Nella regione del Darfur crescono i timori di una guerra su base etnica. Nell’ultima settimana le Forze congiunte di protezione (Jpf, cinque gruppi armati in larga misura non arabi) hanno inviato centinaia di rinforzi vicino ad Al Fashir, capoluogo del Darfur Settentrionale, per proteggere i civili da possibili attacchi dei paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf), che da sette mesi combattono contro l’esercito sudanese. Nelle Jpf convivono gli ex gruppi ribelli del Darfur, a cui era stata affidata la sicurezza nella regione dopo il ritiro di una forza di pace dell’Unione africana all’inizio del 2021. In origine erano un corpo neutrale, impegnato a proteggere mercati e civili. Ma poi i combattenti delle Rsf hanno sconfitto l’esercito sudanese in quattro dei cinque stati in cui è diviso oggi il Darfur, uccidendo civili, stuprando donne e saccheggiando interi quartieri. Secondo abitanti del posto e analisti, il Darfur Settentrionale potrebbe subire una sorte simile.
Le Jpf sono nate nell’ottobre 2020, quando diversi gruppi armati darfuriani hanno firmato un accordo di pace con l’esercito e le Rsf, all’epoca stretti alleati. L’intesa ha permesso ai ribelli di tornare in Sudan dopo quattro anni d’esilio in Libia. Tra questi, il Movimento giustizia e uguaglianza (Jem), guidato da Gibril Ibrahim, e lo Sla-Mm di Minni Minnawi. Ibrahim è diventato ministro delle finanze e Minnawi è stato nominato governatore del Darfur. Un anno dopo entrambi si sono schierati con l’esercito e le Rsf nel colpo di stato che ha estromesso i rappresentanti civili dalle autorità di transizione andate al potere dopo la caduta del regime di Omar al Bashir. Il loro intento era dividersi le risorse economiche e gli incarichi ministeriali, ma nell’aprile 2023 tra l’esercito e le Rsf è scoppiata la guerra. Ibrahim e Minnawi hanno temporeggiato per mesi, e solo il 16 novembre hanno dichiarato di sostenere l’esercito. “Lo fanno per proteggere i loro magri interessi economici”, spiega Suliman Baldo, del centro studi Sudan transparency and policy tracker.
Ibrahim e Minnawi sono dell’etnia zaghawa e i loro uomini formano gran parte dello schieramento nato vicino ad Al Fashir. Dal loro ritorno in Darfur il Jem e lo Sla-Mm hanno inoltre reclutato i giovani zaghawa e fur del campo profughi di Zamzam, dove vivono 120mila persone. Nel frattempo gli arabi di Al Fashir si stanno unendo alle Rsf per ottenere protezione. Lo conferma il giornalista locale Hooa Daoud: “In tempi di crisi la gente si nasconde dietro la propria tribù”. All’inizio del conflitto i servizi segreti avevano arrestato molti arabi del posto perché ritenuti leali alle Rsf, solo in base alla loro etnia.
Secondo gli abitanti di Al Fashir l’attacco delle Rsf è imminente. “C’è un rischio enorme che gli scontri nel Nord Darfur possano causare violenze etniche e atrocità come quelle a cui abbiamo assistito nel Darfur Occidentale”, dichiara Alan Boswell, esperto dell’International crisis group, riferendosi a quanto accaduto a inizio novembre ad Ardamata, dove le Rsf e altre milizie arabe hanno ucciso 1.300 civili di etnia masalit.
“Lo scontro con i gruppi zaghawa rischia di avere ripercussioni anche in Ciad”, fa notare Boswell, “se dovesse crescere il malcontento tra i sostenitori del presidente Mahamat Déby”. Finora Déby, anche lui zaghawa, ha mantenuto una posizione ambivalente, ma potrebbe subire pressioni perché si muova in difesa del suo gruppo etnico in Sudan. Per il momento i civili di Al Fashir sperano solo di evitare la guerra. “Regna una calma cauta”, dice il giornalista Ibrahim Moussa. “Ma la paura è ovunque”. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1540 di Internazionale, a pagina 25. Compra questo numero | Abbonati