Il 10 febbraio 2022 il presidente Emmanuel Macron è andato a Belfort, una cittadina industriale nella parte orientale della Francia, per annunciare un evento di portata storica: “il rinascimento del nucleare francese”. Macron ha ammesso che negli ultimi tempi il nucleare suscitava perplessità, ma ha ribadito che ormai bisognava “prendere in mano il nostro destino per quanto riguarda sia la politica energetica sia quella industriale”. La Francia, ha detto, doveva costruire nuove centrali nucleari: almeno sei, magari anche quattordici.
Mentre parlava, alle sue spalle luccicavano alcuni enormi rotori. Nelle prime file del pubblico era seduto Jean-Bernard Lévy: per lui l’annuncio era sicuramente un successo. Da otto anni Lévy è a capo dell’Électricité de France (Edf), l’azienda che rappresenta il cuore e il cervello dell’industria nucleare francese. Ma durante il suo mandato, Lévy ha dovuto fronteggiare una battuta d’arresto dopo l’altra: continue carenze nella sicurezza dei reattori, disastrosi investimenti esteri e cantieri fuori controllo. Finalmente a Belfort Macron indicava un futuro non solo alla nazione, ma anche all’Edf.
Sono passati otto mesi e quelle parole sono rimaste lettera morta. Una Francia tremante attende l’inverno, mentre l’Edf registra la produzione di elettricità più bassa di sempre, con molte centrali nucleari ferme. Nel frattempo, a Berlino Robert Habeck, ministro dell’economia dei Verdi, spiega che le due centrali nucleari tedesche devono rimanere in funzione per ovviare ai problemi dei vicini.
La situazione è grottesca: la Francia, paese del nucleare per eccellenza, è a corto di elettricità e in suo aiuto arriva la Germania.
L’inverno alle porte
La Francia sembrava ben equipaggiata per far fronte alla crisi attuale, visto che solo il 15 per cento dell’energia che il paese consuma è prodotto usando il gas. A sua volta, il gas viene solo in minima parte dalla Russia. Per questo a Belfort Macron si era detto fiducioso dell’autonomia energetica della Francia in un momento in cui stavano emergendo le fragilità dei sistemi che “dipendono da terzi per la produzione dell’energia”. La Francia in effetti produce molto più della metà dell’energia che consuma, soprattutto grazie all’industria nucleare nazionale.
Proprio ora però, nel peggior momento possibile, stanno emergendo anche le debolezze del modello francese: la sua dipendenza dalla Russia non è grande, ma quella dall’energia nucleare è enorme. Soprattutto d’inverno.
In Francia circa un terzo delle famiglie per riscaldarsi usa l’energia elettrica. Complessivamente, due terzi dell’energia elettrica sono prodotti nelle centrali nucleari. La conseguenza è “un’accentuata termosensibilità della rete elettrica francese”, spiega Mycle Schneider, consulente indipendente, grande conoscitore della produzione energetica francese e scettico sul nucleare. Il sistema è termosensibile nel senso che più fa freddo più aumenta il fabbisogno di elettricità. Se le temperature scendono di un grado, continua Schneider, servono 2,4 gigawatt in più, la produzione di due reattori grandi. Gli impianti di riscaldamento dei francesi sono obsoleti e hanno pochissima capacità di stoccaggio: per questo il sistema è estremamente vulnerabile al freddo.
La Francia non è mai stata autonoma come Macron e altri prima di lui volevano far credere. La capacità complessiva dei 56 reattori (distribuiti in 18 centrali) che in teoria potrebbero essere in funzione nel paese è pari a 61,4 gigawatt, se lavorano tutti contemporaneamente e al massimo della loro capacità. Ma nei giorni molto freddi possono servire più di cento gigawatt. Quindi d’inverno la Francia ha sempre importato elettricità, soprattutto dalla Germania. Oggi la situazione è peggiorata. Ventotto dei 56 reattori francesi sono fermi. Alcuni a causa degli interventi periodici di manutenzione: il parco nucleare è abbastanza vecchio, un terzo dei reattori è collegato alla rete da più dei quarant’anni previsti in origine. E più gli impianti invecchiano più diventano complicati i lavori di manutenzione.
Poi ci sono i problemi di sicurezza, piuttosto gravi. A dicembre del 2021 si è scoperto che alcuni tubi del sistema di emergenza del reattore di Civaux, nell’ovest del paese, erano corrosi. Da allora, per precauzione, è stata spenta un’altra decina di reattori, in modo che si potessero eseguire controlli e poi procedere a eventuali riparazioni. Purtroppo i problemi riguardano proprio i reattori più nuovi e potenti.
La tenuta della Francia quest’inverno dipenderà principalmente da due incognite: quanto freddo farà e quanto tempo ci metterà l’Edf a rimettere in funzione il maggior numero possibile di reattori.
Attacco inaudito
L’ippodromo di Longchamp è tra le location più esclusive di Parigi. In un giorno di fine agosto sulle sue tribune si sono trovati quasi tutti quelli che contano nella politica e nell’economia francese. Erano invitati proprio dalla Medef, l’associazione che rappresenta gli imprenditori del paese. Nonostante la siccità di quest’anno, l’ippodromo era sorprendentemente verde. La prima ministra Élisabeth Borne ha detto agli industriali che dovevano prepararsi a tempi duri: ogni spreco di energia andava evitato. Ed era fondamentale riattivare il prima possibile i reattori nucleari spenti. Poi si è tenuto il dibattito intitolato “Evitare le chiusure. Energia a ogni costo?”. Sul palco c’era Jean-Bernard Lévy, dell’Edf. La moderatrice dell’incontro gli ha chiesto perché gli interventi di manutenzione dei reattori durassero tanto. Lévy, 67 anni, prima ha preso fiato, poi ha sferrato il colpo. L’azienda elettrica ha tenuto a Parigi quattro giorni di consultazioni con tutti gli esperti del paese per capire come riparare i danni ai reattori provocati dalla corrosione. “Non ci mancano le competenze”, ha detto, ma i lavoratori specializzati. Sono troppo pochi. “E perché mancano? Perché ci è stato detto che avremmo dovuto ridurre il parco nucleare. ‘Preparatevi a chiudere i reattori’, ci ripetevano fino a poco tempo fa. Nessuno ci ha mai detto di prepararci a costruirne di nuovi”.
Effettivamente, sul futuro del nucleare, la politica parigina ha mandato segnali contrastanti: nel 2015, quattro anni dopo l’incidente di Fukushima, in Giappone, il presidente François Hollande decise di ridurre la quota del nucleare nel mix energetico nazionale.
All’epoca il ministro dell’economia era Macron che poi, da presidente, ha avuto atteggiamenti contraddittori. Mentre spegneva due reattori nucleari a Fessenheim, in Alsazia, prolungava il ciclo vitale di altri impianti. E a Belfort quest’anno ha affermato che la chiusura delle centrali nucleari può essere giustificata solo da motivi di sicurezza.
Il fatto che Lévy indirettamente abbia dato la colpa dei problemi attuali a Macron è comunque inaudito. Anche se dal 2005 è quotata in borsa, l’Edf è di fatto un’azienda pubblica. Lo stato possiede l’84 per cento delle sue quote e a giugno il governo ha dichiarato che presto controllerà l’Edf al cento per cento. Otto anni fa Macron era stato decisivo per la nomina di Lévy al vertice dell’azienda. Per questo, ha risposto al suo attacco dicendo che “accusandoci di non esserci assunti le nostre responsabilità, i responsabili dei reattori fanno dichiarazioni false e dissennate”.
In ritardo sulle rinnovabili
Per la Francia il nucleare è sempre stato più di una fonte energetica e l’Edf più di un’azienda. Fondata poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Edf doveva rafforzare l’autonomia del paese appena liberato. Poi diventò il quartier generale del programma del nucleare civile e, negli anni settanta, un vero e proprio mito. In pochi anni l’azienda pubblica costruì decine di reattori nucleari e i suoi ingegneri diventarono il simbolo dell’audacia della nazione. Da allora l’Edf è un elemento fondante dell’identità francese.
Proprio per questo gli errori commessi in passato fanno così male. L’ultima centrale nucleare fu collegata alla rete nel 1999 e oggi presenta danni dovuti alla corrosione. A Flamanville, in Normandia, l’Edf vuole testare un nuovo reattore nucleare ad acqua pressurizzata (Epr): i lavori sono cominciati quindici anni fa ma l’impianto ancora non è in funzione. Anche nel Regno Unito e in Finlandia, dove sono in costruzione alcuni Epr francesi, i cantieri hanno subìto ritardi continui facendo impennare i costi. Da punta di diamante dell’industria nazionale l’Edf è diventata un problema per la Francia. L’azienda stessa ha dichiarato che il suo debito ammonta a 43 miliardi di euro. La nazionalizzazione servirà anche a salvarla dalla bancarotta.
L’attacco di Lévy ha riacceso la polemica sulla politica energetica francese, che da tempo covava sotto la cenere. I sostenitori del nucleare rimproverano a Macron di aver fatto mancare troppo a lungo il suo sostegno al settore. Sia il partito conservatore dei Républicains sia i comunisti chiedono l’istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare che chiarisca le responsabilità del presidente nell’attuale disastro. Secondo i contrari all’energia nucleare, invece, Macron e l’Edf hanno puntato troppo a lungo solo su questa.
Gérard Magnin, nominato nel 2014 dal governo, ha fatto parte del consiglio di vigilanza dell’Edf per due anni. La sua nomina è stata abbastanza insolita, racconta al telefono, tanto da sorprendere perfino lui. Anni fa Magnin, 71 anni, aveva fondato Energy Cities, una rete di comuni europei impegnati a seguire la transizione energetica. E il governo incaricava proprio lui, coinvolto nelle iniziative locali a favore delle energie rinnovabili, di vigilare sull’Edf. All’epoca gli era sembrata un’ottima occasione per correggere un orientamento troppo unilaterale dell’azienda verso il nucleare. L’Edf aveva cominciato a investire anche nell’energia solare, eolica e soprattutto idroelettrica. Ma Magnin è uscito deluso dall’esperienza nell’azienda: molti consiglieri parlavano delle energie rinnovabili “con un misto di odio e paura”; alcuni evitavano addirittura di pronunciare la parola rinnovabile. Ai loro occhi l’eolico e il fotovoltaico non erano un’opportunità, ma una minaccia per il business del nucleare.
Sullo sviluppo delle rinnovabili la Francia è in ritardo: è l’unico paese dell’Unione europea che non ha raggiunto gli obiettivi stabiliti. “La cultura, l’atmosfera, la mentalità” dell’Edf e di grandi fette delle élite francesi non lasciano spazio né ai dubbi né alle alternative al nucleare, dice Magnin, che si è dimesso dal consiglio di vigilanza dell’azienda a luglio del 2016, a meno di due anni dalla sua nomina.
Sopravvalutarsi
Due anni fa sulla questione del fallimento degli Epr la corte dei conti francese ha pubblicato uno studio dai risultati devastanti: la decisione di costruire il reattore di Flamanville è stata “affrettata e sbagliata”. Le aziende coinvolte, l’Edf in testa, hanno sottovalutato gli ostacoli tecnici, economici e logistici mentre le istituzioni non sono state all’altezza del loro compito di vigilanza. “Il settore del nucleare ha avuto troppa fiducia in se stesso”. Si è sopravvalutato.
Date le premesse, quanto è realistica la costruzione di nuove centrali? Anche se questa volta andasse tutto liscio, per collegare il primo reattore alla rete bisognerebbe aspettare almeno il 2035, come ha detto lo stesso Macron. Il suo governo ha da poco presentato due nuovi disegni di legge: uno per abbreviare la procedura di autorizzazione delle centrali nucleari e l’altro per accelerare lo sviluppo delle energie rinnovabili.
Nel frattempo l’inverno è alle porte. L’Edf ha un piano ambizioso: riattivare tutti i reattori fermi entro la fine di febbraio del 2023. Riuscirà a metterlo in atto? In ogni caso, la responsabilità non ricadrà su Jean-Bernard Lévy: il suo mandato scadrà nel 2023, ma lui ha annunciato che lascerà la carica in anticipo. In modo consensuale, si dice. ◆ sk
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Questo articolo è uscito sul numero 1486 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati