Ci sono molti elementi in questo romanzo: Sara, psicoterapeuta, e Nadia, una paziente che ha subìto abusi sessuali quando era minorenne, sono forse la stessa persona (lo si intuisce prima del necessario); c’è il colloquio preliminare di Sara con un giovane avvocato e c’è una storia, quella di Nadia, scritta e chiusa in un fascicolo; ci sono dei sogni, per fortuna non tutti i 71 che s’intuiscono dal numero che li contrassegna. La violenza, i suoi postumi giudiziari e la sintomatologia del trauma sono simili. Lo riporta la cronaca, emerge dalla letteratura e lo constata la stessa protagonista, alla fine: “Ho smesso di credere che ci sia qualcosa di distintivo, nel dolore. Se ti affacci, ovunque, e racconti un grumo, è sconcertante quanti grumi paralleli, uguali e contrari ti offrano”. Quel che cambia è il racconto della violenza, dei suoi postumi, della sua sintomatologia, e nell’esordio di Stella Poli si manifesta in una scrittura ellittica, che replica la poesia del titolo, un verso di Franco Fortini. Come quando l’autrice, complice una punteggiatura che dà ritmo, scrive: “Pensare di condurre un gioco che invece perdi sempre più forte, ma anche solo, come facevo io, stando fermissima, a guardarlo pianissimo scivolare”. È una lingua lasca, che sospende la frase, la storia: si chiede alla letteratura di dirci tutto, soprattutto perché. Qui no.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1525 di Internazionale, a pagina 77. Compra questo numero | Abbonati