Per nove mesi la nave era rimasta immobile nel mare ghiacciato, ferma nella sua morsa lontano dall’Antartide, a duemila chilometri dai primi segni di civiltà e senza nessun contatto. I ventotto uomini a bordo dell’Endurance avevano cercato di contenere la disperazione attraverso una routine di faccende e piccoli piaceri quotidiani. Tutto a giorni e orari fissi: scacchi, teatro e lettura ad alta voce, calcio sul ghiaccio, pulizie, riparazioni e caccia. Ma a un certo punto il ghiaccio cominciò a comprimere lo scafo facendogli imbarcare acqua, e la pressione fu così violenta che le tavole del fasciame cedettero e si piegarono fino a spaccarsi. “La nave scricchiolava e gemeva in continuazione”, racconta Hanne Strager, biologa e scrittrice, ex responsabile della comunicazione al museo danese di storia naturale e curatrice, qualche anno fa, di una mostra fotografica sulla spedizione di Ernest Shackleton. “Dev’essere stato orribile stare lì ad ascoltare mentre le travi fumavano e l’acqua si faceva strada tra le assi”.
C’erano 25 gradi sottozero il 24 ottobre 1915, quando Shackleton diede l’ordine di trasferire sul ghiaccio tutte le provviste e le attrezzature indispensabili. Nel giro di due giorni l’equipaggio svuotò l’Endurance e poco meno di un mese dopo, il pomeriggio del 21 novembre, vide il ghiaccio mollare la presa, e la nave sparire negli abissi.
“È affondata alle cinque”, si limitò ad annotare Shackleton sul diario, lasciando intuire il suo stato d’animo, “non riesco a dire altro”. Come capo della spedizione non si poteva permettere il lusso della disperazione. Perché, avrebbe scritto più tardi, “è necessario porsi un nuovo obiettivo appena quello vecchio risulta impraticabile”.
In quarant’anni, l’esploratore irlandese aveva già avuto diverse occasioni per fissare nuovi obiettivi. Troppe cose erano andate storte. Ma ancor prima che l’Endurance si posasse sul fondo del mare, Shackleton aveva dimostrato di essere un ottimista. “La nave e le provviste sono andate”, aveva detto ai suoi uomini. “Ora torniamo a casa”.
Più facile a dirsi che a farsi. Nei molti mesi che seguirono, Shackleton provò a fare il possibile per mantenere la sua promessa, scrivendo, senza volerlo, quella che oggi è considerata la più grande storia dell’epoca delle esplorazioni. “Per fare un film ci vuole un eroe che affronti sfide immense, e qualcosa deve andare storto”, dice Hanne Strager.
Qui il dramma nasce da prove fisiche quasi inconcepibili, vento contrario da ogni direzione. Aggiungete spirito di corpo, caparbietà e scelte cariche di conseguenze. E in più una dimostrazione di virtù che di rado emergono nel comfort dell’ambiente domestico: tra tutte l’ottimismo, la forza di volontà e la pazienza.
Nel 2022 un gruppo di archeologi marini è riuscito a individuare e filmare il relitto dell’Endurance con un robot. La nave giace a tre chilometri di profondità, sorprendentemente ben conservata, con alcuni anemoni attaccati allo scafo, il ponte quasi intatto e il nome Endurance scritto con lucide lettere in bronzo disposte ad arco sulla poppa. È un monumento a un’epoca in cui gli esploratori erano eroi, come gli astronauti di oggi. E a volte, come nel caso di Shackleton, si spingevano un po’ più in là rispetto agli spazi da riempire sulla carta geografica. Perché era quello che sapevano fare.
Il fatto che qualcuno si dia tanto da fare per trovare un relitto che difficilmente potrà rivelare qualcosa che non sappiamo già esprime, forse meglio di ogni altra cosa, quanto la fama della spedizione imperiale transantartica di Shackleton viva ancora tra chi ha un debole per le scoperte, e le avversità straordinarie. Da bambino Ernest Shackleton leggeva molto: così era cominciato il suo interesse per avventure e spedizioni. Fu marinaio nella marina mercantile e partecipò a due spedizioni fallimentari in Antartide. Nella prima partì con Robert Falcon Scott, anche lui irlandese, nella corsa per la conquista del polo sud, ma si ammalò e fu rispedito a casa. “Dato che tornò prima degli altri, fu lui a raccontare della spedizione e finì per essere accolto come un eroe nazionale”, racconta Strager. E il copione si ripeté. Il carismatico irlandese fallì praticamente in tutto quello in cui si buttò, dagli affari alle esplorazioni. Ma ogni volta fu acclamato per il suo coraggio, la perseveranza e la rettezza morale. Nella seconda spedizione al polo sud si fermò ad appena 150 chilometri dal traguardo per non rischiare la vita dei suoi uomini. Dopo quel fallimento fu nominato baronetto perché, spiega Strager, “la scelta di rinunciare fu considerata un grande sacrificio”.
Neanche sul lavoro le cose gli andarono bene. Provò con il giornalismo e con la politica, per poi avventurarsi in vari investimenti, tra cui una miniera d’oro ungherese. Tutto senza successo. Secondo Strager, se riuscì a racimolare i soldi per un’altra spedizione fu grazie alla tragedia di Robert Falcon Scott, che aveva sì raggiunto il polo sud, ma solo per trovare le tracce del norvegese Roald Amundsen, che lo aveva battuto sul traguardo. Per di più Scott era morto sulla via del ritorno.
Per il Regno Unito fu un trauma nazionale, ma probabilmente per Shackleton una fortuna. “Il suo piano di attraversare il continente non era molto sensato”, osserva Strager, “c’erano già state due spedizioni al polo sud. Ma dopo la tragedia di Scott, una nuova avventura polare fu vista come un’opportunità per riaffermare la grandezza del paese. E stavolta doveva finire bene”.
Il telegramma di Churchill
Otto giorni prima della partenza dall’Inghilterra, nell’agosto 1914, scoppiò la prima guerra mondiale. Shackleton mise immediatamente la nave e l’equipaggio a disposizione della corona britannica, ma ricevette un telegramma con una breve risposta dall’ammiragliato, da un certo Winston Churchill: “Andate avanti”.
In Argentina la nave fece provviste e ingaggiò gli ultimi uomini dell’equipaggio. Un giovane di nome Perce Blackborow che si era proposto ma non era stato assunto, si nascose in un armadio fino a dopo la partenza della nave. Quando lo scoprì, Shackleon lo rimproverò e gli disse che, se a bordo fossero rimasti a corto di provviste, l’avrebbero mangiato.
La prima tappa fu l’isola della Georgia del Sud, dove c’era una stazione baleniera norvegese. Da lì il piano era di continuare verso sud e stabilire un campo base nella baia di Vahsel, sulla costa dell’Antartide, dove otto ricercatori si sarebbero fermati a lavorare mentre sei uomini con 69 cani e due slitte avrebbero attraversato il continente per 2.900 chilometri. All’altra estremità del percorso, sulle coste del mare di Ross, un’altra nave avrebbe fatto scendere un gruppo di uomini per allestire depositi per l’ultimo tratto della spedizione.
I cacciatori di balene della Georgia del Sud consigliarono a Shackleton di rimandare la partenza all’anno successivo, perché non avevano mai visto il ghiaccio estendersi così a nord nel mare di Weddel, che l’Endurance avrebbe dovuto attraversare per raggiungere l’Antartide. Ma l’estate nell’emisfero meridionale stava per cominciare e Shackleton temeva che, aspettando, non sarebbe mai riuscito ad attraversare il continente.
Neanche sul lavoro le cose gli andarono bene. Provò con il giornalismo e con la politica, e poi vari investimenti. Tutto senza successo
L’Endurance salpò il 5 dicembre 1914. Il ghiaccio nel mare di Weddel c’era tutto l’anno, il problema era la quantità. Dopo solo due giorni di navigazione, 1.500 chilometri più a nord del previsto, l’Endurance si scontrò con il pack, lo strato di ghiaccio marino prodotto dalla banchisa che si sgretola.
Nel primo mese la nave riuscì ogni tanto ad aprirsi dei varchi e a farsi strada. A metà gennaio del 1915 arrivò così vicina all’Antartide da avvistare un grande ghiacciaio con una baia adatta allo sbarco. Ma Shackleton, in disaccordo col capitano, disse che sbarcare lì avrebbe allungato troppo la traversata via terra. Proseguirono.
Si sarebbero evitate molte disavventure se Shackleton avesse ascoltato di più il capitano neozelandese Frank Worsley, 42 anni, un navigatore eccezionale che più volte salvò la vita dell’equipaggio. Ma forse oggi non ci sarebbe nessuna storia da raccontare. “Quando erano vicini alla terraferma riuscivano a vedere le montagne all’interno, ed erano a un giorno di navigazione dal continente. A un certo punto, però, il ghiaccio si chiuse”, racconta Strager.
Erano bloccati. Individuarono una chiazza di mare aperto ad appena quattrocento metri di distanza e si misero al lavoro con picconi e seghe per allentare la morsa del ghiaccio intorno alla nave, che cercava di farsi strada con i motori al massimo. Tutto inutile.
“Shackleton sapeva che per mantenere alto il morale era necessario creare una routine quotidiana”, spiega Strager. A tutti furono assegnati dei compiti: bisognava fare le pulizie, la manutenzione della nave e qualcuno doveva andare a caccia di foche e pinguini. Ma si giocava anche a calcio sul ghiaccio, si faceva teatro e si organizzavano corse di cani, letture ad alta voce e, una volta alla settimana, si ascoltava musica dal grammofono. “Di tempo ce n’era a volontà, perché in quella stagione non si vede mai il sole. E non avevano alcun collegamento radio. Non c’era molto da fare e andavano a letto presto”, aggiunge Strager.
La fama della spedizione è dovuta anche alle numerose e fantastiche immagini scattate dal fotografo ed esploratore Frank Hurley che, in brevi frammenti di film e centinaia di foto, catturò i momenti di vita quotidiana dell’equipaggio in quella situazione d’emergenza. E le immagini avevano un’enorme importanza perché parte dei finanziamenti della spedizione provenivano da accordi per successive conferenze e diritti d’autore. Ma Hurley fu fondamentale anche perché inventò una stufa in grado di bruciare il grasso di foca, uno strumento essenziale per la sopravvivenza di tutti dato che non si poteva più raggiungere la cucina.
A poco a poco il pack si strinse tanto intorno alla nave da farla inclinare. Nell’ottobre 1915 si aprirono delle falle in molti punti dello scafo e si cominciò a portare a terra attrezzature e rifornimenti. Un paio di giorni dopo toccò all’equipaggio. Il carpentiere estrasse i chiodi dalla nave perché potevano tornare utili, e furono rimosse le vele per rinforzare le tende. Infine, Shackleton e Hurley misero in salvo 120 negativi su pesanti lastre di vetro e distrussero i quattrocento rimanenti per evitare che il fotografo fosse tentato di tornare a prenderli. Per il resto del viaggio avrebbe avuto a disposizione una macchina fotografica tascabile e tre rullini.
Tutto ciò che avevano ora erano tre scialuppe di salvataggio, 69 cani e un gatto. E possibilità di sopravvivenza minime. “Avevano una mappa”, racconta Hanne Strager. “Si trovavano nella baia di Vahsel e sapevano che su alcune isole a nord della penisola antartica passavano a volte le baleniere, per cui se fossero arrivati lì prima o poi qualcuno li avrebbe trovati. Tiravano a sorte per i sacchi a pelo e chi perdeva dormiva in sacchi di lana di renna, viscidi e freddi”.
I piantagrane
Nell’equipaggio, naturalmente, c’erano anche persone difficili. Thomas Orde-Lees, militare ed esperto di motori, era un arrogante e nessuno lo sopportava. E lo scozzese Harry McNish era un carpentiere navale d’infinito talento ma con un brutto carattere: anche se aveva solo quarant’anni tutti lo chiamavano “il vecchio”, e con le sue continue lamentele era una spina nel fianco per Shackleton.
Tutto ciò che avevano erano tre scialuppe di salvataggio, sessantanove cani e un gatto. E possibilità di sopravvivenza minime
Il capo della spedizione aveva un suo sistema per trattare i piantagrane. Li faceva dormire nella sua tenda, dove ascoltava le loro lamentele senza che pesassero sugli altri. Era anche bravo a capire quando qualcuno aveva bisogno di una pausa, e allora diceva: “È il momento di una cioccolata calda per tutti”.
Il ghiaccio girava in senso orario e spostava la nave di undici chilometri al giorno, all’inizio verso ovest e poi verso nord. Il capitano Frank Worsley proponeva di lasciarsi trasportare a nord, da dove in primavera, quando il ghiaccio si sarebbe rotto, avrebbero potuto provare a navigare verso una delle isole. Shackleton sosteneva invece che, per tenere alto il morale degli uomini, era meglio partire subito a piedi (percorrendo centinaia di chilometri) verso un’isola chiamata Paulet, dove erano stati predisposti dei rifornimenti. Si decise così.
Il 30 ottobre 1915 si misero tutti in marcia con due delle scialuppe cariche di provviste al seguito. Ma la superficie del ghiaccio era “un labirinto di gole e burroni”, come racconterà il fotografo Hurley, e dopo che in tre giorni di estenuante fatica avevano percorso appena tre chilometri, nemmeno Shackleton vedeva l’utilità di proseguire. Decisero così di recuperare la terza scialuppa e accamparsi di nuovo. E da lì, il 21 novembre, guardarono l’Endurance che affondava.
La speranza di Shackleton era di navigare per l’ultimo tratto verso l’isola Paulet, quattrocento chilometri a nord, appena si fosse aperto un varco nel ghiaccio. Ma ora il ghiaccio li stava spostando verso est e, per evitare che il tratto da navigare in seguito diventasse troppo lungo, dopo appena un mese si misero di nuovo in marcia. Ormai però il sole era più alto e il ghiaccio era molle e pieno di spaccature.
“Fu uno sforzo incredibilmente duro e infruttuoso”, racconta Hanne Strager. “Le scialuppe di salvataggio continuavano a incastrarsi, gli uomini erano fradici e non riuscivano ad avanzare”. Un giorno il carpentiere McNish si rifiutò di procedere. Shackleton temeva un ammutinamento e dovette usare parole dure per rimetterlo in riga. Ci vollero sette giorni di marcia, in cui percorsero solo dodici chilometri, prima che Shackleton si arrendesse e stabilisse un nuovo accampamento, che chiamò Campo della pazienza.
Era passato quasi un anno da quando l’Endurance era rimasta intrappolata nel ghiaccio. Le provviste scarseggiavano. Con grande dispiacere di molti, la maggior parte dei cani era stata abbattuta perché gli uomini non ne potevano più di carne di foca. All’inizio di aprile del 1916 mangiarono gli ultimi. “Per tutta l’estate ebbero il sole 24 ore su 24, il che forse rendeva la situazione sopportabile, ma a poco a poco si erano spinti più a nord, dove il ghiaccio diventava sempre più fragile”, racconta Strager.
Ogni giorno andavano alla deriva con il ghiaccio per undici chilometri. “Il ghiaccio alla deriva è stato un buon amico”, scrisse Shackleton nel suo diario, “ma è quasi alla fine del suo viaggio e potrebbe rompersi da un momento all’altro”. Mettendo le barche in acqua troppo presto rischiavano di rimanere intrappolati tra due lastre. Ma, aspettando troppo, la banchisa poteva diventare così molle da non reggerle e le avrebbe fatte cadere in acqua. E così avvenne una sera. Il ghiaccio cedette, le barche finirono in acqua e gli uomini si misero a remare.
In realtà Shackleton voleva puntare verso la lontana isola Deception, dove c’era una chiesa di legno per i cacciatori di balene: con quel legno si poteva costruire un’imbarcazione in grado di navigare in mare. Ma la rotta era lunga e difficile. Avevano poche scorte. La temperatura era sottozero e nelle barche entravano spruzzi di acqua gelida. Così si diressero verso l’isola Elefante, che era più vicina e, di fatto, l’unica scelta possibile.
Spesso dovevano sollevare le barche sulla banchisa e aspettare che il ghiaccio si diradasse per evitare di essere schiacciati tra i blocchi. Trascorsero le prime tre notti sulla banchisa, ma già dalla prima era chiaro che non erano al sicuro. Shackleton non riusciva a dormire. “Una sensazione indefinibile di disagio mi ha spinto a lasciare la tenda verso le 23 e a guardarmi intorno”, scrisse in seguito. “Ho cominciato a camminare per avvertire la vedetta di tenere d’occhio le crepe nel ghiaccio, e mentre passavo davanti alla tenda dei marinai la banchisa si è sollevata sulla cresta di un’onda e ha ceduto proprio sotto i miei piedi”.
