Mina staccò la mano dalla mia e salì le scale strisciando il lembo della sciarpa sulla neve. Lassù, attraverso la porta socchiusa, vidi passare veloce la sagoma di uno dei ragazzi, sembrava inseguisse qualcuno come quando si gioca a guardie e ladri. Salii le scale dietro Mina dopo essermi pulito bene le scarpe all’ingresso. Lei, prima di varcare la porta, si fermò e si girò verso di me, fece pochi passi e appoggiò il viso sui miei jeans congelati dal freddo. Poi corse tra le braccia della signora Salami lasciando sulla neve l’impronta delle sue piccole scarpe. Il soffio del vento freddo condensava la neve. Erano anni che a Teheran non nevicava tanto. Mi fermai sulle scale e mi voltai per guardare il cortile del Centro. Tutto era coperto di neve: la ruota rossa nell’angolo, le sedie e i tavolini nel mezzo, e la fascia del giardino che costeggiava i bordi del cortile e circondava il noce.
Sentii la voce di Leila: “Vieni dentro, sennò ti congeli”.
Erano mesi che mi domandavo: perché vado via? Per Mina o per Katayun? Katayun aveva chiamato e si era raccomandata: oggi non uscire, resta a casa con Mina, ha nevicato tanto
Leila, alta e snella, era come un’immagine fissa nella cornice della porta. La voce, il sorriso, i suoi movimenti e il profumo dei suoi capelli mi facevano stare bene. E non solo, qualcosa di lei mi faceva tremare dentro e, d’un tratto, mi sentivo un altro.
Il Centro era ben riscaldato. Seguendo Leila attraversai il corridoio ed entrai nella sua stanza dove due grandi finestre si affacciavano sul cortile ghiacciato. Mentre sbottonavo il cappotto mi sedetti sul davanzale interno di una delle due finestre dando la schiena al vetro. Leila si appoggiò la sciarpa sulle spalle e si mise dietro la scrivania. Non diceva niente. Avrei voluto che dicesse qualcosa, ma mi fissava e basta. Sapevo che era triste. Quando era triste abbassava leggermente la testa come se stesse cercando per terra qualcosa che aveva perso.
“Dobbiamo organizzare una festa per la tua partenza”, disse.
“No, non mi piace. Così sembra che poi non torno più”, risposi.
Sorrise e portò le dita tra i capelli neri sparsi intorno al collo snello. “Infatti resterai lì, tornare sarebbe una follia”, ribadì.
Chinai la testa e borbottai: “Non lo so. Se non fosse per Mina non partirei affatto”. Chiuse gli occhi e scuotendo la testa bisbigliò: “Che peccato, io e te…”.
Erano mesi che mi domandavo: perché vado via? Per Mina o per Katayun? Katayun aveva chiamato e si era raccomandata: oggi non uscire, resta a casa con Mina, ha nevicato tanto, ci sono incidenti e tamponamenti, mando mia madre a stare insieme a Mina e dopo tu puoi andare dove vuoi.
“Mi mancherai”, disse Leila.
Non sapevo più cosa dire. In questi momenti non riesco più a parlare, non mi viene in mente nemmeno una frase o una parola d’affetto e fisso il vuoto come un bue. Leila abbassò la testa. Aveva il magone. Continuò: “Non ti preoccupare, quello che provo ora non è molto reale, lo so”.
Qualche giorno prima ero andato a Tajrish con Mina e Katayun. Soffiava il vento e c’erano nuvoloni scuri. La luce sfumata tra il cielo e la terra aveva tinto ogni cosa di grigio e nero. Sentivo l’angoscia salire. Il marciapiede era pieno di venditori ambulanti. D’improvviso Mina era scappata in mezzo alla gente, tra i soldati e le ragazze che uscivano da scuola e qualche turista cinese. Non l’avevo più vista. Katayun, attirata dalle bancarelle, era presa dalle borse, dalle bambole e dagli abiti contraffatti. Avevo cercato con gli occhi tra la folla. Più lontano un soldato parlava in inglese con dei turisti cinesi. Coglievo giusto qualche parola persa nel vento. Mina non c’era e i fiocchi di neve volteggiavano lenti fino a posarsi sulla mia faccia.
Leila sussurrò: “Ti faccio il caffè, caffè arabo”. E sorrise.
Risposi: “Mi mancherai anche tu. Non è solo la nostalgia, è molto di più”.
Sorrise ancora. Tirò fuori il barattolo del caffè dal cassetto della scrivania, l’aroma intenso riempì la stanza, ondeggiò nel tepore dell’aria e si unì al profumo delicato del riso appena cotto che arrivava da non so dove.
“Il mio uomo di latta ha parlato, finalmente”, disse Leila. Poi alzò il barattolo e continuò: “Vieni a sentire. Questo aroma ti farà pensare a me”.
Mi alzai fissando il biancore oltre la finestra, andai incontro a lei, presi il barattolo e lo posai sul tavolo. Afferrai le sue dita lunghe e sottili e sussurrai: “Non ti angosciare, non è per sempre”. Lasciò le mani tra le mie e mi fissò negli occhi, mi piegai in avanti e l’abbracciai stringendola forte. Sentivo i suoi piccoli seni stretti contro di me.
Bisbigliò: “E io? Mi abbandoni così?”.
Qualcuno bussò alla porta diverse volte. Leila si allontanò e si coprì la testa con la sciarpa. Una donna diceva: “Mahdieh non sta bene, è peggiorata ancora, bisogna portarla in ospedale”.
Tornai al pallore bianco della finestra, lei uscì dalla stanza in punta di piedi, ma nell’aria si sentiva ancora l’aroma del caffè. Sentii Leila che bisbigliava insieme a qualcuno dietro la porta. Anche la settimana prima faceva molto freddo, ma non nevicava. Io e lei eravamo seduti proprio qui. Mi aveva detto: “Non preoccuparti per me, so badare a me stessa”. La capivo ma non riuscivo a dire nulla. Non potevo. Non ero nessuno. Potevo dire “ti capisco” e aggiungere: “Qualcuno potrà mai sostituirmi nella tua vita?”. E lei avrebbe risposto: “Non essere geloso, non è da te”.
Guardai il cupo cortile dietro ai vetri appannati. Il noce piantato al centro sembrava una sagoma bianca. Con le dita tracciai sul vetro il suo grosso tronco e le sue fronde sottili. Poi toccai le fronde. Sentii cadere la neve, toccai di nuovo e vidi cadere la neve dai rami.
Fuori, per strada, faceva molto freddo. Avevo allacciato i bottoni del giaccone fin sotto il collo, ma percepivo ancora il vento freddo che s’intrufolava dentro il pullover di lana e mi punzecchiava la pelle. Le auto erano ferme in coda sotto la neve che scendeva ininterrottamente. Un uomo anziano aveva aperto lo sportello della sua Samand e la spingeva a fatica verso il centro del viale. Con lo sguardo mi supplicava di dargli una mano. Non mi sentivo bene. Le nuvole si erano abbassate e mi entravano nel respiro con il loro grigiore.
Mi avvicinai a guardare le gomme che avevano lasciato tracce a zig zag sulla neve fangosa. Gli dissi: “Devi mettere le catene”. Poi mi sfregai le mani e appoggiai la schiena al portabagagli. Lui rispose: “A buon rendere. Non ho le catene”.
Contò: tre, due, uno. La macchina si mosse appena. Per un paio di volte sembrò che stesse per ripartire, ma poi restava ferma. Borbottò: “Niente, non serve. Ormai siamo rimasti bloccati, con questo freddo”. Fece un sorriso e si sedette sul sedile in pelle. Era un uomo anziano e magro che indossava un maglione bianco con le trecce fatto a mano. Dall’abitacolo si sentiva un profumo di colonia mescolato al fumo di sigaretta.
“Se troviamo altre due o tre persone riusciamo a farla ripartire”, gli dissi.
Poi mi avvicinai a lui mettendo la mano sul tettuccio pieno di neve. Sul cruscotto c’era la foto di una giovane vestita di rosso che teneva le mani sulle ginocchia e rideva sporgendosi in avanti. Seguendo la linea invisibile del mio sguardo prese la foto e la mise in tasca.
Quella mattina avevo visto la madre di Katayun che trascinava il corpo gonfio e grasso lungo il nostro vicolo. Aveva avuto la gotta e dovevano amputarle l’alluce. Avanzava lenta in mezzo alla neve. Era ancora lontana, ma ci aveva visti di sicuro. Mina era corsa avanti, si era buttata nella neve ed era rimasta immobile con le braccia in su. Forse con il freddo della neve sentiva meno dolore alle braccia. Quel dolore che si muoveva tra i suoi piccoli muscoli e immobilizzava le braccia dal gomito in giù. Due stecche sottili di legno che le pendevano dalle spalle.
Il vecchio disse: “Se continua così, tra un’ora avrò una montagna di neve sopra la testa e sarò sepolto insieme alla mia macchina”. Aveva gli occhi piccoli e i capelli bianchi sparsi come piume sulle spalle. Stringeva una sigaretta tra le dita, la bagnò con la lingua e ne girò la punta delicatamente. Mi chiese: “Vuoi fare un tiro?”.
“Che roba è?”, risposi.
Sorrise mostrando una fila di denti sani e intatti. Sembrava più una dentiera.
“Non avere paura! Non hai mai fumato l’erba? È già legale in mezzo mondo, se aspetti un po’ vedrai che lo sarà anche nell’altro mezzo”. La presi, la portai alle labbra e feci un gesto con le mani per chiedere l’accendino.
L’accesi e tirai una lunga boccata trattenendo il fumo per un po’ nei polmoni. Volevo mi lacerasse e bruciasse il petto così a fondo da farmi uscire dalla mente, come anelli di fumo, le lunghe e affusolate dita di Leila.
Commentò: “Mi sembri preoccupato, peggio di me”. Allungò la mano per prendere la sigaretta.
“Non hai paura? Qui in mezzo alla strada?”, gli chiesi.
Sorrise e buttò la cenere sulla neve: “Metà della città è già sotto la neve e, se continua così, presto sarà sepolto anche il resto, insieme a tutti noi. A chi vuoi che interessi se io e te fumiamo l’erba?”.
Mi grattai le braccia e avvertii un leggero piacere di fumo nelle tempie. Gli dissi: “Ho accompagnato mia figlia al Centro di riabilitazione, qui vicino, in via Kheradmand”.
Scuotendo la testa, chiese: “Con questo tempo non lo hanno chiuso?”.
L’accesi e tirai una lunga boccata trattenendo il fumo per un po’ nei polmoni. Volevo mi lacerasse e bruciasse il petto così a fondo da farmi uscire dalla mente, come anelli di fumo, le lunghe e affusolate dita di Leila
“Che nevichi o no, non chiudono mai, se no dove vanno i pazienti?”.
Mi passò la sigaretta. “Cosa dicono, guarirà?”, chiese ancora. Mi limitai a fissarlo, lui abbassò gli occhi e non disse più niente.
“Non riesce più a muovere le mani, dalle braccia in giù non le sente. Ha perso tutti i capelli per la chemio”, dissi.
I fiocchi di neve mi scendevano sul viso, sentivo freddo. Mi tremava la mano e feci scivolare distratto la sigaretta sulla neve. Guardai il cielo: era livido e sinistro.
Ne accese un’altra, fece un tiro forte e affermò sicuro: “Stanotte il ponte di Karim Khan sarà sommerso dalla neve”.
“È buona quest’erba”, gli dissi.
“Non mi credi? Aspetta e vedrai. Si sono tutti barricati in casa convinti di salvarsi la vita, ma non ci riusciranno, ragazzo mio. Hai mai visto questa strada così deserta? Guarda, non c’è anima viva”.
Guardai la strada. Fino alla rotonda era completamente vuota, non c’erano macchine né persone intirizzite dal freddo. Anche sotto e oltre il ponte nessun segno di vita.
“Ci stiamo congelando, vieni dentro che accendiamo il riscaldamento”, mi disse.
“No, devo andare, ho da fare”.
“Sotto il ponte si sono formati dei coni di ghiaccio, frecce lunghe due metri, stai attento, se si staccano e ti cadono sulla testa sei finito”.
Poi, mentre tirava un’altra profonda boccata, sorrise ancora, scosse la testa e mi guardò teneramente.
Avrei voluto che mi dicesse: “Aspetta, vieni dentro, ti offro da bere qualcosa di caldo e parliamo un po’”. Venne vicino, mi tolse la neve dai capelli con le dita e sparse polvere d’argento nell’aria. Disse: “Non chiamare, né scrivere, niente. Se voglio, ti scrivo io”
Katayun aveva chiamato tre volte. Di solito telefonava al Centro per avere notizie di Mina. Quando rispondeva Leila, passava la cornetta a qualcun altro, non si parlavano. Alla quarta chiamata risposi e la lasciai parlare: “State bene voi due? Non dovevi rimanere in casa?”.
“Dovevamo andare al Centro”.
“Ci è andata mia madre. Ha fatto tutta quella strada, nelle sue condizioni. Se volevi andarci tu, almeno potevi dirmelo”.
“Non l’ho vista, se no non ci andavo”.
“Non importa. Hai visto le strade come sono?”.
“Ho lasciato Mina al Centro. Tra un’ora vado a riprenderla e torniamo a casa”.
“Non è che prende freddo? Mia madre dice che l’ha vista giocare con la neve”.
Aveva chiamato proprio per questo. Sua madre aveva visto Mina in mezzo alla neve e l’aveva informata subito. L’aveva vista mentre affondava le mani e le braccia nella neve fresca.
“Cosa c’entra tua madre? Avrei dovuto chiedere a lei il permesso per far giocare mia figlia con la neve?”.
“No, non te la prendere, si era solo preoccupata un po’”.
Poi rimase in silenzio e qualche secondo dopo chiese: “Stasera andiamo da lei? In questi giorni mi sembra che si senta più sola del solito. Io esco un po’ prima”.
Appena attaccò, ripresi a pensare al nostro viaggio. Tolsi la neve dai blocchi di cemento sul bordo della strada e mi misi a sedere. C’era ghiaccio dappertutto, sarei voluto tornare dall’uomo in macchina e sedermi al calduccio con il riscaldamento acceso. L’edicola era chiusa, le finestre erano coperte con pannelli arrugginiti di lamiera azzurra. La neve si staccò d’improvviso da un albero del marciapiede e cadde giù. Dovevamo partire per la Norvegia e fermarci da Mahya, la sorella di Katayun, in una città vicina al polo nord, con il freddo, il ghiaccio e un cielo scuro per dodici mesi all’anno. Mahya aveva descritto dettagliatamente le condizioni di Mina ai medici, Katayun le aveva inviato tutti i documenti delle terapie fatte in questi due anni. Perché continuavo a restare insieme a lei? Per quanti anni ancora potevo continuare così? Toccai i miei capelli e dei pulviscoli d’argento caddero nell’aria. Lì i medici dicevano che avrebbero potuto rallentare la malattia. Solo questo. A Katayun bastava. In lontananza, in piazza Haft-e Tir, si sentiva il rombo del motore di un’automobile. Mi alzai per vedere meglio. Non si vedeva nulla. Il suono si alzava e si abbassava e ogni volta sembrava più vicino.
Nel corridoio del Centro faceva freddo. Non c’era più il tepore di prima, non si sentiva il chiasso dei bambini e, in fondo, una finestra aperta sbatteva. Mi sembrava che fossero andati via tutti lasciandomi solo, in un edificio fatiscente che presto sarebbe stato sepolto sotto la neve. Aspettai qualche secondo per poter uscire da quell’incubo, chiusi la finestra e vidi Leila sulla porta del corridoio che mi guardava. Indossava una giacca bianca di lana e aveva una sciarpa di cashmere color verde scuro legata al collo.
“Sei tornato presto”, mi disse.
Quel verde, abbinato alla sua carnagione scura e ai capelli neri, le donava molto. Mi piaceva e mi faceva sembrare un po’ malinconico l’alone che spesso le cerchiava il viso. Chiesi: “Stai andando via?”.
“Da domani restiamo chiusi. Gli assistenti sociali non vengono più”, rispose.
“Fammi prendere Mina, che andiamo via”, le dissi.
Avrei voluto che mi dicesse: “Aspetta, vieni dentro, ti offro da bere qualcosa di caldo e parliamo un po’”. Venne vicino, mi tolse la neve dai capelli con le dita e sparse polvere d’argento nell’aria. Disse: “Non chiamare, né scrivere, niente. Se voglio, ti scrivo io”.
Persi di nuovo la parola e restai muto scuotendo solo la testa. Appoggiò l’indice sulla mia camicia e, muovendolo tra due bottoni, disse: “C’era qualcosa dall’inizio, c’era qualcosa in questa piccola distanza, tra me e te, qualcosa di vivo”.
Tolse il dito e sistemò la sciarpa sulla testa. Proseguì: “Invece di guardare te guardavo la distanza che ci impediva di stare vicini”.
Non disse più nulla. Mi posò il palmo della mano sul petto per pochi secondi e poi, veloce, si voltò e andò verso il cortile. Appoggiai le mani ai lati del viso per guardarla dalla finestra. Passò sotto il noce e dai rami cadde la neve. Una densa nebbia la inghiottì.
Mina, piegata davanti alla ruota in cortile, aveva affondato nella neve le braccia fino ai gomiti e non si muoveva. La signora Salami chiuse la porta del Centro da sopra e salutò Mina con una mano. Scendendo le scale mi guardò di sottecchi e disse: “Ripari la bambina con un ombrello, così prende freddo, è pericoloso”. Scuotendo la testa, le risposi: “Non ce l’ho, adesso andiamo subito a casa”. Non commentò, andò verso la ruota vicino a Mina, le sue gambe corte sprofondavano nella neve e sembrava ancora più bassa del solito. Si abbassò e baciò la guancia di Mina.
Uscii dalla porta del Centro e aspettai che Mina si accorgesse di me e mi venisse dietro. Lei alzò la testa e non vedendomi si spaventò. Si tirò su a fatica e trascinò le gambe in avanti verso di me. Sembrava che zoppicasse. Quando era piccola, Katayun le faceva due codine ai lati della testa che parevano un paio di antenne. Ma ora le era rimasto in testa solo il cappello di lana che incorniciava il suo piccolo viso. Avrei voluto vedere ancora i suoi capelli, le ciglia e le sopracciglia nere che non c’erano più. D’un tratto odiai la neve che continuava a cadere sui rami degli alberi, il freddo, la signora Salami con le sue gambe corte, il vecchio con il pullover bianco seduto serafico e spensierato nell’auto in attesa di essere sepolto dalla neve, questa via deserta, la piazza vuota e Katayun che sperava in un miracolo. Mina arrivò da me zoppicando e allacciò le braccia molli alla mia gamba. La tirai su e la baciai. Le tolsi le piccole scarpe bagnate e le massaggiai i piedi congelati dal freddo come se fossero cristalli di neve.
Mi disse: “Andiamo al parco?”.
Katayun mi aveva raccontato che diverse volte al parco i bambini l’avevano presa in giro per la sua testa pelata. Disse: “Giuro che non mi tolgo il cappello. Promesso, promesso”. Le strinsi la testa al petto e le baciai il collo. Continuò: “Dai, vieni, giochiamo con la neve”.
Le guardai le mani per accertarmi che avesse ancora addosso i guanti. Poi le infilai le scarpe e la lasciai scendere e camminare sulla neve. Più avanti, una mucchio di neve ruzzolò giù dal tetto di una casa proprio davanti alla porta d’ingresso e continuò a scendere fino a coprire completamente la porta. Ora si vedeva solo un gran cumulo bianco. Attesi fino alla fine, poi mi avvicinai e sentii qualcuno da dentro che picchiava sulla montagna di neve ammassata. Tre colpi, poi silenzio e tre colpi ancora.
Il vento soffiava forte e la neve turbinava. La Samand campeggiava in mezzo alla strada con i vetri tirati su e appannati. Più lontano, vicino alla rotonda, uno spazzaneve gigante graffiava la strada. Sembrava un mammut riemerso dal ghiaccio all’improvviso. Teneva giù le zanne che ogni tanto, quando ci passava sopra la spirale di luce, brillavano come diamanti. Lassù, sulla groppa di quel mastodontico elefante, c’era una cabina buia, non si riusciva a vedere l’interno. Sembrava una portantina sulla schiena di un cammello che oscillava lenta a ritmo dell’andatura. Mina corse e appiccicò il viso alla mia gamba. Sicuramente si era spaventata alla vista dello spazzaneve gigante. Teneva gli occhi chiusi e il cappello di lana le era scivolato giù.
La sera prima Katayun era di turno e Mina e io eravamo in cucina a guardare la tv che trasmetteva le immagini di una chiesa in fiamme in Norvegia. La gente, ferma sotto la neve, guardava il rogo salire dalle pareti bianche dell’edificio. Qualcuno ci aveva buttato dentro una bomba a mano ed era scappato via. Lo stavano ancora inseguendo. Avevo preparato la minestra e gliela avevo messa davanti ma lei continuava a fissare le alte fiamme sullo schermo. Allora avevo spento il televisore, aspettando che afferrasse il cucchiaio da sola, ma lei non si muoveva. Katayun diceva sempre: “Devi imboccarla, se no la bambina muore di fame”. Ma io volevo che lo facesse da sola, anche a fatica e con le dita molli. Dopo un po’ si era alzata ed era andata in camera sua. Dalla porta socchiusa, avevo visto che si era messa davanti all’armadio colorato di rosso e di verde. Avevo preso la minestra ed ero andato da lei. Seduta davanti all’armadio, era rimasta in silenzio. Aveva mangiato due o tre cucchiai di minestra e mi aveva chiesto: “Perché non sei al lavoro?”.
Sembrava stesse parlando Katayun. Avevo risposto: “Perché stiamo andando dalla zia”. Aveva abbassato la testa come se avesse capito qualcosa e aveva continuato: “Io non voglio andare in ospedale”. Avevo preso dall’armadio la sua parrucca e gliel’avevo messa in testa. Una parrucca dai capelli neri e lunghi che le scendevano fin sulle spalle. Poi avevo aperto l’anta con lo specchio. Si era guardata e si era messa a ridere scuotendo la testa e facendo muovere i capelli nell’aria. Aveva chiesto: “Fammi vedere la foto della zia”. Avevo tirato fuori dal cassetto l’album delle fotografie e lo avevo appoggiato sulle gambe. Poi avevo picchiato due tre volte sulla coscia chiamandola a sedersi sulle mie ginocchia. Era felice ma non capivo per che cosa. Si era adagiata sulle mie gambe e aveva appoggiato la testa al mio petto. Sfogliando l’album, ero arrivato alla foto di Mahya. Nella foto Katayun stava in piedi vicino a Mahya e teneva in braccio Mina. L’avevo scattata quando Mahya era tornata in Iran e aveva parlato con Katayun per portare Mina in Norvegia. Eravamo a casa del padre di Katayun, a Babolsar, per fotografarle mi ero appoggiato al muro. C’era un raggio di sole che illuminava in diagonale Mina, Katayun e Mahya. Io stavo nell’ombra. Ricordo bene, l’aria era calda e afosa, il vento faceva precipitare le onde una sopra l’altra e io, distante, sentivo il tonfo del mare. Avevo tirato fuori la foto dalla fodera di plastica e le avevo chiesto: “La vuoi?”. Non mi aveva risposto, ma mi aveva fissato a lungo negli occhi. Avevo messo la foto nello zaino che portava sempre al Centro e le avevo detto: “È tua, non darla a nessuno”. Aveva aggrappato le dita al mio pollice. Non avevano forza, ma le sentivo. Le avevo baciato le guance. Erano così gelide… Katayun diceva che la sorella aveva sentito vari medici a Oslo dire che molti guariscono dopo un anno. La mia bambina lì potrebbe guarire. E qui invece?
Vedendomi, l’uomo nell’auto ingolfata tirò giù il finestrino e agitò la mano. Passai insieme a Mina davanti alle librerie chiuse. Le vetrine erano coperte di neve fino a metà. Un po’ più avanti un altro spazzaneve imboccò il ponte di Karim Khan. Era più vicino e sembrava ancora più enorme. Le grosse catene sotto le ruote tritavano e mescolavano tutto. Era bianco e mentre avanzava lo stridore delle cinghie somigliava al lungo gemito di un animale ferito. Lassù, nell’abitacolo, tra le strisce bianche di neve che cadeva e confuso nella nebbia, vedevo il volto di qualcuno. Ora le zanne solcavano la terra e il gemito si trasformava nel rumore del ghiaccio tritato e frantumato. Lontano, altri spazzaneve, gemendo e strisciando le catene sul ghiaccio, venivano verso di me.
Andai avanti e appoggiai piano la mano sul corpo dell’animale. Non era freddo come il tocco del nudo metallo. Era caldo, come la pelle di un animale vivo. Da lassù, una voce gridò: “Ehi fratello, ma che fai? Va’ via prima di finire schiacciato sotto le ruote”. Alzai la testa per guardarlo. Si vedevano il cappello di lana tirato giù fino agli occhi, un paio di occhiali spessi e un grosso cappotto scuro, poi delle nuvole dietro la testa. Gridai facendo cenno agli altri spazzaneve che si muovevano verso il ponte: “Tutte queste macchine solo per il ponte di Karim Khan?”. Non mi rispose. Le catene ripresero lo straziante cigolio sulla neve. Feci un passo indietro e lo lasciai passare.
Leila diceva: “Dove vuoi andare tu per sei mesi all’anno è notte, per altri sei è giorno, e ci sono le montagne innevate dappertutto”. Io rispondevo: “Almeno lì ci sono sei mesi di luce, qui invece?”. Si rabbuiava e il suo corpo snello si piegava un po’ in avanti: “Tu non ne hai idea. Quando la lunga notte comincia, ti prende il terrore”.
Mi voltai e vidi Mina attraversare la strada e passare dall’altra parte sotto i lunghi coni di ghiaccio appesi ai lati del ponte. Frecce taglienti di cristallo. Feci pochi passi in avanti e mi fermai sotto l’arco del ponte. Se il cielo non fosse stato così plumbeo, se fosse spuntato un raggio di sole, la luce avrebbe volteggiato sul ghiaccio e infrangendosi avrebbe sparso mille colori nell’aria. Ora però non c’era il sole. Il cielo era tetro e la neve cadeva lenta dai due lati del ponte, come la scena di un vecchio film in bianco e nero proiettato al rallentatore. Dall’altra parte della strada Mina era ferma in piedi in mezzo alla neve. Per qualche secondo vidi la sagoma delle sue braccia alzate verso il cielo tra i fiocchi di neve, quasi stesse pregando. Si trattò di un attimo, poi cominciò a camminare e sparì in fondo alla strada.
Un cono di ghiaccio si staccò dal ponte e cadde giù frantumandosi in mille schegge di cristallo. Una polvere di vetro mi schizzò in faccia. Il vento soffiava tra i lampioni sospesi e sfiorava i cristalli di ghiaccio come se qualcuno suonasse un antico strumento preistorico che emette solo suoni soffusi e note esanimi. Mina non c’era, era rimasta sola da qualche parte in mezzo alla neve. Avrei dovuto attraversare il ponte e andare a cercarla. Avrei dovuto sistemarle il cappello di lana sulla pelle nuda della testa. Ma mi fermai e fissai i lampioni. Le acute lance di ghiaccio tremarono. Una fila di spazzaneve passò lentamente ai lati, sulla veduta del ponte, come un branco di elefanti bianchi.
Peyman Esmaeili
è uno scrittore e ingegnere nato a Teheran nel 1977. Vive in Australia dal 2011. Questo racconto è uscito su Dastan. Il titolo originale è Galle-i az filha-ye sefid . La traduzione è di Faezeh Mardani.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1441 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati