A prima vista la tanto attesa risposta israeliana ai quasi duecento missili lanciati dall’Iran il 1 ottobre è stata più misurata del previsto. Dato che Tel Aviv non ha colpito installazioni nucleari o petrolifere, pare scongiurata una guerra aperta tra lo stato ebraico e il regime di Teheran. In realtà, però, tutto sembra indicare che la rappresaglia israeliana condotta nella notte tra il 25 e il 26 ottobre possa spianare la strada a operazioni più ampie contro l’Iran, inserendo la risposta in una serie di obiettivi strategici a lungo termine.

Anche se Teheran ha cercato di limitare la portata degli attacchi, lodando l’efficacia delle sue difese aeree, i danni potrebbero essere stati considerevoli. Secondo tre fonti israeliane citate dal sito statunitense Axios, è stata paralizzata la produzione di missili balistici iraniani. Tra i principali obiettivi colpiti ci sono dodici miscelatori usati per produrre combustibile solido, un’attrezzatura industriale fondamentale per il programma iraniano di missili a lungo raggio. I miscelatori li fornisce la Cina e a Teheran potrebbe servire un anno per rimetterli in funzione.

A questo si aggiunge il deterioramento dei sistemi di difesa aerea S-300 di fabbricazione russa, considerati i più sofisticati e potenti della Repubblica islamica. Secondo un funzionario israeliano citato dal Wall Street Journal, sono state distrutte tutte e quattro le batterie antiaeree iraniane S-300. Situati in punti strategici del paese, questi sistemi erano progettati per proteggere Teheran e i principali siti nucleari ed energetici.

Nessuna interferenza

“È un segnale all’Iran: non solo abbiamo danneggiato la vostra infrastruttura missilistica, ma adesso è più vulnerabile che mai”, afferma Fabian Hinz, esperto militare dell’Istituto internazionale di studi strategici. Ali Vaez, direttore del progetto presso l’Iran dell’International crisis group, ha dichiarato al New York Times che la rappresaglia israeliana “sembra preludere a un attacco più ampio contro le infrastrutture iraniane e i siti nucleari. Gli iraniani non hanno la capacità di sostituire velocemente questi sistemi, il che li rende più vulnerabili a futuri attacchi”.

Di conseguenza, il regime di Teheran appare indebolito. Prima di attaccare, Tel Aviv ha anche colpito batterie di difesa aerea e radar in Siria e in Iraq per evitare le interferenze degli alleati dell’Iran. Secondo Hinz si sta delineando uno scenario “simile a quello che Tel Aviv ha creato in Siria”, dove coesistono un’ottima intelligence israeliana, l’incapacità dei siriani e di altre fazioni di stabilire un deterrente, e l’assenza di difese dagli attacchi, elementi che permettono a Israele di colpire dove e quando vuole impedendo lo sviluppo di capacità strategiche nel paese.

Considerato che Washington ha probabilmente moderato la risposta israeliana, le operazioni future potrebbero essere di natura diversa, se il candidato repubblicano Donald Trump vincerà le elezioni presidenziali statunitensi del 5 novembre. Trump potrebbe opporsi agli attacchi contro i siti petroliferi che minacciano di destabilizzare i mercati internazionali facendo impennare i prezzi del greggio, mentre ha ribadito che Israele dovrebbe “colpire” le strutture nucleari iraniane. A dimostrazione del suo desiderio di chiudere il ciclo di rappresaglie tra l’alleato israeliano e Teheran, il presidente democratico Joe Biden ha sottolineato le pressioni statunitensi perché fossero risparmiati i siti nucleari o petroliferi.

Incitato dai partner di coalizione di estrema destra a spingersi oltre contro l’Iran, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito che il governo ha scelto gli obiettivi in base ai suoi interessi nazionali e non a quanto dettato dagli Stati Uniti. Il 26 ottobre il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari ha detto che “Israele adesso ha una maggiore libertà nelle operazioni aeree in Iran”. ◆ fg

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Questo articolo è uscito sul numero 1587 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati