Ahmad (il nome è falso, come altri in questo articolo) ha settant’anni ed è appoggiato a una sedia di plastica, davanti al suo negozio di thobe palestinesi (abiti tradizionali) sulla strada principale del centro storico di Amman. A prima vista sembra di poche parole e non si prende neppure la briga d’invitare i passanti a entrare nel suo negozio. Ma basta nominare Hamas (il movimento islamista palestinese responsabile degli attacchi a Israele del 7 ottobre 2023) perché diventi inarrestabile: “Hamas non difende solo la nostra terra, ci ha restituito l’onore!”. Con voce tonante, questo giordano-palestinese originario di Ramla, una città nel centro di Israele, assicura che dopo il 7 ottobre tutta la capitale giordana la pensa come lui. Ahmad esagera. Ma la realtà non sembra poi così lontana.

Qui la glorificazione della “resistenza” si mescola al sostegno unanime ai “nostri fratelli di Gaza”. In questa città in cui la stragrande maggioranza della popolazione è di origine palestinese, gli abitanti vivono da quasi nove mesi al ritmo della guerra a Gaza. I caffè Starbucks e i McDonald’s sono deserti. Alcune ragazze sfoggiano al collo un ciondolo con la mappa della Palestina ai tempi del mandato britannico. Nelle strade intasate dal traffico, sul retro di molte auto si leggono scritte inneggianti al 7 ottobre.

Come ogni venerdì

Ad Amman lo scoppio della guerra ha creato un’onda d’urto e ha risvegliato un fermento latente. “Nei giorni successivi al 7 ottobre qui non c’era anima viva. O restavi a casa o andavi a manifestare in centro oppure davanti all’ambasciata israeliana”, racconta Hussein, 68 anni, che gestisce un negozio di alimentari nel quartiere di Jabal Amman, vicino al centro storico. Poi la vita ha ripreso il suo corso, negozi e ristoranti hanno ricominciato ad accogliere clienti. Ma l’impeto di solidarietà con Gaza non si è attenuato. Così come le lodi a Hamas, eretto a difensore della causa palestinese.

Davanti alla moschea del re Hussein, punto di riferimento del centro storico, gli abitanti si riuniscono sotto un sole rovente. “Gaza la magnifica vincerà”, grida uno di loro nella giornata di mobilitazione per il territorio palestinese. Centinaia di uomini stendono a terra il loro tappeto, formando delle file che occupano tutta la piazza. Pregheranno qui, un gesto di protesta messo in atto solo quando una guerra agita i territori palestinesi.

Seduta sul marciapiede, Maha, sulla quarantina, si asciuga le lacrime con un fazzoletto: “Mi sento inutile a non poter aiutare la gente intrappolata a Gaza”. Anche lei è originaria della Striscia, ma vive da sempre in Giordania con un permesso di soggiorno rinnovabile ogni due anni, a differenza della maggioranza dei palestinesi del regno, arrivati nel 1948, e dei loro discendenti, che hanno la cittadinanza. Prima del 7 ottobre, Maha non era particolarmente favorevole a Hamas. “Non avevo un’opinione in merito”, afferma. Oggi “sono al 100 per cento con loro. Hamas è parte della resistenza, mi rende orgogliosa”.

In piazza si sono radunate centinaia di persone, come ogni venerdì dopo la preghiera di mezzogiorno, sotto gli occhi dei poliziotti che circondano l’area. Due giovani palestinesi arrivate da Haifa per fare qualche giorno di vacanza nel regno chiedono ai passanti perché la piazza sia piena di gente. Appena lo capiscono, si allontanano. “Non possiamo parlare con i giornalisti”, dicono. “Il governo israeliano controlla tutti i palestinesi con cittadinanza israeliana. Non possiamo pubblicare niente sui social network. Anche condividere dei versetti del Corano equivale a sostenere la Palestina”.

Comincia la protesta. Secondo i partecipanti è la più grande mobilitazione da settimane. “Il discorso di Abu Obeida ci ha fatto venire qui in massa”, spiega Selina, una studente che sventola la bandiera palestinese ed è orgogliosa di non aver mancato una manifestazione dall’inizio della guerra. Tre giorni prima, il 23 aprile, il misterioso portavoce delle brigate Ezzedin al Qassam, braccio armato di Hamas, con il volto coperto da una kefiah rossa e dalla fascia delle brigate, aveva pronunciato un discorso in occasione dei duecento giorni di guerra. Salutando le “amate masse giordane”, le invitava ad “accrescere la loro forza, perché la Giordania è parte di noi e noi siamo parte di lei”. Le sue parole sono scritte sui volantini, mentre gli slogan scanditi dalla folla gli rendono omaggio: “Oh Abu Obeida, guardaci”, “Ti abbiamo ascoltato, uomo mascherato”, “Tutti i giordani stanno con la resistenza”.

In questa manifestazione a favore di Gaza, che ha l’aria di un plebiscito per Hamas, si riconosce facilmente la presenza di ufficiali dei mukhabarat (i servizi segreti), con i loro baffi curati e i mocassini neri ai piedi. Ossessionato dall’equilibrio e dalla stabilità nella regione, il regno è sempre stato diffidente nei confronti di Hamas, il cui ufficio politico è stato espulso dal paese nel 1999, e del ramo locale dei Fratelli musulmani, sciolto nel 2020. Le autorità della Giordania, dove quasi la metà della popolazione è di origine palestinese, cercano a tutti i costi di evitare che il paese diventi per queste persone una patria alternativa.

In piedi sul camion che guida il corteo, rappresentanti di vari partiti si passano a turno il microfono. Dal 7 ottobre cinque forze politiche, dall’estrema sinistra alla destra, si sono simbolicamente coalizzate con l’obiettivo di organizzare questi raduni settimanali e di esprimere la loro unità. Tra loro c’è il principale gruppo di opposizione nel paese, il Fronte d’azione islamico (Fac), braccio politico del ramo giordano dei Fratelli musulmani, legati a Hamas. Qui i partiti palestinesi non sono tollerati, ma hanno i loro equivalenti giordani. “Anche se i Fratelli musulmani sono stati smantellati, il Fac rimane, seppure fortemente ridimensionato”, osserva Jalal al Husseini, ricercatore associato all’Institut français du Proche-Orient (Ifpo) di Amman. “È l’unico vero partito di massa in un paese in cui la vita politica è strettamente controllata e il pluralismo non si è ancora radicato”.

Una manifestazione a sostegno della Palestina ad Amman, il 18 ottobre 2023 (Exxxxs, Bloomberg/Getty)

La minaccia iraniana

Qualche settimana prima le autorità giordane avevano violentemente represso il tentativo d’assalto dei manifestanti alla recinzione dell’ambasciata israeliana, nel lussuoso quartiere di Rabieh, e avevano blindato la zona. Solo una decina di persone continua ad andare ogni sera a protestare, fermandosi a più di un chilometro di distanza dalla sede diplomatica. “Ufficialmente il governo è schierato contro la guerra a Gaza e a favore di un cessate il fuoco immediato e dei negoziati. Autorizza la popolazione a manifestare, ma a condizione che non sia attaccata l’ambasciata israeliana, considerata una linea rossa”, commenta Al Husseini. “Un attacco equivarrebbe a mettere in discussione il trattato di pace di Wadi Araba firmato tra i due paesi nel 1994, che favorisce gli interessi economici giordani”.

È un esercizio di equilibrismo rischioso. Le autorità non sono pronte a rinunciare ai risultati ottenuti con Israele, ma nelle piazze la rabbia che potrebbe essere reindirizzata contro il regno è palpabile. Non potendo criticare il re, che è intoccabile, molti se la prendono con il governo.

Con in testa la kefiah rossa e bianca tipica dei beduini, Ahmad, originario della fiorente città di Salt, a nordovest di Amman, non si preoccupa di abbassare il tono di voce: “La Giordania ha commesso un errore abbattendo i droni iraniani che attraversavano i nostri cieli. Dovevano raggiungere la loro destinazione”. Unico paese arabo ad aver ostacolato l’attacco di centinaia di droni e missili lanciati da Teheran verso Israele la notte del 13 aprile, il regno è stato accusato di tradimento. Amman si è difesa sostenendo che la sua sovranità era minacciata.

Ma è un argomento divisivo. In un paese che ha fatto della pace il suo principale punto di forza, una parte della popolazione, compresi dei sostenitori di Hamas, ritiene che le autorità abbiano agito nel modo giusto. Come Mohammad, di origini palestinesi, che nel suo negozio di abiti tradizionali implora Dio di aiutare la “resistenza” ma aggiunge una velata critica all’Iran: “Non siamo preparati alla guerra e non abbiamo le capacità per combatterne una. Non permetteremo a nessuno stato di violare il nostro spazio aereo”.

Hana, con un turbante colorato, occhi blu penetranti e capelli tinti di biondo, non passa inosservata in mezzo alla folla. È una giordana cristiana, una minoranza che rappresenta meno del 10 per cento degli abitanti del regno. Tra frasi di sostegno alla Giordania e al re Abdallah II, la donna si scaglia sia contro l’Iran sia contro il movimento islamista a Gaza: “Israele sta commettendo dei massacri orribili che nessun essere umano, musulmano o cristiano, potrebbe accettare. Ma Hamas si è trincerato nei tunnel lasciando indifeso il suo popolo. E in più lavora con l’Iran, che cerca di trascinare il nostro paese in guerra”.

Per la Giordania, uno degli stati arabi più filo-occidentali, a lungo considerato un pilastro della stabilità in Medio Oriente, la minaccia iraniana è quasi esistenziale. Già nel 2004 il re Abdallah II aveva messo in guarda contro la creazione di una “mezzaluna sciita” dall’Iran al Libano. All’epoca questi timori rasentavano la paranoia, oggi invece la presenza di milizie controllate da Teheran in Iraq e nella vicina Siria, così come l’aumento delle forniture clandestine di armi dall’Iran alla Cisgiordania preoccupano molti. Tanto più che dall’inizio della guerra alcuni esponenti dell’“asse della resistenza” avanzano l’ipotesi di una destabilizzazione della Giordania. Il 1 aprile le Brigate di Hezbollah, un’influente milizia sciita irachena filoiraniana, hanno minacciato di armare dodicimila giordani per attaccare Israele dopo il bombardamento attribuito allo stato ebraico contro l’edificio consolare dell’ambasciata iraniana a Damasco.

I nuovi idoli

Nel regno la diffidenza si è trasformata in ostilità verso Teheran e i musulmani di confessione sciita, che sono pochissimi nel paese. Dietro al bancone del suo negozio di alimentari a Jabal Amman, Hussein, sessant’anni, s’infuria: “L’Iran e gli sciiti vogliono uccidere tutti i sunniti. L’hanno fatto in Siria, nello Yemen, e così via. E ora sono ai nostri confini”. Ma ogni scusa è buona per difendere Hamas, anche se riceve soldi e armi da Teheran. “Nessun governo arabo l’ha appoggiato: Hamas non aveva altra scelta che accettare il suo aiuto”, dice Hussein. “Smetterà di averci a che fare quando si renderà conto che Teheran lo usa per i suoi interessi. Prima o poi l’Iran ci colpirà”.

Per alcuni, in gran parte giordano-palestinesi, solo la Repubblica islamica si è preoccupata di aiutare Hamas. Che l’Iran piaccia o no, bisogna stare al suo fianco. Nel negozio gestito dalla sua famiglia, nel quartiere commerciale di Khalda, nella zona ovest della capitale, Khaled dice di essere completamente cambiato. Un tempo seguiva poco la politica, ma da quando è cominciata la guerra questo giordano-palestinese di 28 anni, originario di Gerusalemme, passa giorno e notte ad ascoltare i suoi nuovi idoli. “Non mi sono mai perso un discorso di Hassan Nasrallah”, dice riferendosi al capo del gruppo libanese Hezbollah. Lo stesso vale per i miliziani yemeniti huthi. “Prima del 7 ottobre non avevo un’opinione su di loro, su Hezbollah o sull’Iran. Oggi è tutto diverso. Hanno offerto dei martiri per la causa”, aggiunge, lanciando uno sguardo allo schermo del computer, sul quale è incollato un adesivo di Abu Obeida.

“Ufficialmente il governo è schierato a favore di un cessate il fuoco immediato”

Negli ultimi mesi la sua delusione e la sua rabbia verso la Giordania non hanno fatto che aumentare. Accusa il paese di rimanere impassibile di fronte agli eventi, mentre potrebbe fare di più considerato il suo ruolo di protettore dei luoghi santi della città vecchia di Gerusalemme. “Bisognerebbe affidare l’amministrazione della moschea Al Aqsa a Hezbollah o agli huthi. Mi sembrano abbastanza forti per farlo”, commenta con una battuta.

Radici profonde

Ascesa di Hamas, scontento della popolazione, rischio di destabilizzazione: c’è la sensazione che il 7 ottobre abbia aggravato le fragilità del tessuto sociale giordano. Forse è a Baqaa, il più grande campo profughi del paese, che questa frattura è più evidente. Venti chilometri a nord di Amman, Baqaa è una città a parte. Camminando tra le case in pietra diroccate, tre bambine si dirigono verso la scuola dell’Unrwa (l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi). Sul marciapiede opposto, due bambini sui dieci anni calpestano a piedi nudi i rifiuti sparsi per terra. In una via in cui si susseguono negozi che vendono generi alimentari, materassi e prodotti per l’igiene, alcune donne fanno la spesa tra i venditori che cercano di richiamare la loro attenzione.

Fondato nel 1968, Baqaa sembra un deserto politico. Non si vede nessuna bandiera palestinese sventolare. Non ci sono manifesti dei leader della causa appesi ai muri. Come nel resto del paese, le espressioni dell’identità palestinese sono limitate. C’è la paura che possano rafforzare Hamas e sfociare in una sfida al regime. Tanto più che in questo campo il risentimento contro il potere ha radici profonde, soprattutto tra le vecchie generazioni, arrivate qui dopo essere state espulse dalle loro terre, alla nascita di Israele.

“Baqaa era uno dei principali centri antiregime durante i fatti del Settembre nero”, spiega Jalal al Husseini. In quel mese del 1970, mentre i gruppi armati palestinesi cercavano di trasformare la Giordania in una base per attaccare il territorio israeliano, il regno hashemita del re Hussein condusse una serie di operazioni militari contro i fedayn dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), massacrando migliaia di palestinesi e costringendo il leader dell’organizzazione, Yasser Arafat, a fuggire. A Baqaa pochi osano ricordarlo, temendo che qualcuno li senta. “Ufficialmente il campo è amministrato dal dipartimento degli affari palestinesi, che dipende dal ministero degli esteri. In realtà è il ministero dell’interno che controlla tutto quello che succede qui”, spiega ancora Al Husseini.

Khalil, 57 anni, c’invita a entrare nel suo laboratorio di pittura, al riparo dagli sguardi, mentre lui e il suo amico Jawad si preparano un caffè. “Avevo due mesi quando sono arrivato dal mio villaggio, Anata (vicino a Gerusalemme Est). Ero solo un bambino nel 1970. Ma crescendo ho pagato il prezzo di quei fatti”. Per esempio quando doveva cercare lavoro, spiega fumando una sigaretta dopo l’altra. “Oggi i giovani non sono condizionati dal settembre nero, quella fase appartiene al passato. Però restiamo cittadini di serie b”.

Nel giro di mezz’ora Khalil passa dalla tristezza alla rabbia, dallo sconforto alla gioia. Da quasi nove mesi una forma di orgoglio si è impadronita di lui: “Guardate quello che sta succedendo negli Stati Uniti! Non si è mai parlato tanto di Palestina!”. Non nutre solo la speranza di tornare un giorno al suo villaggio. Ne ha la certezza. “Se non sarò io, saranno i miei figli. Hanno ereditato la causa palestinese”, sussurra. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1569 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati