Su entrambi i lati della frontiera che separa la Turchia e la Siria per centinaia di chilometri ci sono le stesse scene di terrore, paura, inquietudine e rabbia. A venti ore dal terremoto di magnitudo 7,8 avvenuto il 6 febbraio alle 4.17 decine di migliaia di persone nel distretto di Pazarcık, a una sessantina di chilometri dal confine siriano vicino alla città di Gaziantep, continuano a vagare sul ciglio delle strade, o di quel che ne resta, in cerca di riparo o di aiuto.
Il bilancio provvisorio è salito a più di novemila morti in Turchia, secondo l’agenzia governativa di gestione dei disastri (dati aggiornati all’8 febbraio). Si tratta del terremoto con più vittime dopo quello del 1999, quando una violenta scossa devastò la parte orientale del mar di Marmara, vicino a Istanbul, uccidendo più di 17mila persone.
Il terremoto è stato avvertito in tutta la regione e ha devastato dieci province del sudest: Kahramanmaraş, Adıyaman, Diyarbakır, Şanlıurfa, Gaziantep, Kilis, Osmaniye, Malatya, Adana e Hatay. Ci sono state circa quaranta scosse di assestamento, di cui una particolarmente forte (magnitudo 7,5) alle 13.24. A quel punto altre migliaia di edifici, che sembravano aver resistito alla prima onda d’urto, sono crollati.
A Kahramanmaraş, considerata l’epicentro del sisma, centinaia di case sono andate distrutte. Quasi diciotto ore dopo nella zona mancano ancora le squadre di ricerca e soccorso e gli aiuti alimentari.
Altrove è lo stesso. L’entità e la portata dei danni sono impressionanti. Chilometri di strade al buio, migliaia di case rase al suolo. L’asfalto strappato come se fosse un foglio di carta. Ovunque colate di fango, di pietre o di terra. I pali della luce sono sdraiati ai lati della strada come matite posate sul bordo di un tavolo. Alcuni sono piegati in due o polverizzati.
Villaggi fantasma
Ad Hatay il terremoto ha colpito più duramente, con quasi duemila morti secondo un primo bilancio. A Diyarbakır si contano trecento morti, più di cinquecento a Osmaniye. All’ingresso della città, una casa sembra affondata nel suolo, come una barca nell’oceano. Una decina di persone si muove intorno, chiamando e gridando, invano. Sotto le macerie c’è Remzi Saldiray, 63 anni. È riuscito a far uscire di casa tutti i familiari, la madre, i bambini, i cugini. Da alcune ore non risponde più. Il fratello fissa le macerie, le mani al cielo. Chiede aiuto a Dio, e piange: “Non è venuto nessuno da stamattina. Nessuno”.
Lungo la strada ci sono villaggi fantasma, che gli abitanti hanno abbandonato per paura delle scosse di assestamento. Stanno nelle vicinanze, nelle auto, per tenere d’occhio le loro cose. A volte un po’ più lontano, in un punto in cui la ricezione dei telefoni funziona a tratti. Ovunque si vedono gruppi di auto con i finestrini chiusi e appannati dall’interno. “Impossibile tornare a dormire a casa”, dice Ali, che con la moglie si è sistemato sui sedili. Suo fratello ha una concessionaria. Ha dato tutte le chiavi delle auto alle persone del quartiere in modo che ci possano dormire dentro.
Alla fine della strada, a Samandag, remoto sobborgo balneare di Antiochia di 122mila abitanti – come indica un cartello di benvenuto – il terremoto ha ridotto tutto al silenzio. Due case su tre sono gravemente danneggiate, i negozi sono disintegrati. Non si vede nessuno in quello che resta delle strade. Le file di auto sono più distanti, in alto. “Ci hanno detto che c’era il rischio di uno tsunami e di una terza violenta scossa di assestamento entro poche ore”, spiega Ali, trent’anni, seduto nella sua macchina.
Il distributore della Shell in centro è l’unico posto dove si incontrano i sopravvissuti. Un generatore tiene accese le luci e permette di riempire i serbatoi di benzina: un’isola di vita in un mare di desolazione. Tutto intorno gli edifici sono crollati. È un ammasso di rovine lungo centinaia di metri, come se la città fosse stata bombardata dall’interno. Qui è sparita in un istante una famiglia di dieci persone. Laggiù la sorella di Hasan, un anziano in lacrime. “Abbiamo cercato di tirare fuori le persone con le nostre mani, ma è impossibile”, esclama l’uomo.
Dentro il distributore si svuotano i pochi scaffali ancora forniti. Ci si riscalda come si può sotto una coperta condivisa. “Non abbiamo niente da mangiare né da bere”, dice un giovane a voce bassa. Gli sguardi sono tristi e seri. “All’inizio abbiamo chiamato. Abbiamo portato un neonato all’ospedale che è a cinque chilometri da qui, poi nient’altro. Sì, certo, aspettiamo che arrivino”, continua Yelda, 32 anni, originaria della città. Punta il dito verso destra: “C’è una coppia proprio qui dietro, lui è morto e la moglie è ancora viva, ma è sotto le macerie, accanto al corpo del marito”. Yelda dice di essere in attesa, insieme agli altri nella stazione di servizio, ma ha perso la speranza: “Sentiamo la gente che grida, ma non possiamo fare niente. Di fatto, stiamo aspettando che muoiano”.
Quasi ventidue ore dopo il terremoto, nessun soccorso è ancora arrivato a Samandag. Gli unici a prestare aiuto, secondo la dichiarazione di un medico dell’ospedale del posto, sono le ambulanze del pronto soccorso e dieci vigili del fuoco della caserma. Nessun altro.
Ad Aleppo il giorno dopo il terremoto la paura è ancora logorante
Mezzi limitati
In Siria si ripetono le stesse scene di desolazione. I morti sono quasi tremila: la metà circa concentrata nella regione di Idlib, nel nordovest del paese, secondo il bilancio fornito dai soccorritori della roccaforte dei ribelli che si oppongono al presidente Bashar al Assad; l’altra metà nelle città di Aleppo, Hama (nel centro), Tartous e Latakia (sulla costa), stando alle cifre del ministero della sanità siriano. La lentezza delle operazioni e le informazioni frammentarie fanno temere un bilancio ancora più pesante.
Quando finirà l’orrore? In questo paese devastato dalla guerra il terremoto sembra quasi una maledizione, un ulteriore colpo contro una popolazione dissanguata, che ormai dipende dagli aiuti umanitari. Nel freddo e nella pioggia, territori nemici mostrano scene identiche di caos e di dolore. Nella regione di Idlib e nella città di Aleppo sotto controllo governativo l’emergenza è la stessa: trovare i sopravvissuti, e identificare e offrire una sepoltura ai morti.
I mezzi dei soccorritori per estrarre i corpi dalle macerie sono limitati. Nella zona controllata dal regime si usano i bulldozer. Nelle aree urbane, intere porzioni di edifici sono crollate e a volte intere famiglie risultano disperse.
Nell’enclave di Idlib la situazione è un “disastro”, hanno riferito il 6 febbraio i soccorritori locali della difesa civile, i caschi bianchi, alle prese con una delle loro missioni più difficili. Già dal mattino gli ospedali erano sommersi. Il sisma ha creato scene di panico, gli abitanti si sono precipitati in strada.
Il palazzo in cui viveva Osama Abdelhamid con la moglie e i figli , nel villaggio siriano di Azmarin, al confine con la Turchia, è crollato nell’istante in cui sono usciti dall’appartamento, ha raccontato l’uomo all’agenzia Associated Press dal letto d’ospedale. I vicini sono tutti morti.
In questa regione, che negli ultimi mesi è rimasta un bersaglio regolare dei bombardamenti delle forze del regime, e dove vivono più di quattro milioni di persone, molte sfollate da altre province, interi campi profughi sono stati spazzati via.
Nelle zone governative la Mezzaluna rossa siriana è stata incaricata di estrarre i vivi e di trasportare i cadaveri. Ad Aleppo il giorno dopo il terremoto la paura è ancora logorante. Alcuni edifici sono crollati come castelli di carte. “L’abbiamo scampata per un soffio. La nostra casa è ancora in piedi”, si ripete sconvolto Jamal, un giovane segnato dalla guerra. Aleppo, seconda città della Siria, è stata spaccata in due dai combattimenti tra esercito e ribelli dal 2012 al 2016. “Ma abbiamo la sensazione che tutto sia pericoloso, siamo preoccupati per il dopo: ci saranno nuove scosse? La gente è rimasta in strada perché ha paura che le case crollino”. Ma il clima è gelido, con una pioggia incessante. Alcuni abitanti sono rimasti nei grandi giardini pubblici di Aleppo. Sono stati aperti dei rifugi improvvisati: più di mille sfollati hanno trascorso la notte in alcune chiese della città.
“Siamo riusciti a offrire un pasto, ma non abbiamo potuto distribuire coperte. È impossibile trovarne, in questa devastazione”, spiega Safir Salim, direttore dell’Hope center (centro speranza), un’associazione cristiana. È in attesa di aiuti dal Libano. “Tutti sono terrorizzati”, aggiunge, prima che la linea si interrompa: i collegamenti sono difficili, la connessione molto debole.
Nessun posto
Il terremoto ha spazzato via le vecchie abitazioni costruite senza fondamenta o senza il rispetto delle norme antisismiche, oppure già parzialmente distrutte dai bombardamenti. La catastrofe è avvenuta in un paese in cui i servizi sono al collasso: a Idlib negli ultimi dieci anni le strutture sanitarie sono state ripetutamente colpite dall’aviazione russa o siriana. Nelle zone governative molti medici se ne sono andati da tempo e le attrezzature degli ospedali sono per lo più deteriorate.
Il terremoto si sovrappone a una quotidianità che è già durissima per i siriani. Nella zona sotto il controllo del regime, in cui vive la maggioranza della popolazione, l’economia è strozzata, colpita dal tracollo del vicino Libano, dalle sanzioni statunitensi (Washington impedisce tutte le transazioni con il regime), dalla corruzione. Le forniture di petrolio dall’Iran, l’alleato del regime insieme alla Russia, si sono drasticamente ridotte.
Senza mezzi per riscaldarsi, i siriani anche quest’inverno bruciano tutto quello che gli capita sotto mano per resistere al freddo: plastica, tessuti, gusci di pistacchio. “Già prima del terremoto la Siria stava attraversando la peggiore crisi umanitaria dall’inizio del conflitto”, spiega Bahia Zrikem, responsabile dei programmi per la Siria del Norwegian refugee council (Nrc), una ong presente nelle zone ribelli e governative. Con la difficoltà della popolazione a nutrirsi o ad accedere ai servizi di base “assistiamo a un aumento di pratiche di sopravvivenza, come il lavoro minorile”.
La risposta umanitaria internazionale sarà portata avanti da partner locali, su un territorio diviso tra forze politiche (il gruppo islamista radicale Hayat tahrir al Sham nella provincia di Idlib, i ribelli alleati della Turchia intorno ad Aleppo, il regime nelle zone lealiste). “Stiamo ancora cercando i dispersi”, avverte Louise Bichet, resposabile Medio Oriente per Médecins du monde Francia, ong attiva sia nelle zone ribelli sia in quelle governative. “Bisognerà contare le strutture sanitarie sicure per i pazienti e il personale, capire come potranno essere trasportati i materiali necessari”.
Le persone della diaspora siriana, sconvolte di fronte alla vastità del dramma, hanno lanciato delle raccolte fondi sui social network. I soccorritori libanesi della Croce rossa sono partiti per la Siria.
Nonostante i timori per una scossa di assestamento, Jamal, il giovane di Aleppo, appena diventato padre, non ha intenzione di lasciare la città con la moglie e il figlio. “Non abbiamo un mezzo di trasporto. E poi dove dovremmo andare? Non abbiamo nessun posto dove rifugiarci”. ◆ fdl
◆ La Turchia si sposta verso ovest di circa due centimetri all’anno lungo la faglia dell’Anatolia orientale, dove si sono sviluppati i violenti terremoti di questi giorni. La maggior parte del paese si trova infatti sulla placca anatolica, che è schiacciata tra altre quattro placche, tra cui quella araba (dove si trova buona parte della Siria) che preme verso nordovest, e la grande placca eurasiatica che si muove verso sudest.
Placche Secondo la teoria più accreditata, la litosfera, formata dalla crosta terrestre e dalla parte più esterna del mantello superiore, è divisa in una ventina di porzioni rigide, dette placche o zolle, che “galleggiano” sullo strato sottostante. Le placche si muovono lentamente, allontanandosi e avvicinandosi tra loro.
Faglie Lungo i margini delle placche le rocce scivolano l’una contro l’altra spinte dal movimento, e accumulano grandi quantità di energia. Quando il materiale roccioso, sottoposto alle sollecitazioni, supera il limite elastico e raggiunge il punto di rottura, si formano le faglie, profonde fratture da cui è più probabile che sia rilasciata l’energia immagazzinata. I terremoti sono appunto generati dal brusco rilascio di quest’energia lungo le faglie.
Scale Diversi fattori hanno contribuito a rendere il terremoto in Turchia e in Siria particolarmente devastante. Uno è la sua intensità. La magnitudo della prima scossa è stata di 7,8 e quella della seconda di 7,5. Può sembrare una piccola differenza, ma la scala che misura l’energia liberata, chiamata scala di magnitudo del momento sismico (Mw), è di tipo logaritmico. Significa che cresce in modo esponenziale: tra un grado e l’altro l’ampiezza del movimento del terreno è dieci volte più grande e l’energia sprigionata è quasi 32 volte superiore. Per avere un termine di paragone, il terremoto di Amatrice del 2016 ha avuto una magnitudo 6,0 e quello del 2009 dell’Aquila, 6,3. La Mw è un aggiornamento della scala Richter. è ormai diventata il metodo standard per la misura dei terremoti. The Economist, Usgs
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Questo articolo è uscito sul numero 1498 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati