secondo Kohlhammer le comunità dei corsari non avrebbero affatto contribuito alla loro emancipazione.

Cosa possiamo concludere? I pirati hanno inventato la democrazia? No, perché non avevano né un concetto universale della dignità umana né una coscienza politica chiaramente delineata. Senza dubbio apprezzavano il diritto di parola di cui godevano a bordo delle navi, ma erano disposti ad accettare regolamenti condivisi per ragioni probabilmente più pragmatiche che ideologiche. L’equipaggio, infatti, non percepiva una paga ma partecipava al bottino, ossia al successo dell’impresa, successo che liti e disordini a bordo avrebbero messo in serio pericolo.

Eppure, i corsari hanno un ruolo nella storia delle idee e della politica: le idee democratiche, infatti, non sono nate nel vuoto. Per lungo tempo, persone diversissime tra loro hanno contribuito alle rivoluzioni che portarono al superamento delle forme di dominio feudali aprendo la strada alle prime democrazie moderne alla fine del settecento. L’esempio dei pirati dimostra come le trasformazioni politiche non si basino solo su progetti elaborati da pensatori geniali ma possano anche essere ispirate dalle esigenze materiali degli individui.

Per i pirati rispettare delle regole valide per tutti allo stesso modo era semplicemente una questione razionale: in fondo nessuno voleva farsi imbrogliare nella spartizione del bottino. Sulle loro navi dare diritto di voto a tutte le persone coinvolte, decidere collettivamente la rotta e destituire capitani incapaci si è rivelato semplicemente funzionale allo scopo. I pirati non saranno stati eroi o modelli di democrazia, ma non possiamo ignorare il fatto che alcune delle loro pratiche somigliavano alle idee che poi entrarono a far parte delle costituzioni repubblicane degli Stati Uniti e della Francia. ◆ sk

Marius Erismann è uno storico svizzero. Questo articolo è uscito sul quotidiano svizzero Neue Zürcher Zeitung con il titolo Haben piraten die demokratie erfunden?

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Questo articolo è uscito sul numero 1581 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati