“Questa guerra è la più importante nei 75 anni di esistenza del paese”. Avi Himi non usa mezzi termini: nel giro di un mese Israele è scivolato nel peggior momento della sua storia, ha detto al quotidiano israeliano Haaretz il presidente dell’ordine degli avvocati israeliano, una delle figure di punta del movimento di massa che contesta la riforma della giustizia promossa dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. La riforma mira a indebolire la corte suprema, custode delle leggi fondamentali che fanno da costituzione dello stato israeliano. Da quando un mese fa si è insediato il nuovo governo – di cui fanno parte ministri che aderiscono a un’ideologia ultranazionalista fino a poco tempo fa vietata nel paese – manifestazioni di decine di migliaia di israeliani stanno scuotendo a più riprese le città israeliane. In gioco, secondo i manifestanti, c’è la difesa della democrazia. “Abbiamo perso quello che per noi è più prezioso. Dal mio punto di vista, la democrazia è una causa per la quale vale la pena morire. Non vivremo in una dittatura, punto e basta”, insiste Himi.
Le sue parole arrivano al momento giusto per milioni di palestinesi – in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza, ma anche all’interno dei confini israeliani – che quotidianamente subiscono le conseguenze di questo regime a doppia velocità, capace di dare il peggio di sé quando si tratta di gestire la “minaccia araba”. L’ultimo esempio di questa violenza senza nome e senza freni è del 26 gennaio. Nel campo profughi di Jenin gli abitanti si sono svegliati sulla scena di un massacro. Nove persone sono state uccise in un’operazione dell’esercito israeliano. Una ventina sono state ferite. Nulla di nuovo: in questa regione del nord della Cisgiordania i raid sono quasi quotidiani. Ma stavolta il bilancio delle vittime è il più grave dalla fine della seconda intifada nel 2005.
Una violenza che chiama altra violenza. Nello stesso giorno è stato ucciso un altro palestinese. Nella notte Hamas ha lanciato dei razzi dalla Striscia di Gaza verso Israele, a cui sono seguiti i bombardamenti sul territorio palestinese. Il giorno dopo a Gerusalemme Est un palestinese di 21 anni ha ucciso sette persone davanti a una sinagoga. Secondo le autorità dello stato ebraico si tratta del peggior attacco commesso contro gli israeliani dal 2008. Il giorno dopo un bambino di tredici anni ha ferito due israeliani, padre e figlio, a Gerusalemme. In tutta la Cisgiordania i coloni israeliani hanno commesso molti atti di “ritorsione”: a Ramallah sono state incendiate una casa e diverse auto, altrove quasi 120 macchine sono state colpite dalle pietre e ventidue negozi sono stati attaccati, secondo l’agenzia ufficiale palestinese Wafa. Senza contare la morte, avvenuta il 29 gennaio nei pressi di una colonia israeliana in Cisgiordania, di un palestinese di diciott’anni ucciso da una “squadra di sicurezza civile” israeliana.
Rimettere in discussione
Ma le fratture in questo territorio che si estende dal mar Mediterraneo al mar Morto non si riducono ai conflitti tra israeliani e palestinesi. La sequenza di eventi lo ricorda: la stessa società israeliana è attraversata da divisioni sempre più inconciliabili. Nel 1948 i padri fondatori avevano immaginato uno stato “ebraico e democratico”. Ma ora bisogna scegliere. Tra uno stato ebraico, a spese di una minoranza araba, e uno democratico, costretto a diluire la sua essenza ebraica per rispettare la legge dei numeri. Il nuovo governo non nasconde il suo attaccamento alla supremazia ebraica. Da anni Benjamin Netanyahu è a capo di un processo per affermarla, che rimette in discussione perfino i fondamenti ugualitari dello stato ebraico. Nel 2018, in occasione dell’adozione della legge che definisce Israele come “stato nazione del popolo ebraico”, Ahmad Tibi, deputato arabo della knesset, ha dichiarato: “Israele è uno stato democratico per gli ebrei e uno stato ebraico per gli arabi”.
“Il dibattito sull’opposizione tra ebrei e democratici è stato praticamente risolto. L’opinione pubblica sostiene ampiamente questa coalizione e il suo programma”, afferma Khaled Elgindy, direttore del programma Palestina-Israele al Middle East institute. “La divisione principale riguarda la figura di Netanyahu”.
Oggi più che mai domina l’impressione che lo stato ebraico sia a una svolta della sua storia. Incoraggiata all’interno dello stato stesso, la violenza prosegue ed è legittimata, mentre comincia a profilarsi il peggio. “L’attuale governo israeliano accelererà e aggraverà le politiche già messe in atto da quelli precedenti”, osserva Inès Abdel Razek, analista politica di Al Shabaka, un centro di ricerca palestinese. “Tutto questo sarà realizzato attraverso nuove leggi e politiche: tutta la burocrazia incentrata sulla colonizzazione e sull’occupazione sarà rafforzata”.
Risposta forte
Lo dimostra la risposta dell’esecutivo israeliano agli eventi degli ultimi giorni. Ancora una volta si esegue la punizione collettiva. Il 29 gennaio le forze israeliane hanno messo sotto sequestro, prima della sua demolizione, la casa di famiglia dell’autore della strage di due giorni prima a Gerusalemme Est. La madre e altre quattro persone sono state arrestate. È stata confiscata, in vista della demolizione, anche la casa del palestinese che ha ferito i due israeliani. Finora solo le abitazioni di chi aveva commesso un omicidio erano sottoposte a questo trattamento dopo una procedura legale.
Promettendo una “risposta forte” agli eventi degli ultimi giorni, Netanyahu ha annunciato che tutte le “famiglie di terroristi che appoggiano il terrorismo” saranno private del diritto alla previdenza sociale, mentre il governo sta discutendo la revoca delle loro carte d’identità israeliane. Inoltre, l’esecutivo ha deciso di facilitare il rilascio del porto d’armi per i civili israeliani.
In questo contesto, gli attacchi commessi da “lupi solitari palestinesi” non faranno che aumentare, sostiene Tahani Moustafa, esperto di Palestina dell’International crisis group. “I palestinesi reagiranno, siamo in un momento della storia in cui sono senza leader: l’Autorità Nazionale Palestinese sta attraversando la peggior crisi della sua storia da un punto di vista politico ed economico, la dirigenza di Al Fatah è troppo occupata negli scontri per la successione, e Hamas non si è ancora ripresa dall’ultima guerra, e per il momento tenta di evitare uno scontro. Questo significa che c’è un vuoto”. ◆ fdl
◆ Il segretario di stato statunitense Antony Blinken è atterrato a Tel Aviv il 30 gennaio 2023. È la seconda tappa di un viaggio in Medio Oriente cominciato il giorno prima in Egitto e previsto da tempo. Blinken ha incontrato al suo arrivo il premier israeliano Benjamin Netanyahu a Gerusalemme e Abu Mazen, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, il giorno dopo a Ramallah. Ha invitato entrambi a evitare di “alimentare le tensioni” e ha ribadito la necessità della soluzione dei due stati. Ma secondo un sondaggio pubblicato il 24 gennaio dal Palestinian center for policy and research di Ramallah il sostegno pubblico per la soluzione dei due stati non è mai stato così basso: è a favore solo il 33 per cento dei palestinesi e il 34 per cento degli israeliani, mentre sono contrari i due terzi dei palestinesi e il 53 per cento degli israeliani. Arab News
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Questo articolo è uscito sul numero 1497 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati