Greta Pavan
Quasi niente sbagliato
Bollati Boringhieri, 192 pagine, 16 euro

“Compro il giornale tutti i giorni, ma non vedo più gli articoli di tua figlia. Lavora?”. Lo ha chiesto di recente a mia madre una sua conoscente. Per lavoro scrivo, per lo più da casa, spesso sdraiata sul divano. Sono cresciuta in una provincia in cui l’apparenza della produttività e l’estetica del successo hanno qualità ben precise, che chiaramente non incarno. Per queste e altre ragioni ho gravitato a lungo intorno all’esordio di Greta Pavan prima di affrontarlo: alla fine ho letto la sua Brianza e mi ci sono specchiata, e questo vale per tutte le persone che con me l’hanno abitata. Margherita, nata in una famiglia emigrata dal Veneto negli anni cinquanta, cresce in quella provincia schiacciata tra capannoni con solo un cognome sull’insegna, alternati a distese di campi, dove mucchietti di case formano paesoni all’apparenza tutti con gli stessi nomi. Ogni capitolo è un anno della sua vita e racconta qualcosa che l’ha definita nel suo legame con quel territorio, forse anche nonostante quello. Mi sembra che la difficoltà di un romanzo costruito in questo modo sia la coerenza della lingua, del tono: Pavan mantiene una prosa impetuosa e affilata nel raccontare la violenza di un’etica collettiva, il senso d’inadeguatezza rispetto a un’identità, l’impossibilità di sfuggire alla ciclicità del presente. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1519 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati