Lo sciopero degli sceneggiatori statunitensi può sembrare lontano dalle nostre preoccupazioni quotidiane. Inoltre avrà pochi effetti immediati: le case di produzione hanno da parte abbastanza sceneggiature già pronte, e possono sempre tirare fuori la carta di credito per rifornirsi nel resto del mondo.
Ma questa vicenda ci ricorda fino a che punto l’intrattenimento di massa costituisce un’industria complessa, al di là delle stelle davanti agli obiettivi. Le serie, diventate il bulldozer mondiale della cultura pop, dipendono da migliaia di autori che si sentono sempre più precari. La Writers guild of America (Wga), il sindacato degli sceneggiatori non chiede solo l’estensione dei diritti d’autore sull’uso delle loro opere sulle piattaforme, ma anche modalità d’impiego fisse, che ricordano l’epoca lontana degli studios. Certo, è una strategia, ma quando la Wga sottolinea che non ci sono mai stati tanti autori retribuiti con il salario minimo, e alcuni non arrivano neanche a quello, esprime un malessere che è cresciuto nel corso degli anni. Per quanto possa sembrare paradossale, l’accorciamento delle stagioni delle serie ha indebolito la posizione degli sceneggiatori, che sono impegnati per meno tempo. E questo nonostante la produzione sia letteralmente esplosa.
È qui il nocciolo del conflitto. Per saziare la fame degli spettatori, gli studi cinematografici e le piattaforme spendono somme vertiginose: nel 2022 Netflix ha superato i 20 miliardi, mentre Disney è andata oltre i 33 miliardi.
In questo enorme ingranaggio capitalistico audiovisivo, lo sciopero degli sceneggiatori ci ricorda che le nostre evasioni, le nostre risate e i nostri turbamenti davanti allo schermo hanno un prezzo anche per i loro creatori che vivono nell’ombra. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1510 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati