Quando mi è stato proposto di curare questo numero di Internazionale dedicato all’Iran, mi sono chiesto se sarei riuscito a restituire un’immagine veritiera del mio paese attraverso i racconti e le poesie. Noi iraniani abbiamo l’impressione che su di noi circolino le idee più distorte. È come se la nostra realtà fosse costantemente giudicata, anziché osservata. E quando abbiamo provato a raccontarla in prima persona, spesso ci siamo allontanati ancora di più dal tentativo di farci capire.
Abbiamo avuto gli imperi più longevi della storia, abbiamo alle spalle uno sterminato passato di cui si potrebbe parlare a lungo, ma cosa si può dire del presente? In questo momento, se volessi descrivere gli iraniani con una sola frase direi che siamo un popolo sopravvissuto alle contraddizioni.
Abbiamo pagato un prezzo altissimo di vittime durante la pandemia di covid-19, viviamo sotto sanzioni, abbiamo tenuto in ostaggio un gruppo di diplomatici statunitensi per 444 giorni, abbiamo combattuto un’inutile e infinita guerra contro l’Iraq, paese il cui nome si distingue dal nostro solo per una lettera e il resto del mondo ci confonde. E abbiamo fatto una rivoluzione che prima ci ha divisi e poi ha rovinato tutto.
Sono nato tre mesi dopo quella rivoluzione, un evento che ha lasciato un’impronta indelebile sulla vita della mia famiglia. Entrambi i miei nonni persero il lavoro, ma non per le loro posizioni politiche o per i legami con il governo dello scià. Uno di loro era un sarto per donna, ma dopo la rivoluzione islamica agli uomini fu vietato a lungo di cucire abiti femminili. L’altro era il proprietario di uno stabilimento balneare, ma le vacanze al mare furono messe al bando perché il nuovo governo le giudicava un lusso da aristocratici. Oggi le spiagge dell’Iran pullulano di ville e gli uomini sono tornati a cucire vestiti da donna, ma la vita dei miei nonni e la nostra è radicalmente cambiata. Tra le scrittrici e gli scrittori che hanno collaborato a questo numero c’è chi ha vissuto la guerra Iran-Iraq e la rivoluzione del 1979 ed è rimasto segnato nel profondo, ma a quei tempi quasi tutti erano dei bambini, e degli arresti, della fame e della guerra oggi conservano solo dei ricordi d’infanzia, addirittura velati di tenerezza e nostalgia. La storia è capace addirittura di creare prospettive piacevoli per ciò che un tempo era sofferenza. Siamo i superstiti di queste contraddizioni.
Ora, mentre scrivo, la società iraniana è nel pieno di un esaurimento nervoso. I giovani vogliono lasciare il paese a tutti i costi. Molti dei migranti bloccati al confine tra Bielorussia e Polonia sono iraniani che inseguono un sogno per il quale sono disposti a morire. In Iran si scherza sul fatto che alla Nasa un dipendente su cinque è di origine iraniana e che vorremmo tutti trasferirci negli Stati Uniti, il paese che da decenni è il nostro nemico giurato. Viviamo immersi nelle contraddizioni.
Una volta ho chiesto a un amico italiano se ci fossero più Maserati a Teheran o a Milano e lui, senza esitare, ha risposto che a Teheran ne aveva viste molte di più. Faccio davvero parte di un paese in cui il novanta per cento delle persone vuole scappare e il dieci per cento vive in un’eterna vacanza? Si può davvero descrivere un posto del genere con la letteratura?
Una leggenda narra che Keyumars, il primo uomo della mitologia persiana, aveva tre scettri – uno d’oro, uno d’argento e uno di rame – e li batté a terra una volta ciascuno per estendere i confini dell’impero degli arii e far vivere le sue genti nel benessere. Le conseguenze di questi colpi sono visibili ancora oggi.
Più della metà delle autrici e degli autori pubblicati in queste pagine non vivono in Iran e anche questa è una contraddizione con cui facciamo i conti e a cui sopravviviamo: persone che hanno lasciato il paese ma continuano a vivere nella sua cultura. Potrei dire che l’Iran è un luogo immaginario, una terra che esiste solo nella fantasia, dove gli opposti si scontrano e coesistono.
In questo numero ho voluto farvi conoscere ciò che mi piace leggere senza la pretesa di dare un quadro esaustivo. Vorrei comunicare la complessità di noi iraniani, ma vorrei anche dire che siamo più semplici di come ci rappresentano. Siamo persone che hanno sete di libertà, ma che lungo la loro storia sono ripetutamente scivolate nelle mani di despoti che promettevano pace, gloria e speranza.
Noi iraniani viviamo nelle contraddizioni, divisi tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, e questo ci ha resi più forti e resilienti di quanto si possa pensare. ◆ Traduzione di Federica Ponzo
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Questo articolo è uscito sul numero 1441 di Internazionale, a pagina 11. Compra questo numero | Abbonati