L’oro esercita da sempre un fascino particolare sull’umanità. Il sogno degli alchimisti era di trasformare i metalli grezzi in oro, ma l’impresa fu vana. L’origine dell’oro è rimasta un mistero fino al novecento, quando i fisici si resero conto che il metallo prezioso, come quasi tutti gli elementi chimici, era prodotto dalle stelle. I dettagli però sono rimasti sfumati fino all’agosto del 2017, quando gli astrofisici hanno assistito, in una frazione di secondo, alla creazione di una quantità d’oro tale da superare il peso della Terra. La fonte di questa stupefacente alchimia stellare era un evento di una violenza quasi inimmaginabile: la collisione tra due stelle di neutroni in una galassia lontana.
Le stelle di neutroni sono i resti di grandi stelle che esauriscono il loro carburante provocando un’implosione catastrofica del nucleo. In genere hanno una massa di circa un sole e mezzo, ma schiacciata in una palla delle dimensioni della città australiana di Adelaide (3.200 chilometri quadrati), una densità così grande che perfino gli atomi sono schiacciati dall’intensa forza gravitazionale fino a formare neutroni. A volte due stelle di neutroni sono bloccate in orbita una intorno all’altra, entrando in una spirale di morte che finisce quando si scontrano e poi in un istante collassano in un buco nero. Spinto da quello che è successo nel 2017, oggi un gruppo di scienziati australiani si propone di costruire uno strumento gigantesco chiamato Neutron star extreme matter observatory (Nemo) per rilevare nei minimi dettagli le collisioni tra stelle di neutroni.
Nella frazione di secondo in cui si scontrano, le stelle ricreano le condizioni dell’universo subito dopo il big bang. Quindi Nemo dovrebbe fornire indizi sulla nascita stessa del cosmo. Ma le fusioni di stelle di neutroni avvengono in modo così veloce che studiarle richiede uno strumento altamente specializzato, che costa cento milioni di dollari.
Lo spazio si piega
Un modo per osservare questi fantastici incontri è attraverso le onde gravitazionali, uno dei fenomeni più strani che conosciamo. La storia comincia con la teoria della relatività di Albert Einstein, pubblicata nel 1905, e le sue misteriose previsioni sulla distorsione dello spazio e del tempo. Dopo aver ampliato il suo lavoro di ricerca, Einstein espose la teoria della relatività generale, considerata da molti come la più grande conquista intellettuale dell’umanità.
La relatività generale è una teoria della gravitazione che inverte la spiegazione della gravità di Isaac Newton, formulata più di duecento anni prima e usata da generazioni di astronomi per calcolare le orbite di pianeti e comete. Concepiva la gravitazione in un modo completamente nuovo. Newton, notoriamente ispirato dalla vista di una mela che cadeva dall’albero, aveva definito la gravità come una forza di attrazione tra corpi materiali che si estende attraverso lo spazio e s’indebolisce con la distanza. Secondo la teoria di Einstein, invece, la gravità non è una forza ma una distorsione della geometria dello spazio e del tempo. Il nostro Sole, per esempio, crea una distorsione spazio-temporale attorno a sé, e il motivo per cui la Terra orbita intorno al Sole seguendo un percorso curvo non è perché la stella la attira, come sosteneva Newton, ma perché il pianeta segue il percorso più breve possibile attraverso quella geometria deformata.
Conosciamo materiali che si piegano, come la gomma. Ma ci vuole un po’ di tempo per abituarsi all’idea che lo spazio possa piegarsi: la maggior parte delle persone lo vede come un vuoto senza caratteristiche specifiche. Le illusioni che risultano dallo spazio deformato sono simili a quelle create dagli obiettivi fisheye (che hanno un angolo di campo molto ampio) e dagli specchi deformanti. La relatività generale prevede un effetto simile, ma in cui la lente è lo spazio stesso.
Lo spazio si può piegare perché è elastico. Nessuno se n’era accorto prima di Einstein, perché appare incredibilmente rigido: ci vuole una massa enorme per piegarlo anche di pochissimo. Non solo si può piegare, si può anche allungare, restringere e torcere. L’espansione dell’universo, per esempio, può essere considerata come un rigonfiamento e allungamento dello spazio tra le galassie. Ogni giorno nell’universo osservabile appaiono cento miliardi di miliardi di anni luce cubi di ulteriore spazio.
Anche la torsione è osservabile: la rotazione terrestre trascina leggermente lo spazio con sé, un effetto che è stato concretamente misurato usando i giroscopi a bordo di un satellite chiamato Gravity Probe B, lanciato nel 2004. Considerata la natura elastica dello spazio, non ci sorprende che possa anche vibrare. Einstein lo ipotizzò già nel 1918. Aveva notato che le equazioni della relatività generale potevano descrivere deformazioni spaziali ondulate che viaggiano alla velocità della luce. Il modo migliore per prevedere queste increspature è immaginare il loro effetto sulla materia. Supponiamo che un’onda gravitazionale venga verso di noi. La distorsione dello spazio nel nostro corpo significherebbe che potremmo essere allungati in verticale e schiacciati in orizzontale. Un attimo dopo succederebbe il contrario – una compressione verticale e un’estensione orizzontale – mentre l’onda completa il suo ciclo.
Inutile dire che nessuno ha mai sperimentato direttamente gli effetti fisici di un’onda gravitazionale, perché la trazione di queste onde sulla materia è estremamente piccola. Anche se Giove si schiantasse contro Saturno, sulla Terra nessuno avvertirebbe un’oscillazione gravitazionale. Per contrasto, pensate alle onde elettromagnetiche, che ci sono più familiari: se ci fermassimo davanti a un’antenna radar militare saremmo fritti. L’elettricità è molto più potente della gravità, per questo un palloncino si può attaccare al soffitto semplicemente strofinandolo.
Le onde gravitazionali potevano trasportare quantità prodigiose di energia nello spazio
Un sistema diverso
Per molto tempo si è pensato che le onde gravitazionali fossero troppo deboli per essere osservate direttamente. Ma negli anni sessanta un gruppo di fisici visionari pensò che forse era possibile individuare le increspature gravitazionali delle stelle che esplodono sospendendo una barra di metallo in una camera sottovuoto e cercando di rilevare minuscole vibrazioni con sensori elettronici. Negli anni settanta erano in funzione molte di queste barre, una anche all’università dell’Australia occidentale progettata dal fisico David Blair. Ma non registravano nulla: idealmente ci sarebbe voluta l’esplosione di una supernova nella Via Lattea. L’ultima, però, è stata osservata nel 1604.
Nel frattempo l’attenzione si spostò su un’altra fonte di onde gravitazionali: le stelle di neutroni. Migliaia di queste stelle oggi sono note agli astronomi grazie agli impulsi radio che emettono. Quando appaiono in coppia, orbitano l’una intorno all’altra e così facendo dovrebbero emettere un flusso costante di onde gravitazionali a bassa frequenza. Le onde sottraggono energia orbitale alle stelle, facendole ruotare insieme a spirale e muovere sempre più velocemente fino a sfrecciare l’una intorno all’altra a una consistente frazione della velocità della luce. Le equazioni della relatività generale consentono agli scienziati di calcolare con precisione quanta energia viene irradiata in questo modo, quindi a quale velocità le orbite si restringono.
Nel 1974 Joseph Taylor e Russell Hulse, due astrofisici dell’università del Massachusetts ad Amherst, negli Stati Uniti, cominciarono a monitorare un sistema binario di stelle di neutroni della costellazione dell’Aquila usando il gigantesco radiotelescopio di Arecibo a Puerto Rico (ora non più in funzione). Per alcuni anni misurarono lievi variazioni orbitali e confrontarono le loro osservazioni con le previsioni della teoria. Corrispondevano perfettamente. Il risultato fu sorprendente, perché dimostrava che le onde gravitazionali esistevano davvero e potevano trasportare quantità enormi di energia attraverso lo spazio. Questa scoperta ha spinto molti scienziati a provare a rilevare queste onde così sfuggenti sulla Terra.
A questo punto tutti erano concentrati su un metodo di rilevamento diverso, basato su misurazioni laser molto precise che avrebbero mostrato cambiamenti significativi della distanza dovuti all’allargamento e al restringimento dello spazio al passaggio di un’onda gravitazionale. Supponiamo di sparare un raggio laser su uno specchio lontano e di registrare il tempo che impiega il riflesso per tornare indietro. Conoscendo la velocità della luce, sapremo quanto dista lo specchio. Ora immaginate che il passaggio di un’onda gravitazionale aumenti lo spazio tra il laser e lo specchio. Il raggio tornerà indietro leggermente in ritardo. Al contrario, se lo spazio si restringe, tornerà in anticipo. Questa semplice nozione è la base del rilevamento laser delle onde gravitazionali.
In pratica non serve cronometrare i singoli raggi, è sufficiente un confronto con la luce del laser che viaggia in diverse direzioni. Nell’allestimento ormai ampiamente usato, il sistema è a forma di L. I raggi laser vengono inviati perpendicolarmente l’uno all’altro da ciascun braccio della L in direzione di specchi lontani. Quando la luce ritorna, i due riflessi si fondono. L’eventuale passaggio di un’onda gravitazionale allungherebbe un braccio della L ma accorcerebbe l’altro. Se si verificasse, un cambiamento simile potrebbe essere rilevato esaminando gli allineamenti relativi dei picchi e delle depressioni delle onde luminose di ciascun raggio a mano a mano che si avvicinano. È una procedura ormai consolidata, nota come interferenza delle onde, quindi il sistema è chiamato interferometro laser.
Attesa ripagata
Nel 1999 negli Stati Uniti furono completati due interferometri: uno ad Hanford, nello stato di Washington, e l’altro a Livingston, in Louisiana. Ne furono costruiti due perché le vibrazioni possono essere causate da molte fonti: terremoti, onde che sbattono sulle rive del mare, perfino dal traffico autostradale o dal passaggio del bestiame. Per distinguere, per esempio, tra un’onda gravitazionale e un cavallo al galoppo in un campo vicino, gli scienziati cercano segnali coincidenti nei due siti, che quindi possono provenire solo dallo spazio. Il sistema è noto come Laser interferometer gravitational-wave observatory (Ligo).
L’ingegneria di precisione coinvolta nel progetto è sorprendente. I bracci – i due lati di ciascuna L – sono tunnel a vuoto spinto lunghi quattro chilometri. Gli specchi sospesi alle estremità sono molto levigati e hanno un’incredibile capacità riflettente. I raggi laser possono andare molte volte avanti e indietro lungo i tunnel prima d’incontrarsi per il confronto, aumentando così la lunghezza effettiva dei bracci. Ma le statistiche davvero sorprendenti sono quelle sulla sensibilità. L’effetto delle onde gravitazionali è così debole che neanche un forte impulso riuscirebbe a spostare lo specchio della larghezza di un atomo. Il Ligo è stato progettato per rilevare cambiamenti nella posizione dello specchio migliaia di volte più piccoli di un nucleo atomico (circa un decimillesimo di miliardesimo di centimetro) su una distanza di molti chilometri. Per fare un confronto, è come individuare un cambiamento dello spessore di un capello nella distanza tra la Terra e la stella Alfa Centauri. Per alcuni anni il Ligo non ha visto niente e si è cominciato a pensare che fosse una cattedrale nel deserto. Gli scienziati hanno chiesto altri fondi per aggiornarlo e modificare ulteriormente la sensibilità del sistema. Sono state incrociate molte dita. Poi, il 14 settembre 2015, è successo: è stato rilevato un tremito in entrambi gli impianti Ligo, con caratteristiche identiche. Inoltre, il disturbo aveva tutti i segni distintivi di un’esplosione di onde gravitazionali emanate da due corpi astronomici che si avvolgevano a spirale l’uno nell’altro. I calcoli hanno dimostrato che questi oggetti erano troppo massicci per essere stelle di neutroni. Dovevano essere buchi neri, rispettivamente di 36 e 29 masse solari, situati a circa 1,3 miliardi di anni luce di distanza dalla Terra. Il buco nero risultante dalla fusione aveva una massa di 62 soli. L’equivalente di circa tre masse solari, quindi, era stata convertito in energia destinata alle onde gravitazionali: centinaia di volte l’energia totale che il Sole ha mai emesso sotto forma di calore nei suoi 4,5 miliardi di anni di vita. Il tutto in una frazione di secondo. Era spettacolare. La comunità scientifica ha esultato. Il fisico Stephen Hawking ha dichiarato alla Bbc che il rilevamento aveva “le potenzialità per rivoluzionare l’astronomia”. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha twittato: “È un’enorme svolta nel modo in cui comprendiamo l’universo”.
Il Ligo ha finalmente dissipato ogni dubbio sull’esistenza delle onde gravitazionali, quasi un secolo dopo che Einstein le aveva ipotizzate. È stato un omaggio alla tenacia della comunità scientifica e alla fiducia nella sua teoria. Ma la rilevazione del 2015 non ha segnato la fine del progetto, anzi: la capacità degli interferometri laser di agire come orecchie ipersensibili in grado di ascoltare le vibrazioni dell’universo ha inaugurato una nuova era dell’astronomia.
Fin dall’antichità gli astronomi hanno sempre studiato i corpi celesti a partire dalla luce che emettono. Poi, negli anni cinquanta, furono costruiti i radiotelescopi, seguiti dai satelliti in grado di rilevare qualsiasi cosa, dai raggi gamma passando per i raggi X e le onde ultraviolette, fino ai raggi infrarossi e alle microonde. Gli astronomi hanno coperto l’intero spettro elettromagnetico. Ma le onde gravitazionali sono uno spettro completamente nuovo, che apre un’altra finestra sull’universo.
Presto il Ligo ha rilevato altre fusioni binarie e un sistema europeo noto come Virgo ha cominciato a operare anche in Italia. I dati di entrambi sono stati usati nell’agosto 2017 per rilevare una collisione tra due stelle di neutroni e individuarne la posizione. L’evento straordinario è stato confermato quando un satellite della Nasa chiamato Chandra ha registrato quasi contemporaneamente un’esplosione di raggi gamma emanati da una sorgente a 6,6 miliardi di anni luce di distanza nella stessa sezione di cielo. I telescopi convenzionali hanno individuato una sorgente luminosa che si stava rapidamente sbiadendo con la specifica firma spettrale dell’oro. Gli astronomi pensano che gli impatti tra stelle di neutroni abbiano creato la maggior parte dell’oro dell’universo.
Alla fine del 2019 il Ligo stava funzionando bene e in quattro mesi ha rilevato almeno 35 eventi di onde gravitazionali. La maggior parte erano fusioni di buchi neri, alcuni coinvolgevano stelle di neutroni e in un caso è stata osservata una stella di neutroni inghiottita da un buco nero. Questo ha portato il numero totale di eventi a novanta, rendendo possibile trarre alcune conclusioni statistiche sulle masse dei buchi neri, sui loro ritmi di rotazione e su come si sono formati dai nuclei esausti di stelle massicce. Poi il Ligo è stato sottoposto a un’ulteriore manutenzione. Gli scienziati sperano che con gli aggiornamenti e l’aggiunta di nuovi interferometri laser in India e in Giappone, si potranno osservare eventi che producono onde gravitazionali ogni settimana se non addirittura ogni giorno.
Una finestra sull’universo
L’Australia ha avuto un ruolo importante nella nascita di questa nuova disciplina fin dal lavoro pionieristico di David Blair sui rivelatori a barre risonanti. L’Australian research council finanzia un centro di eccellenza per la scoperta delle onde gravitazionali, chiamato OzGrav, un consorzio che coinvolge l’università dell’Australia occidentale, l’Australian national university, la Monash university, l’università di Melbourne, la Swinburne university e l’università di Adelaide.
Sicuramente ci saranno fenomeni a cui nessun astrofisico ha ancora pensato
Ora che l’astronomia delle onde gravitazionali è una realtà, gli scienziati vogliono fare il passo successivo. Il nuovo strumento proposto, il Nemo, con sede in Australia, si concentrerà sulle onde gravitazionali di frequenza molto più elevata. Questo permetterà agli astronomi di seguire i caotici dettagli della materia neutronica che vortica quando coppie di stelle di neutroni si accartocciano e ruotano freneticamente in una frazione di secondo prima di collassare in un buco nero.
Neanche l’altra estremità dello spettro, le onde gravitazionali a bassissima frequenza, viene trascurata. Ci sono piani ambiziosi per rilevarle usando un gigantesco interferometro spaziale che si estende per 2,5 milioni di chilometri. È noto come Laser interferometer space antenna (Lisa) ed è stato progettato dall’Agenzia spaziale europea. La missione consisterà in tre veicoli spaziali mandati in orbita intorno al Sole in posizione triangolare. Ognuno conterrà due telescopi, due laser e due masse di prova rivestite in oro. Ogni veicolo sarà un satellite a trascinamento zero, in cui le masse di prova galleggiano liberamente all’interno di un contenitore che le protegge da disturbi non gravitazionali come il vento solare.
Gli eventi rilevati dal Ligo hanno frequenze che si collocano in un intervallo che va da decine a centinaia di hertz (cicli al secondo) e lunghezze d’onda di poche migliaia di chilometri. La frequenza della potenza di picco irradiata da una fonte gravitazionale dipende dalla sua velocità di variazione. Poiché due buchi neri di massa stellare che si muovono insieme a spirale, ciascuno delle dimensioni di pochi chilometri, finiscono per girare in cerchio quasi alla velocità della luce, questo significa che orbitano l’uno intorno all’altro centinaia di volte al secondo prima di fondersi. Tuttavia i buchi neri sono di varie dimensioni. La Via Lattea ha un grande buco nero vicino al centro con una massa di circa quattro milioni di soli. Sappiamo che in alcune galassie ci sono buchi neri ancora più grandi che hanno l’equivalente della massa di miliardi di soli. Le onde gravitazionali generate da questi oggetti sono molto più lunghe e a frequenza più bassa, quindi forse impiegano molti minuti per completare un solo ciclo d’onda. Anche se le collisioni tra buchi neri supermassicci sono rare, il Lisa dovrebbe essere abbastanza sensibile da monitorare l’intero universo osservabile per captare questo tipo di eventi. Il più comune e rilevabile sarebbe un buco nero supermassiccio che inghiotte una stella di neutroni o un altro buco di massa stellare.
La storia dell’astronomia ha dimostrato che ogni volta che si apre una nuova finestra sull’universo, arrivano scoperte inaspettate. La radioastronomia, sviluppata negli anni cinquanta, portò nel 1967 alla scoperta accidentale delle stelle di neutroni da parte di Jocelyn Bell, una studente dell’università di Cambridge. Bell aveva notato qualcosa di insolito: alcuni impulsi radio estremamente regolari, che si sarebbero rivelati la firma delle stelle di neutroni ruotanti (per questo chiamate pulsar). Il lancio dei satelliti a raggi X all’inizio degli anni settanta portò alla prima individuazione dei buchi neri, quando si scoprì che un buco nero in orbita intorno a una stella normale trascina via e ingoia parte del materiale stellare, riscaldandolo così tanto da fargli emettere raggi X. Lo stesso succede con gli osservatori orbitanti di raggi infrarossi, ultravioletti e gamma. Pochi dubitano che la stessa cosa succederà con la nuova finestra gravitazionale. Dato che interagiscono così debolmente con la materia, le onde gravitazionali possono emanare da regioni che sono fuori dalla portata dei telescopi ottici e di altri strumenti elettromagnetici. Finora, la maggior parte delle ricerche si è concentrata sui buchi neri e sulle stelle di neutroni, ma qualsiasi movimento di grandi masse genera onde gravitazionali. Gli astrofisici teorici hanno una lunga lista di ipotetici oggetti cosmici, ognuno dei quali potrebbe essere una fonte di onde gravitazionali, che mostrano specifiche caratteristiche. Per esempio, secondo alcuni quando l’universo si è raffreddato dopo il big bang, si sono formate entità filiformi che hanno concentrato masse enormi in tubi infinitamente sottili. Queste ipotetiche “corde cosmiche” che si agitano nello spazio sarebbero grandi fonti di onde gravitazionali. E l’evento più violento della storia cosmica è stato il big bang stesso. L’esplosione che ha segnato la nascita dell’intero universo avrebbe riempito il cosmo di onde gravitazionali che rimbombano ancora nello spazio. Se questi segnali primordiali potessero essere rilevati, ci fornirebbero indizi fondamentali sulla prima era dell’esistenza fisica e sulle forze che hanno plasmato l’universo che vediamo oggi.
Per quanto vivace sia l’immaginazione degli astrofisici teorici, ci saranno sicuramente fenomeni a cui nessuno ha ancora pensato. Dato che ogni processo fisico è una fonte di onde gravitazionali, la promessa dell’astronomia gravitazionale è aiutarci, nel tempo, a compilare il catalogo completo di tutti gli oggetti e i sistemi presenti nei centomila miliardi di miliardi di miliardi di anni luce cubi di spazio che costituiscono l’universo osservabile. Con quest’inventario di entità astronomiche, gli scienziati potranno ricostruire la storia completa della nascita, dell’evoluzione e della probabile morte dell’universo.
Le oscure vibrazioni dello spazio ipotizzate matematicamente da Einstein un secolo fa saranno la chiave per svelare i segreti di questa storia. E la nostra generazione sarà ricordata per essere quella che ha avviato questa ricerca. ◆ bt
Paul Davies è un fisico britannico nato nel 1946. Insegna all’Arizona state university. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è I misteri del tempo (Mondadori 2018).
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Questo articolo è uscito sul numero 1456 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati