Quando avevo dieci anni mi ero dimenticato come si faceva a dormire. Andavo a letto e mi concentravo intensamente per spegnere il cervello, ma ogni sforzo era controproducente. Siccome non mi piaceva passare tutte quelle ore da solo, nel cuore della notte svegliavo mia sorella per divertirmi con Il gioco della vita, un gioco da tavolo in cui bisogna percorrere un’autostrada a senso unico che porta dalla laurea alla pensione in una piccola automobilina di plastica, accumulando soldi strada facendo. Anche a lei piaceva Il gioco della vita, ma non voleva che la svegliassi all’una di notte. La soluzione che trovarono i miei genitori fu quella di lasciarmi leggere con la luce accesa per tutto il tempo che volevo. Non amavo leggere, ma facevo finta di sì perché non volevo essere da meno delle mie sorelle, che erano conosciute come “avide lettrici”.
Mia sorella aveva quattordici anni e aveva appena finito un romanzo intitolato La forza del singolo di uno scrittore mezzo sudafricano mezzo australiano di nome Bryce Courtenay. Le dissi che volevo leggerlo. Mi rispose che non era una buona idea: era un libro per adulti e io ero troppo piccolo, non l’avrei capito. Quella notte stessa mi portai il libro al piano di sopra senza dirlo a nessuno e cominciai a leggerlo. Ecco cosa mi ricordo: c’è un ragazzo che si chiama Peekay. Vive in Sudafrica. A un certo punto lo mandano in collegio in un posto in mezzo al deserto dove è vittima dei bulli. Incontra uno zulu che gli insegna a difendersi. Una sera, lo zulu viene ammazzato di botte da un secondino bianco che gli pesta la faccia con un oggetto contundente e poi lo trafigge con lo stesso oggetto finché non muore di emorragia. Non sapevo cosa volesse dire la parola emorragia. Non sapevo quasi niente del contesto politico in cui si svolgeva il delitto. Me ne stavo steso a letto cercando di capire, e quando stavo finendo di leggere La forza del singolo mi sentivo come se avessi affrontato una grande prova e ne fossi uscito trasformato in un’altra persona.
Nell’esperienza iniziale c’erano un’immediatezza, un’intensità, una resa totale che non potevano mai essere replicate e che a volte, al secondo passaggio, erano perfino sminuite
Non volevo che il romanzo finisse. Arrivato alle ultime pagine, avevo paura di perdere tutto ciò che avevo provato leggendolo. Temevo che senza La forza del singolo la mia vita sarebbe tornata come prima. Una soluzione era rileggere immediatamente il libro e riviverlo da capo. Ma c’era qualcosa, nell’idea di farlo, che mi suonava sbagliato, addirittura perverso. Intuivo che leggerlo di nuovo avrebbe in qualche modo rovinato ciò che lo aveva reso così profondo e sconvolgente la prima volta. Per la mia mente di decenne, leggere il libro senza tornarci era un segno d’amore e rispetto per la forza di vita che sembrava animare le sue pagine. Mi pareva di aver scoperto come funzionava la vera lettura: leggere una volta sola, intensamente, e poi mai più.
Solo anni dopo, quando ho cominciato a studiare la letteratura, ho scoperto di aver capito male. Il modo corretto e virtuoso di leggere, secondo quelli che ne sapevano molto, era rileggere. Rileggere era ciò che distingueva il vero lettore dal consumatore medio di libri. Vladimir Nabokov, nelle sue Lezioni di letteratura, diceva che “un buon lettore, un lettore importante, un lettore attivo e creativo, è un rilettore”. Alla prima lettura ci si formano solo impressioni vaghe dell’azione, basate su intuizioni generali e soggettive. Si saltano le frasi, non si colgono i dettagli, si incespica nella trama in uno stato di aspettativa passiva. Quando si rilegge, scrive Nabokov, si ha il tempo di “notare e accarezzare” le particolarità del mondo che un autore ha reso in parole, come la consistenza del guscio di Gregor Samsa o la sfumatura degli occhi di Emma Bovary.
Da studente ho imparato ad apprezzare questa granularità. Tornare più volte su un testo mi ha permesso di affinare i miei giudizi intuitivi iniziali in qualcosa di più ampio e approfondito. C’era una soddisfazione intellettuale in tutto questo, ma sentivo anche, sotto sotto, che rileggere non era veramente leggere. Nell’esperienza iniziale c’erano un’immediatezza, un’intensità, una resa totale che non potevano mai essere replicate e che a volte, al secondo passaggio, erano perfino sminuite. “Guardiamo il mondo una volta, da piccoli. Il resto è memoria”, ha scritto Louise Glück. Pensavo la stessa cosa della lettura. Lo penso ancora. E ancora oggi, quando leggo qualcosa che diventa come un cardine nella mia vita – un libro che mi smuove internamente – non lo rileggo. Non rileggerò mai L’amica geniale, Dalla parte di Swann o 2666. Né diversi altri libri che non nominerò perché è imbarazzante. Dopo tanti anni, ancora non ho riletto La forza del singolo (magari, se tornassi indietro e lo rileggessi non ritroverei più la scena dell’assassinio. L’ho inventata di sana pianta? La sto confondendo con un altro libro o con un film?).
Questa refrattarietà a rileggere i libri che mi stanno a cuore mi allontana non solo da Nabokov, ma da un vasto movimento pro-rilettura sposato da geni che considerano rileggere come l’attività letteraria per eccellenza. Roland Barthes, per esempio, sostiene che rileggere è necessario se vogliamo realizzare il vero scopo della letteratura che, a suo modo di vedere, è rendere il lettore “non più un consumatore, ma un produttore del testo”. Quando rileggiamo, scopriamo che un testo può moltiplicarsi nella sua varietà e nella sua pluralità. Rileggere ci offre qualcosa che va oltre una comprensione più dettagliata del testo: è, dice Barthes, “un’operazione contraria alle abitudini commerciali e ideologiche della nostra società, che vorrebbe che ‘gettassimo via’ la storia una volta che è stata consumata (‘divorata’)”. Io non ne sono così sicuro.
Se portiamo la tesi di Barthes all’estremo, possiamo immaginare una cultura letteraria ideale in cui ci sono solo un libro e una comunità di avidi lettori che ci ritornano sopra più e più volte, dispiegando il suo infinito spettro di potenzialità in interpretazioni sempre più elaborate. Mi ricorda la sinagoga ortodossa che frequentavo da ragazzo, dove ogni anno, a ottobre, gli anziani finivano di leggere l’ultima parte della Torah – con Mosè che dall’alto della montagna guarda la terra promessa – e poi ricominciavano dal principio. All’epoca non mi sembrava affatto “un’operazione contraria alle abitudini commerciali e ideologiche della nostra società”, ma piuttosto un metodo trito e ritrito di riaffermare la tradizione e salvaguardare la comunità. Spesso era anche molto noioso.
Visto sotto un’altra luce, rileggere è sostanzialmente un esercizio conservatore: è ciò che rende possibile la formazione di un canone, e i canoni sono ciò che mantiene intatta la struttura di base di una tradizione o di una cultura. Ecco perché Harold Bloom era un fanatico della rilettura ed ecco perché gli evangelizzatori di questa pratica rileggono sempre i classici. Secondo loro, per i grandi libri una volta sola non è sufficiente. Stanno “rivisitando Proust” o “tornando su Moby Dick” o “immergendosi ancora” nel Paradiso perduto, come dice lo scrittore britannico William Hazlitt nel suo saggio del 1819 On reading old books (Sulla lettura dei vecchi libri). Hazlitt comincia declamando: “Odio leggere i libri nuovi”, poi sentenzia che leggerli è una cosa da donne, che “giudicano i libri come le mode o gli incarnati, che sono ammirati solo ‘nella loro patina più nuova’”. Hazlitt, da uomo, ha “più fiducia nei morti che nei vivi”. Rilegge Milton più e più volte perché è convinto che lo vaccinerà contro la pigrizia, l’insulsaggine e la superficialità della cultura moderna.
Questo principio – che rileggere possa essere un balsamo per il declino culturale della società – resiste anche tra i rilettori contemporanei. Nell’ampia gamma della letteratura pro-rilettura – saggi sul rileggere, memorie sul rileggere, polemiche sul rileggere – questa è una sorta di disciplina sacra che si sta lentamente perdendo a causa di un eccesso di rigore intellettuale. La professoressa Elaine Scarry, per esempio, in una recente intervista si lamenta che gli studenti “al giorno d’oggi” non siano più obbligati ad affrontare “prove olimpiche di lettura”. E per lettura, spesso intende rilettura. Nella stessa intervista, Scarry dice di essere una lettrice lenta ma che, nonostante tutto, non demorde: “Mi ci vogliono molte, molte ore anche per rileggere un libro”, ammette, ma non rinuncia perché vuole sentirsi più vicina ai grandi geni della storia come Isaac Newton, Thomas Hobbes oppure Robert Oppenheimer, che ha costruito la bomba atomica ma sapeva anche “recitare a memoria interi passaggi di Proust”. Rileggere, inteso in questo modo, comincia a sembrare un po’ un regime punitivo di sviluppo personale. M’immagino un motivatore che promuove la rilettura come parte di un pacchetto di stile di vita insieme agli integratori nootropici. “In quest’epoca di novità alimentate dagli algoritmi”, direbbe la pubblicità su Instagram, “riprendetevi la vostra attenzione e acquisite saggezza rileggendo il canone occidentale”.
Nella sua lunga meditazione sul tema, Unfinished business: notes of a chronic re-reader (Questioni in sospeso: note di una rilettrice cronica), la giornalista Vivian Gornick descrive il suo rapporto con Figli e amanti di D. H. Lawrence nel corso dei decenni. Da adolescente si rivedeva in Miriam, la ragazza che vuole solo essere desiderata, poi in Clara, che ha delle passioni ma ha paura di seguirle. Dopo i trent’anni s’identificava in Paul, il seduttore pieno di desiderio. Infine, rileggendo il libro nella “maturità avanzata”, si è resa conto di averlo sempre frainteso. Il “significato più ricco” del testo non è che l’avventura sessuale è l’esperienza centrale della vita, come immaginava una volta, ma l’esatto contrario: il sesso perseguito senza costrizioni è una falsa liberazione. Per Gornick, la bellezza del rileggere è quasi aristotelica: il lettore progredisce, passando da un’ignoranza primitiva a un “significato più ricco”, come se lo scopo dell’esistenza umana fosse l’interpretazione dei testi. Mi sento di risponderle che le sue prime interpretazioni di Figli e amanti erano ricche e autentiche quanto quelle successive e che forse rileggendo e rielaborando continuamente il testo ha perso il contatto con la tipica saggezza e intensità giovanile di cui siamo capaci quando leggiamo qualcosa per la prima volta.
Anche se molti grandi scrittori tengono la rilettura in massima considerazione, i rilettori più assidui sono quelli che stanno appena imparando a leggere, cioè i bambini. In Al di là del principio di piacere, Sigmund Freud ipotizza che la fissazione dei bambini per la rilettura derivi dalla convinzione infantile che le esperienze piacevoli possano essere ripetute senza dispersioni: “Egli stabilirà senza rimorsi che la ripetizione sarà identica e correggerà ogni alterazione di cui il narratore possa rendersi colpevole”. Crescendo superiamo questa convinzione, dice Freud, quando impariamo che “la novità è sempre la condizione del godimento” e che l’impressione della prima volta non può essere ripetuta e rischia di rovinare completamente la storia che un tempo amavamo. Come ammette Barthes, “ripetere all’eccesso è entrare nella perdita” (questa citazione apparentemente contraddittoria si trova in Il piacere del testo, in cui Barthes cita a sua volta Freud: “Nell’adulto, la novità costituisce sempre la condizione dell’orgasmo”. Ci torneremo).
La coazione a rileggere è una regressione a questo stato infantile? Una negazione della maturità? Margaret Atwood ne è convinta, e la paragona a “succhiarsi il dito” e alle “borse dell’acqua calda”; lei stessa, ammette, rilegge solo per “conforto, familiarità, ricorrenza dell’atteso”. Probabilmente è anche per questo che le apologie della rilettura arrivano quasi sempre da persone in cui la fiamma della giovinezza si è ormai spenta, come nel caso di Hazlitt quando ha scritto il suo saggio. Hazlitt ammette che almeno una parte del suo entusiasmo per la rilettura dei vecchi classici nasce dal desiderio di tornare sulle “scene della prima giovinezza”, nella speranza che “possano infondere nuova vita in me, e che io possa rivivere ancora una volta quel compleanno di pensiero e piacere romantico”. Come il narratore privo d’amore delle Notti bianche di Dostoevskij, Hazlitt vuole tornare nei luoghi in cui un tempo è stato felice per provare a plasmare il presente a immagine e somiglianza di un passato irrecuperabile. È un esercizio futile. Non potrà mai ritrovare quel primo piacere, e anzi, attraverso la ripetizione, finisce per rovinare l’esperienza della lettura in generale. “I libri hanno in gran parte perso il loro potere su di me, e non posso ravvivare lo stesso interesse per loro che avevo in precedenza”, ammette. Avrebbe fatto meglio a leggere qualcosa di nuovo, tanto per cambiare, per cercare di tirarsi fuori dalle sue fantasie deprimenti. Innamorarsi di un nuovo libro è probabilmente una delle ultime avventure che ci restano quando la carne si indebolisce: lo spirito, si spera, resta indomito.
Alla fine, forse la differenza fondamentale tra chi legge una volta sola e chi rilegge sta nel loro rapporto con il tempo o, più precisamente, la morte. Il motivo più ovvio per non rileggere, ovviamente, è che non c’è tempo. Non ha senso crogiolarsi all’infinito nei dettagli fisiognomici di Flaubert, a meno di non pensare di vivere per sempre. Per quelli che non rileggono, un libro è come una piccola vita. Quando finisce, muore o continua a vivere, in modo imperfetto e impreziosito, nei nostri ricordi. In questa morte c’è un senso di perdita, ma anche di piacere. O, come dicono i francesi, la petite mort.
Eppure, per i rilettori, queste sono solo sciocchezze. Perché costringere un libro a una pulsazione mortale quando può vivere in eterno, resuscitato all’infinito da continue riletture? Rileggere, obiettano, è un miracolo, perché riporta un libro in vita. Vediamo i personaggi che ricominciano a respirare. Vediamo un mondo finire e poi rinascere. Viviamo ripetutamente il romanticismo e la seduzione di una scena, non come nella vita, dove lo vediamo succedere una volta e poi basta. In una vita che marcia inesorabilmente verso la sua fine, rileggere può sembrare un’arma contro l’inevitabile. Ma, naturalmente, non lo è. Ci aspetta la stessa sorte, non importa se abbiamo riletto Proust. ◆ fas
Oscar Schwartz è uno scrittore e giornalista. Vive a Melbourne, in Australia. Questo articolo è uscito sul giornale letterario The Paris Review con il titolo Against rereading.
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Questo articolo è uscito sul numero 1586 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati