Milletrecentocinquanta: sono i caratteri, spazi compresi, di questa rubrica, e a volte risultano essere pochi per raccontare un libro ramificato come l’esordio di Beatrice Galluzzi. Si apre un ventaglio di possibilità nello scrivere un libro a partire da un corpo, l’unità di misura base della vita, come del resto mi ricordano titoli quali Balena di Giulia Muscatelli o Il corpo della femmina di Veronica Pacini. La difettosità del corpo di cui narra Galluzzi mima la disfunzionalità di una famiglia e si mostra nei segni che l’infanzia nella periferia romana ha lasciato sulla protagonista, un passato trascorso in balia di un padre squilibrato, presentato dall’autrice con una caricatura, senza dissimularne la follia. Il corpo di Beatrice porta i segni della performance nel fisico di una ragazza che interpreta il ruolo di una persona sana; della biologia nelle analisi sballate di una malattia autoimmune; della paura di avere ereditato il cattivo sangue della propria stirpe, “qualcosa di rotto, una falla, un malfunzionamento che non si sarebbe potuto aggiustare con la colla, o nascondere dal lato del muro”. Beatrice Galluzzi disseziona il proprio corpo e il propio passato, nel tentativo di respingere l’idea di meritarsi quella punizione. Il passo della narrazione accelera al ritmo del suo senso di colpa, di vergogna, e si dilata nello scrollarsi di dosso quella pesante eredità familiare. ◆
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1532 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati