Non riesco a smettere di pensare alla struttura di questo romanzo, che fa a pezzi la classica trama e al tempo stesso svela i meccanismi dietro la sua creazione. L’autrice canadese-egiziana non abbellisce nulla, neanche la posizione scomoda e privilegiata della protagonista, laureata alla Columbia university, figlia di immigrati ricchi, che molla tutto per trasferirsi al Cairo, in Egitto, da dove i genitori sono andati via, per scoprire che è esattamente come se l’aspettava. Ma lo shock culturale non riguarda tanto il contenuto quanto la portata: “È una città spinta agli estremi”. Se la prima parte prende il via da un colpo di fulmine per un reporter reduce dalle speranze della primavera araba e in astinenza da cocaina, la seconda, svelando le ossessioni di un rapporto morboso, mostra attraverso un apparato di note canzonatorie anche l’orientalismo che caratterizza la lettura dell’Egitto. L’ultima parte, metanarrativa, porta al cuore della storia, mettendo in discussione gli spazi, le barriere culturali e gli stessi fatti. L’intera narrazione insinua il dubbio sui protagonisti. Quale versione stiamo leggendo? La storia raccontata è quella dei vincitori o dei vinti? Dividere una pesca è una faccenda appiccicosa: la polpa si aggrappa al nocciolo, il sapore resta tra le mani più che in bocca e filamenti gialli s’insinuano tra i denti. Anche questo libro ti resta addosso, e non è detto che sia piacevole. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1514 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati