L’ultimo libro di Ta-Nehisi Coates, The message, è appena uscito e ovunque si trovano recensioni e ritratti dell’autore. Il clamore è giustificato. I lavori di Coates, in particolare i suoi saggi per l’Atlantic, The case for reparations e The first white president (su Donald Trump), sono alcuni dei migliori scritti giornalistici recenti, oltre che tra i più influenti. Hanno contribuito a riaprire il dibattito sulle persistenti disparità razziali e a superare l’idea secondo cui gli Stati Uniti sarebbero diventati un paese post-razziale.
Coates ha lasciato l’Atlantic nel 2018 e con _The message _torna a parlare di politica dopo alcuni romanzi e graphic novel. Come nei suoi precedenti saggi, la scrittura è lirica, il racconto ricco di dettagli e quasi ogni pagina offre un’importante intuizione o articola un’idea che avevi in mente ma che non eri riuscito a organizzare compiutamente.
Da Israele alla South Carolina
Non farò una recensione tradizionale del libro, che vi invito a leggere. Ma occupandomi di politica e questioni razziali, voglio evidenziare alcuni aspetti rilevanti. Negli anni 2010 Coates ha trasformato il modo in cui io e molti altri (compreso Barack Obama, sospetto) concepivamo gli Stati Uniti. The message _non è rivoluzionario come _The case for reparations, ma ha alcune idee importanti.
Il libro si compone di saggi nati dai reportage di Coates in Senegal, in Israele e nei territori palestinesi, e a Chapin, in South Carolina, dove tentarono d’impedire a un insegnante di usare _Tra me e il mondo _(Codice 2018) in uno dei suoi corsi.
Coates sostiene con passione che il modo in cui Israele tratta i palestinesi è abominevole. E critica giustamente i mezzi d’informazione per aver “messo la complessità al di sopra della giustizia” nella copertura del conflitto. È importante che Coates, uno degli scrittori più influenti degli Stati Uniti, esponga queste argomentazioni, mentre i leader di entrambi i partiti continuano a difendere praticamente qualunque cosa faccia Israele.
Detto questo, se avete letto altre opinioni critiche nei confronti di Israele, la tesi di Coates non sarà una novità, anche se è rafforzata dalla sua eccellente scrittura e dal suo stile. Particolarmente rilevante è la sua connessione tra le lotte dei palestinesi e quelle delle persone nere negli Stati Uniti e in Africa.
In passato scrivere di altri paesi non era una parte importante del lavoro di Coates. Giornali come l’Atlantic e il Washington Post preferivano che i loro giornalisti, in particolare quelli afroamericani, si occupassero di descrivere le politiche razziste nell’America di oggi e di ieri. Ma la maggior parte di quegli articoli, compresi i miei, si concentrava sugli Stati Uniti. Coates ora spiega come il razzismo statunitense e il colonialismo e il suprematismo bianco del resto del mondo sono intrecciati a livello globale.
“Quelli che definiscono Israele come l’unica democrazia del Medio Oriente molto probabilmente direbbero che gli Stati Uniti sono la più antica democrazia del mondo. Entrambe le affermazioni si fondano sull’esclusione di intere fette della popolazione”, scrive Coates.
Negli ultimi anni abbiamo assistito al contraccolpo subìto dal movimento Black lives matter. Gli stati controllati dai repubblicani approvano leggi per impedire a scuole e università di insegnare materie che mettono in luce il razzismo. I democratici centristi non si sono spinti fino a tanto, ma hanno adottato un linguaggio (wokeness) e teorie politiche che evidenziano quanto dia fastidio questo nuovo attivismo.
Mi sono demoralizzato. E se tutte le proteste e le cose scritte negli anni 2010 non portassero a niente? Anche Coates pensa che lo slancio politico si sia bloccato. Ma riesce a essere sorprendentemente ottimista. “Il cambiamento politico è un punto d’arrivo, non di partenza”, scrive. “La culla del cambiamento materiale sta nella nostra immaginazione, nelle idee. Noi abbiamo l’onere di costruire un nuovo linguaggio, nuove storie, che consentano alle persone d’immaginare che nuove politiche sono possibili”. Le sue parole sono belle e rassicuranti. Ma sono ancora pessimista. I college delle aree progressiste stanno limitando le proteste e perfino la critica a Israele, per certi versi riproducendo la repressione messa in atto dagli stati repubblicani contro le opere di scrittori come Coates. Temo che in questo decennio non vedremo la politica mettersi al passo con le idee, piuttosto assisteremo alla distorsione e alla soppressione delle idee per costringerle ad adeguarsi alla politica. Per esempio, i centristi e i repubblicani hanno fatto passare l’idea che gli appelli degli attivisti per “definanziare la polizia” equivalgano a togliere dalla strada tutti i poliziotti lasciando scorrazzare liberamente assassini e stupratori.
Il problema del giornalismo
Ultimamente mi trovo a mettere in dubbio le mie scelte di vita. Kamala Harris e Donald Trump si sfidano per ricevere il sostegno del settore delle criptovalute, anche se i giornali hanno mostrato i problemi causati dalla finanza speculativa e dalla venerazione per questa tecnologia. I giornalisti hanno praticamente implorato i repubblicani di non candidare l’uomo che tentò di ribaltare il risultato elettorale dopo aver perso. Gli elettori repubblicani hanno comunque scelto Trump.
Forse il giornalismo non conta più? Più in generale, la parola scritta è diventata irrilevante? Non sorprende che Coates, che scrive libri e insegna scrittura al college, affermi ancora l’utilità del giornalismo scritto. E mi ha colpito la sua empatia su questo particolare aspetto. Il libro è scritto come una sorta di lettera ai suoi studenti. Coates si dilunga nel descrivere le sfide del settore dell’informazione, dalla diminuzione dei posti di lavoro alla perdita di lettori. I destinatari del libro, scrive Coates, “sono giovani giornalisti il cui compito è né più né meno quello di fare la propria parte per salvare il mondo”.
Coates è stato in Medio Oriente prima del 7 ottobre 2023. E ha finito di scrivere il libro prima che Kamala Harris diventasse la candidata democratica. Ma il fatto di non essere aggiornatissimo rende _The message _una lettura ancora più interessante, particolarmente in questo momento. Harris cercherà di vincere le elezioni, e questo le impone di parlare raramente di razzismo, di fare proposte per rendere più difficile l’ingresso negli Stati Uniti alle persone che cercano una vita migliore, e di sostenere Israele anche se sta uccidendo migliaia di civili a Gaza.
Coates sta provando a cambiare gli Stati Uniti e il mondo per gli anni e forse anche per i decenni a venire, e questo per lui significa tracciare idee e teorie che oggi non sono realizzabili. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1587 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati