Il 2 novembre le Forze di supporto rapido (Rsf), il gruppo armato sudanese guidato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemetti, hanno preso di mira un campo per sfollati interni ad Ardamata, nel Darfur Occidentale. In tre giorni hanno commesso quello che potrebbe essere il più grave massacro dell’inizio della guerra, cominciata il 15 aprile 2023. Le organizzazioni locali parlano di 1.300 morti, duemila feriti e centinaia di dispersi. “Andavano di casa in casa alla ricerca degli uomini. Hanno ucciso tutti quelli che trovavano”, racconta Montesser Saddam (nome di fantasia), che è riuscito a fuggire in Ciad. “C’erano tantissimi cadaveri per le strade”. Secondo le testimonianze di attivisti e sopravvissuti, le ultime atrocità rientrano in una campagna più ampia condotta dalle Rsf e dalle milizie loro alleate per eliminare i masalit, una popolazione non araba, dal Darfur Occidentale.
Per decenni il governo centrale del Sudan ha trascurato la questione degli agricoltori non arabi e dei pastori arabi del Darfur, che si contendevano le terre fertili e le scarse risorse idriche. L’ex presidente Omar al Bashir aizzò una comunità contro l’altra. Nel 2003 armò le milizie arabe affidandogli il compito di schiacciare la rivolta dei non arabi, che era scaturita dalle proteste contro l’emarginazione economica e politica del Darfur. Trecentomila persone morirono per le violenze, la carestia e le malattie. Le organizzazioni per i diritti umani e le Nazioni Unite accusarono di pulizia etnica le milizie sostenute dal governo, note come janjawid. Oggi quelle stesse milizie stanno combattendo al fianco delle Rsf o direttamente nelle loro file.
“Vogliono eliminarci attraverso operazioni di pulizia etnica”, dice Nahid Hamid, un’avvocata masalit specializzata in diritti umani. Hamid ha trovato sui social network un video recente in cui un miliziano delle Rsf parla verso la telecamera con un fucile in mano. Sullo sfondo, un altro miliziano dice in arabo: “La terra per i masalit? Non c’è più terra per i masalit”.
I capi presi di mira
Nell’attacco al campo di Ardamata sono stati uccisi sei leader tribali. Mohamed Arbab, 85 anni, era uno di loro: le Rsf hanno fatto irruzione a casa sua e l’hanno ammazzato insieme al figlio e ai nove nipoti. Abdelbasit Dina, un altro leader masalit, è stato ucciso insieme alla moglie, al figlio ed altre cinquanta persone della loro comunità. Il 16 giugno le Rsf avevano ucciso il governatore del Darfur Occidentale, Khamis Abubakar, poche ore dopo che aveva denunciato un “genocidio” in un’intervista a una tv saudita. Dopo quell’episodio gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a Abdel Rahim Dagalo, vicecomandante delle Rsf e fratello del generale Hemetti, accusandolo di aver ordinato le atrocità commesse in quella regione.
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Poco dopo l’inizio delle stragi ad Ardamata, donne e bambini si sono riversati oltre il confine con il Ciad, unendosi alle migliaia di profughi sudanesi arrivati quest’estate. All’inizio di novembre Cynthia Mathildes, una psicologa che lavora per Medici senza frontiere, ha visto almeno duecento persone attraversare ogni giorno il confine. Le donne le hanno detto che il loro campo era stato distrutto e molte persone erano state uccise. Montesser Saddam racconta che quando le Rsf hanno fatto irruzione a casa sua lui era già per strada. Alcuni miliziani lo hanno raggiunto e derubato, ma poi l’hanno lasciato andare. “Sono stato fortunato”, dice.
Non sa che fine abbiano fatto amici e parenti. I profughi masalit in Ciad cercano di chiamare i familiari, ma i telefoni sono spenti o squillano a vuoto. Saddam è convinto che siano tutti morti. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1538 di Internazionale, a pagina 27. Compra questo numero | Abbonati