La spaccatura si era estesa fin sotto la tenda. Due marinai erano finiti in acqua, uno ancora nel suo sacco a pelo. Il primo era riuscito a risalire sulla banchisa. Shackleton riuscì a tirare su il secondo, quello nel sacco a pelo, un attimo prima che la spaccatura si richiudesse.
Nelle tre notti successive l’equipaggio rimase nelle barche, e cominciò a perdere colpi, fisicamente e mentalmente. La temperatura scese fino a 30 gradi sottozero. A causa della partenza precipitosa, non c’era stato il tempo di portare con sé del ghiaccio per l’acqua potabile, così gli uomini si dissetavano bevendo sangue di foca. La razione giornaliera consisteva in un biscotto succhiato a pranzo e mangiato a cena, come avrebbe scritto in seguito uno di loro.
Molti avevano sulla pelle piaghe dolorose a causa dell’acqua salata che li bagnava incessantemente. Avevano sete e le labbra gonfie e sanguinanti e, secondo Frank Wild, comandante in seconda di Shackleton, “almeno metà dell’equipaggio sta perdendo la ragione. Per fortuna non sono violenti, ma solo indifesi e senza speranza”.
Quando il capitano Worsley, dopo quaranta ore consecutive al timone, ebbe bisogno di dormire, gli uomini dovettero aiutarlo a sdraiarsi. Shackleton temeva che non tutti sarebbero riusciti ad arrivare vivi al mattino. Ma il 15 aprile 1916 gli uomini remarono fino alla costa, scesero barcollando e crollarono a terra. Era la prima volta in 497 giorni che mettevano i piedi sulla terraferma. “Uno ebbe un attacco di cuore mentre scendeva, probabilmente a causa dello sforzo eccessivo. E soffrivano di fame, sete e congelamento”, racconta Hanne Strager. “Ancora poche ore in mare e sarebbero morti”.
Il viaggio più audace
Nei dieci giorni successivi allo sbarco, mentre riprendevano le forze, si resero conto di essere a un punto morto. Dall’isola Elefante non passava mai nessuno, neanche i cacciatori di balene. Bisognava fare qualcosa. Shackleton chiese aiuto al carpentiere Harry McNish, per rimuovere alcune tavole dalle due scialuppe più piccole e usarle per costruire un ponte e issare un albero sulla barca più grande.
L’ultimo tratto del viaggio, forse il più pericoloso, doveva riportarli al punto di partenza: la stazione baleniera sull’isola della Georgia del Sud, da cui erano salpati quasi diciassette mesi prima. Shackleton e cinque uomini scelti avrebbero provato a raggiungerla in barca, per poi andare a cercare aiuto per il resto dell’equipaggio, che sarebbe rimasto sull’isola Elefante. Avrebbero dovuto navigare per 1.300 chilometri in uno dei mari più ostili, dove le tempeste raggiungono una forza colossale. Sopravvivere al viaggio era già di per sé poco probabile. Sopravvivere ma mancare anche di poco la Georgia del Sud voleva dire essere comunque spacciati.
Il contributo del capitano Worsley come navigatore era imprescindibile. Lo stesso valeva per Harry McNish, il carpentiere, che Shackleton non voleva lasciare sull’isola, dove avrebbe potuto causare problemi. L’irlandese Tom Crean era il più grosso e il più forte degli uomini, infine c’erano John Vincent, un tipo rissoso che Shackleton da tempo teneva d’occhio, e il giovane Timothy McCarthy, forse il più ottimista di tutti. In una delle foto di Frank Hurley del 24 aprile 1916 si vedono ventidue sagome in piedi sugli scogli che salutano i loro compagni in partenza.
Le due settimane seguenti furono per questo gruppetto una lotta contro onde mostruose e vento violento che scaricavano acqua salata su una barca dove tutto era fradicio. Si formò una crosta di ghiaccio sulla vela e uno spesso strato sulla barca. “Il vento urlava letteralmente mentre strappava via le creste delle onde”, scriverà Shackleton. Gli uomini resistevano solo pochi minuti al lavoro sul ponte prima di dover scendere al riparo sottocoperta dove tutto era comunque gelato e bagnato. Ma questo era solo un disagio. La vera sfida era trovare la rotta, compito che toccava al capitano Frank Worsley. “Senza le sue abilità di navigatore non sarebbero mai arrivati alla Georgia del Sud”, commenta Hanne Strager.
Per stabilire la loro posizione, Worsley doveva conoscere l’ora e rilevare l’altezza del sole con il sestante. Ma ci voleva il sole, che non si vedeva quasi mai. Anche vedere l’orizzonte in mezzo alle onde era un’impresa che il capitano riusciva a compiere solo per pochi attimi, mentre due uomini lo sorreggevano. Poi, sottocoperta, doveva lavorare sulle carte per capire dove si trovavano.
Nei primi tre giorni Worsley non riuscì a rilevare l’altezza del sole; in sedici giorni di viaggio ce l’avrebbe fatta solo quattro volte. Tracciò comunque sulla carta una rotta che alla fine li portò in vista della terraferma. A quel punto convinse gli altri a non sbarcare subito, anche se non avevano più acqua, ma ad aspettare due giorni che la tempesta si calmasse, per non rischiare di fracassarsi contro gli scogli. “Non fu una decisione facile, perché stavano morendo di fame, freddo e sete”, racconta Strager. E a terra li aspettavano altri problemi. “Arrivarono sulla costa ovest, ma la stazione baleniera era sulla costa est, e la Georgia del Sud è un’isola lunga e stretta, per cui circumnavigarla era fuori questione”.
Fattore terzo uomo
All’arrivo, McNish il carpentiere e Vincent l’attaccabrighe erano al limite delle forze, e per cinque giorni gli uomini rimasero fermi mangiando albatros e riprendendo un po’ le forze. Poi navigarono per un breve tratto fino a un fiordo profondo da dove la traversata dell’isola era più corta, e lì aspettarono altri quattro giorni. Il giovane e ottimista Timothy McCarthy rimase a occuparsi dei due compagni più in difficoltà, mentre Shackleton, il capitano Worsley e Tom Crean partirono prima dell’alba. L’isola è attraversata da una catena montuosa che raggiunge i tremila metri, e loro furono i primi a tentare di attraversarla. Senza una mappa.
Più volte si accorsero di aver sbagliato e tornarono indietro. Salirono e scesero tra speroni di roccia. Sotto gli stivali avevano viti di ottone tolte dalla nave per riuscire a camminare su ghiaccio e neve, ma la fatica si faceva sentire. Shackleton sapeva che se si fossero addormentati rischiavano di non svegliarsi più, e si offrì di rimanere sveglio mentre gli altri due facevano un pisolino di mezz’ora. Poi, dopo cinque minuti, li svegliò dicendo “avete dormito mezz’ora, ora si riparte”.
Shackleton scriverà di aver avuto più volte la strana sensazione che qualcuno li stesse seguendo, mentre attraversavano l’isola. Una presenza protettiva, come un angelo custode. Una sensazione che anche altri esploratori e alpinisti avrebbero poi descritto. Gli psicologi lo considerano un fenomeno inconscio che aiuta ad affrontare situazioni critiche. E da quando T.S. Eliot, nel poema La terra desolata, si chiese “Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?”, si parla perfino del “fattore terzo uomo”.
Una sera il gruppo doveva attraversare una valle prima che facesse buio. La strada era molto ripida ma non c’era tempo per tornare indietro, quindi decisero di rischiare. “Scesero di culo”, spiega Hanne Strager, “seduti sulla corda arrotolata e tenendosi l’uno all’altro come su un bob”. Si buttarono giù a tutta velocità urlando, e quando finalmente si fermarono scoppiarono a ridere. “Bastava un burrone e sarebbe stata la fine. Ma sapevano che non sarebbero sopravvissuti un altro giorno lassù”. Dopo aver camminato per tutta la notte, alle sette del mattino Shackleton disse che sentiva qualcosa, un fischio come quelli che chiamano la gente al lavoro nella stazione baleniera. Un segnale che la mattina viene ripetuto ogni quarto d’ora. Lo sentivano tutti e tre. “Era il primo suono prodotto da altri uomini che ci arrivava alle orecchie da quando avevamo lasciato la baia di Stromness, nel dicembre 1914”, scriverà Shackleton.
Barcollando tra le case di Stromness i tre barbuti superstiti con la pelle annerita e i capelli scompigliati spaventarono i bambini che incontravano, tanto da farli scappare. Un vecchio pescatore norvegese ricorderà nelle sue memorie che il responsabile della stazione baleniera chiese a Shackleton: “E tu chi diavolo sei?”.
“Non mi riconosci?”, rispose Shackleton.
Il gruppo doveva attraversare una valle prima che facesse buio, ma la strada era troppo ripida e non c’era tempo per tornare indietro
“La tua voce l’ho già sentita”, ribatté il direttore.
“Mi chiamo Shackleton”.
“A quel punto”, scrive il vecchio pescatore, “mi voltai e piansi”. Tutto risolto? In realtà, no. Ora bisognava andare a prendere gli altri ventidue uomini sull’isola Elefante. Ma non era facile, perché poche persone erano disposte a mettere a disposizione una nave. Le prime tre volte che Shackleton e Worsley riuscirono a trovarne una, furono fermati dalla banchisa e dovettero rinunciare.
Sull’isola Elefante Frank Wild aveva il comando e aveva l’ordine di tentare di navigare verso l’isola Deception se Shackleton non fosse arrivato per l’inizio della primavera. Il tempo stava per scadere.
Il 30 agosto il capitano Worsley e Shackleton erano a prua della nave cilena Yelco in vista dell’isola Elefante. Erano passati 128 giorni da quando l’avevano lasciata. E venti mesi dall’inizio della spedizione fallita. Guardarono verso terra con il binocolo. Un filo di fumo si alzava dalla baia. Qualcuno stava preparando il pranzo: schiena di foca bollita, scopriranno in seguito. All’improvviso gli uomini a terra avvistarono la nave: corsero verso la battigia; gridarono, agitarono le braccia, saltarono. Mentre la baia lentamente si allargava nei loro binocoli, Worsley e Shackleton provavano disperatamente a contare quelle sagome. Erano ventidue. Tutti vivi. Solo quattro non saranno nominati da Shackleton per la cosiddetta medaglia polare. Tra questi il carpentiere McNish e John Vincent. Secondo Shackleton, non erano stati leali. Ma al ritorno nel Regno Unito nessuno della spedizione fu accolto come un eroe. Il mondo aveva altro a cui pensare. La prima guerra mondiale infuriava ancora. Diversi membri della spedizione si arruolarono nell’esercito britannico, e tre di loro morirono. E quando finalmente arrivò la pace, e alle latitudini temperate si rimise in moto la ruota della civiltà, fatta di ritmi abituali e problemi risolvibili, nemmeno Ernest Shackleton rimase indifferente. Ancora una volta l’inquietudine lo assalì.
Di nuovo in viaggio
Nel settembre 1921, all’età di 47 anni, partì per un’altra spedizione. Appena arrivato nella Georgia del Sud, il 4 gennaio 1922, ebbe un collasso. Il mattino seguente il medico della spedizione, Alexander Macklin, un veterano dell’Endurance, gli diagnosticò un sovraffaticamento.“Mi chiedi sempre di rinunciare a qualcosa”, si lamentava Shackleton. “A cosa devo rinunciare stavolta?”. La risposta del medico fu secca: “All’alcol, prima di tutto”. Pochi minuti dopo Shackleton ebbe un infarto e morì.
L’esploratore non raggiunse nessuno degli obiettivi che si era posto ma, secondo Hanne Strager, probabilmente è il modo in cui gestì i suoi fallimenti ad averlo reso famoso, più di quanto avrebbero fatto le sue spedizioni se fossero state un successo. “Quello che gli è davvero riuscito è essere un eroe. Si lasciò trasportare dallo spirito che si respirava in Inghilterra all’epoca, per cui se fai le cose nel modo giusto hai già vinto, non importa se manchi la meta. È la sportività britannica, di cui Shackleton fu un campione assoluto”, dice Strager. “In questo”, conclude, “il suo è stato un vero successo”. ◆fc, pb
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Questo articolo è uscito sul numero 1471 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati