Il linciaggio è avvenuto in pieno giorno e molte persone hanno applaudito. La mattina del 24 aprile nel quartiere Canapé Vert di Port-au-Prince la polizia haitiana ha fermato un autobus pieno di passeggeri che pensava appartenessero a una banda criminale. Secondo quanto mi è stato riferito, gli uomini sono stati messi faccia a terra e alcuni cittadini comuni della capitale, stanchi di anni di violenza, terrore e impotenza, hanno cominciato a picchiarli a morte. Un testimone ha detto che li hanno uccisi e poi li hanno bruciati vivi.
Quest’episodio di giustizia sommaria – tredici uomini sono stati uccisi – è la nuova normalità ad Haiti. La pericolosità era già a livelli altissimi e l’economia in crisi prima del luglio 2021, quando il presidente Jovenel Moïse è stato ucciso nella sua casa di Port-au-Prince. Quasi due anni dopo la situazione è molto peggiorata. Le bande, originariamente sostenute dall’élite imprenditoriale e politica di Haiti, si sono avvicinate alla capitale e si stanno diffondendo in tutto il paese. Questa volta hanno un programma preciso. Secondo una recente stima, le forze di polizia sono insufficienti: ci sono solo 3.500 agenti in servizio. Tra l’incapacità di reagire e la dannosa passività dei suoi “amici” internazionali, la popolazione di Haiti è al limite della sopportazione.
“Non è solo l’insicurezza, non è solo una crisi”, mi ha detto un attivista di Port-au-Prince che, come altri haitiani, ha chiesto di restare anonimo per paura di diventare bersaglio di violenze o di essere rapito. “Per la maggior parte dei cittadini la vita è diventata uno stato di terrore continuo, uno stato d’assedio”, ha aggiunto.
Il giorno del linciaggio a Canapé Vert il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha avvertito che la violenza ad Haiti “ha raggiunto livelli paragonabili a quella dei paesi in guerra” e ha chiesto il dispiegamento di una forza internazionale. L’ufficio dell’Onu per gli affari umanitari ha calcolato che la settimana prima del linciaggio erano state uccise circa settanta persone. “Alcuni criminali hanno fatto irruzione in una chiesa e portato via un parrocchiano”, ha titolato il 18 aprile il quotidiano Le Nouvelliste. Due giorni prima, un famoso produttore televisivo era stato rapito vicino a casa sua. Poi era toccato ad Harold Marzouka Jr., un uomo d’affari con legami diplomatici a Saint Kitts e Nevis, insieme a due suoi amici. Le loro auto erano state date alle fiamme. Un altro articolo riportava la notizia di una serie di omicidi avvenuti per motivi ignoti nel porto di Cap-Haïtien. Non è esagerato affermare che la situazione è disperata. Ogni haitiano oggi vive nella paura quotidiana di essere rapito, ucciso, violentato o di trovarsi per sbaglio in mezzo a una sparatoria. Chi ha qualche risparmio teme di perderlo per pagare un riscatto per sé o per i propri cari. Molte attività commerciali hanno chiuso, compresi ristoranti, negozi e banche, e l’economia informale, un tempo vivace, è paralizzata.
Secondo le Nazioni Unite, oggi circa 4,9 milioni di persone, quasi la metà della popolazione, soffrono la fame. Ospedali e scuole sono chiusi e il colera è tornato, con quasi quarantamila casi sospetti da ottobre del 2022.
Desiderio di sopravvivere
Il primo ministro ad interim, Ariel Henry, è fuori dal mondo, ed è la cosa migliore che si possa dire di lui. Alla fine di aprile, quando le bande hanno preso il controllo di due località balneari a nord di Port-au-Prince, ha detto che la soluzione è investire nel turismo. La nomina di Henry è incostituzionale e molti lo disprezzano. Probabilmente i suoi sostenitori più importanti sono nella comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti, che hanno appoggiato il partito Tèt kale (Phtk, Testa calva) da prima della sua fondazione ufficiale nel 2012, nonostante i dubbi sulla sua legittimità. Il governo si sta preparando alle elezioni, ma molti dubitano che saranno trasparenti.
In tanti ad Haiti sperano in un intervento armato internazionale, pur sapendo che appoggerebbe Henry e ricordando le conseguenze degli interventi precedenti. Almeno diecimila persone sono morte a causa del colera portato dai caschi blu nepalesi nell’ultima missione di pace delle Nazioni Unite. La contraddizione di sperare in un intervento straniero nonostante i disastri del passato nasce dal desiderio di sopravvivere e dall’impotenza: i cittadini non possono sfidare un leader che non è stato eletto.
Ayiti pap peri, Haiti non morirà, diventò uno slogan nel 2010, dopo che a gennaio un terremoto rase al suolo la capitale e uccise centinaia di migliaia di persone. Lo usò anche nel suo lavoro un famoso autore di graffiti, Jerry Rosembert Moïse. Nel 2021 l’artista ha lasciato Haiti sperando di tornare quando la situazione si stabilizzerà. Oggi le frasi in creolo che si ascoltano più spesso sono: Pa gen Ayiti anko o Peyi a fini: non c’è più Haiti, il paese è finito.
Elezioni disastrose
Le cause della crisi sono molte, ma gran parte della responsabilità è della comunità internazionale. Durante la guerra fredda, François Duvalier e poi il figlio Jean-Claude (Papa e Baby doc) governarono con il terrore. Gli Stati Uniti per lo più fecero finta di niente, perché consideravano la loro dittatura un baluardo contro il comunismo in America Latina. Nel 1991 e nel 2004 Washington appoggiò il colpo di stato contro un presidente democraticamente eletto, il socialista Jean-Bertrand Aristide. Jake Johnston, che sta scrivendo un libro su Haiti, mi ha detto: “I governi stranieri hanno svolto un ruolo determinante nella politica del paese e hanno distorto qualsiasi concetto di democrazia”. Per i politici haitiani gli altri stati, e i loro interessi, sono spesso “più importanti della popolazione stessa” per vincere le elezioni, ha aggiunto.
Secondo molti haitiani le radici della crisi attuale risalgono al 2010, un anno cominciato con il terremoto e finito con il caotico primo turno delle elezioni presidenziali. Il sisma di gennaio distrusse le case di un milione e mezzo di persone e molte infrastrutture. Con miliardi di aiuti messi a disposizione, il Core group – un’organizzazione multilaterale di ambasciatori, tra cui quelli di Stati Uniti, Canada, Francia e dell’Organizzazione degli stati americani – voleva favorire una tempestiva transizione democratica e l’insediamento di un nuovo presidente, che sarebbe stato riconoscente verso i benefattori.
Ma le elezioni furono un disastro. All’epoca vivevo a Port-au-Prince, facevo la giornalista e parlai con molte persone che non potevano votare. Il terremoto aveva seppellito i registri ufficiali, quindi molti cittadini non erano riusciti ad avere una nuova carta d’identità in tempo per lo scrutinio. I seggi elettorali erano stati cambiati senza preavviso: chi li raggiungeva non trovava il suo nome sulle liste elettorali, ma quelli dei vicini morti nel sisma.
A mezzogiorno del 28 novembre 2010 un gruppo di candidati presidenziali guidò un corteo attraverso le strade della capitale, chiedendo che le elezioni fossero annullate. Invece cominciò un caos di diplomazia, con minacce e accordi dietro le quinte che portarono all’inserimento, tra i candidati al ballottaggio, di Michel Martelly, un famoso cantante sostenitore di Trump. Gli Stati Uniti e l’Organizzazione degli stati americani sostennero Martelly e il suo partito Tèt kale.
Una volta diventato presidente, Martelly si presentò come un leader con cui gli investitori stranieri potevano collaborare. Nel frattempo, secondo inchieste indipendenti successive, lui e i suoi soci si appropriarono indebitamente di più di due miliardi di dollari di aiuti del programma venezuelano Petrocaribe, un accordo petrolifero stipulato nel 2005 tra il Venezuela di Hugo Chávez e i paesi caraibici.
Nel 2016, alla fine del suo mandato (la costituzione stabilisce che un presidente può essere rieletto per due mandati non consecutivi), Martelly nominò alla guida del Phtk Jovenel Moïse, un oscuro rappresentante dell’industria agricola, affinché facilitasse il suo ritorno al potere nel 2021. La fiducia della popolazione era così bassa che solo il 18 per cento degli aventi diritto andò a votare.
Ma Moïse non fu il vassallo obbediente che Martelly aveva sperato. Si prese tutto il potere, ritardò le elezioni amministrative e cercò di far passare un referendum costituzionale che gli avrebbe permesso di candidarsi per un secondo mandato consecutivo. Quando eliminò i sussidi per il carburante, la popolazione si sollevò e chiese al governo di spiegare come aveva speso i soldi del programma Petrocaribe. Moïse si affidava alle bande criminali per reprimere il dissenso, aprendo così un ciclo di violenza, rapimenti e massacri, quando le bande sfuggivano al suo controllo. Lo scrittore Jake Johnston mi ha detto che al culmine delle proteste contro Moïse, “quasi tutti pensavano che il presidente resisteva al potere solo grazie alla comunità internazionale”.
Quando Moïse è stato ucciso, il 7 luglio 2021, ad Haiti c’erano solo dieci parlamentari eletti, tutti senatori (non ci sono elezioni legislative dal 2019). La camera dei deputati era vuota e non c’erano sindaci né consiglieri comunali eletti in tutto il paese. Moïse aveva nominato primo ministro Henry il 5 luglio. La costituzione prevede diversi percorsi da seguire per la successione, ma la maggior parte richiede l’approvazione del parlamento. Henry non l’ha mai ottenuta, perché non c’è un parlamento che possa dargliela. Il sostegno degli Stati Uniti ha rafforzato il suo governo anche se non ha un riconoscimento costituzionale e popolare.
Un funzionario del dipartimento di stato statunitense mi ha detto che Washington considerava Henry una “figura di transizione”, che avrebbe riportato Haiti sulla via della democrazia. Ma la maggior parte degli haitiani è convinta che il Phtk modificherà qualsiasi legge elettorale in suo favore.
Sostegno cinico
Fin da prima dell’omicidio di Moïse esisteva un gruppo politico alternativo con un consenso apparentemente più ampio: la commissione per una soluzione haitiana alla crisi. Nell’agosto 2021 ha presentato un progetto, l’accordo Montana per un governo di transizione e un percorso verso le elezioni. Ideato da rappresentanti della società civile, gruppi di contadini e leader religiosi, l’accordo ha quasi mille firmatari. Secondo chi ne fa parte, però, gli intermediari statunitensi hanno detto alla commissione che deve collaborare con Henry, che da parte sua ha pochi motivi per scendere a compromessi.
“Dicono che ad Haiti non si scelgono vincitori e vinti”, afferma Monique Clesca, giornalista haitiana, ex funzionaria delle Nazioni Unite e tra le ideatrici dell’accordo. “Ma Washington ha scelto un perdente, uno che favorisce le bande criminali e la corruzione. E sfortunatamente ad Haiti gli Stati Uniti sono la potenza più grande”.
Il funzionario del dipartimento di stato con cui ho parlato nega che Washington sostenga Henry: “Abbiamo sempre incoraggiato il dialogo. Abbiamo incontrato tutti, dal gruppo Montana al primo ministro”, dice.
Ma riconosce che i rapporti di base tra i due paesi, tra cui la protezione dei cittadini statunitensi, la fornitura di aiuti umanitari e di strumenti per la sicurezza, “ci impongono di collaborare con le autorità locali. Quindi dobbiamo lavorare con il governo. Alcune persone penseranno che questo equivale a sostenere Henry. Non è la nostra posizione, ma dobbiamo trattare con lui”. Clesca paragona il riconoscimento statunitense dell’autorità di Henry al cinico appoggio dato al dittatore François Duvalier, che governò con il pugno di ferro tra il 1957 e il 1971.
Un ex funzionario statunitense che si occupa di Haiti da decenni mi ha suggerito un’immagine diversa: “È come se ci fosse un movimento democratico in Ungheria e avessimo bisogno di considerare Viktor Orbán parte della soluzione”. Ogni singolo atto del Phtk – lo smantellamento della democrazia elettorale, il potenziamento delle bande, il furto di miliardi dalle casse dello stato – avrebbe dovuto spingere gli Stati Uniti a ritirare il loro sostegno, afferma l’ex funzionario.
“Se la comunità internazionale ci avesse aiutato, probabilmente avremmo evitato molti morti, rapimenti e perdite”, dice Clesca.
Per non correre pericoli
Quasi tutti a Port-au-Prince conoscono qualcuno che è stato rapito. Nel primo trimestre del 2023, il centro per l’analisi e la ricerca sui diritti umani di Haiti ha contato 389 rapimenti, con un aumento del 72 per cento rispetto allo stesso periodo del 2022 e del 173 per cento rispetto al 2021. Secondo il centro, la colpa è delle persone colpite dalle sanzioni internazionali, che usano i riscatti per compensare le loro perdite.
Amici e conoscenti che vivono ancora ad Haiti mi hanno rivelato alcune strategie per non essere rapiti. Se puoi, evita Port-au-Prince; limita i tuoi spostamenti; non uscire dopo le 18; non prendere scorciatoie; se hai un’auto, non usarla, le persone che viaggiano in macchina sono un bersaglio; per poter scappare più velocemente e dare meno nell’occhio, usa un motorino oppure vai a piedi o prendi l’autobus. Puoi ridurre i rischi, ma non eliminarli del tutto.
Un ragazzo con cui ho parlato ad agosto è stato rapito mentre viaggiava su un autobus con un’altra decina di persone durante il tragitto di novanta chilometri da Jacmel alla capitale. Lui e l’autista sono stati rilasciati dopo che un amico negli Stati Uniti ha pagato il riscatto. Ma non sa cosa sia successo agli altri passeggeri, anche se ricorda bene le grida delle donne: probabilmente cercavano di difendersi da una violenza sessuale.
Altri consigli per non correre pericoli: non andare al lavoro e non mandare i figli a scuola, se la scuola è ancora aperta. Nessun posto è sicuro, nemmeno la chiesa, e tutti sono in pericolo. Non usare i social network ed evita le riunioni su Zoom. Organizza il tuo quartiere: raccogli soldi per il commissariato locale, perché la polizia non ha più carburante, viveri e armi. Cerca fondi anche per i lampioni e assumi guardie di sicurezza private, una per ogni accesso al quartiere. Se una banda criminale disarma una delle guardie, sbarra l’accesso con un muro. Se uccidono un vigilante e la società di sicurezza annulla il contratto con il tuo quartiere, trovane un’altra. Se una banda di notte abbatte il muro e terrorizza tutti sparando, sostituisci il muro con un container. Riempi il container di sassi e mettici altri container sopra. Riempi anche quelli di sassi, poi convinci il comune a demolire un ponte lì vicino in modo che la banda non possa arrivare con mezzi pesanti e portare via i container.
Non concentrarti solo sul tuo quartiere: guarda online la mappa che mostra come le bande stanno prendendo il controllo di tutte le zone Port-au-Prince. Alla fine raggiungeranno ogni area della città.
Se ti guadagni da vivere vendendo merce o da mangiare per strada, scappa al primo segno di disordine, non perdere tempo a prendere la tua roba. Abituati a mangiare riso scondito ogni giorno, sii grato di averlo. Abituati anche a saltare i pasti e ad avere mal di testa. Festeggia se passi cinque giorni senza sentire un colpo di pistola.
Prendi in mano la situazione. Affila il tuo machete. Compra una pistola, quasi nessuno controlla i porti. Quando la polizia ferma un autobus a Canapé Vert e durante la perquisizione a bordo trova armi di grosso calibro, e gli uomini sono fatti stendere a terra e poi bruciati vivi, ti troverai ad applaudire. Sai che quegli uomini, alcuni molto giovani, non hanno avuto giustizia. Forse non avevano nessuna colpa. Ti preoccupi che ci possano essere rappresaglie, anche se non è più tempo per fare queste considerazioni.
◆ Il 15 maggio 2023 il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, che da mesi chiede un intervento internazionale per sostenere Haiti e aiutare il paese a combattere la violenza delle bande criminali, ha criticato la reticenza dei paesi occidentali a farsene carico. E il consiglio di sicurezza dell’Onu ha espresso la sua “inquietudine” per il deterioramento della situazione umanitaria e di sicurezza nel paese caraibico. Ad Haiti non ci sono elezioni presidenziali dal 2016. Il 7 luglio 2021 un commando armato ha ucciso il presidente Jovenel Moïse a Port-au-Prince e da allora la situazione, già critica, è precipitata. Afp
In coda per il passaporto
È difficile ritrovare nella Port-au-Prince di oggi quella che ho conosciuto qualche anno fa: dal 2007 al 2011 ho vissuto in un quartiere tranquillo a pochi passi da Canapé Vert. Allora mi limitavo a prendere le stesse precauzioni che usavo a New York se giravo da sola la notte: evitavo certe zone. Non sono mai stata minacciata. Dopo essere rientrata negli Stati Uniti, sono tornata nella capitale haitiana come giornalista e per andare a trovare degli amici, in particolare una donna che chiamerò N, e la sua famiglia.
“Ti aspettiamo”, diceva N ogni volta che mancavo dal paese per più di un anno. A novembre del 2018 ho prenotato un aereo per Haiti, ma il volo è stato cancellato pochi minuti prima dell’imbarco. Dei manifestanti avevano occupato la pista di Cap-Haïtien per protestare contro la corruzione e la riduzione dei sussidi per il carburante decisa da Moïse. Alcuni avevano chiesto le dimissioni del presidente, e lui aveva risposto reprimendo le manifestazioni. Il mio volo è stato cancellato anche i giorni successivi.
“Non venire”, ha cominciato a dirmi N. “Aspetta fino a quando la città non sarà di nuovo sicura”, ripeteva.
Da allora il paese è precipitato nel caos: ci sono stati scioperi generali, le bande armate hanno accresciuto il loro potere ed è cominciato l’esodo. L’anno scorso il cognato di N è stato rapito. Lei vendeva scarpe di seconda mano per strada, ma ora è troppo pericoloso. Ha smesso di dirmi di aspettare e ha cominciato a chiedermi aiuto per partire.
La migliore difesa contro i rapimenti è andare via. A gennaio l’amministrazione Biden ha presentato un programma umanitario che consente ai migranti provenienti da Haiti, Venezuela, Cuba e Nicaragua di rimanere negli Stati Uniti per due anni, se riescono a ottenere il passaporto e trovano un garante negli Stati Uniti. Nessuna delle due cose è facile. La diaspora haitiana negli Stati Uniti è allo stremo, dopo aver inviato le rimesse ai familiari per anni. Ma il reinsediamento negli Stati Uniti potrebbe costare a una famiglia meno di un riscatto. Anche questa è una considerazione da fare.
Ottenere i documenti necessari significa affrontare pericoli e umiliazioni. Dopo l’annuncio del programma, gli uffici per i passaporti di Haiti sono stati presi d’assalto. Il prezzo di un passaporto, con le nuove tasse stabilite da quello che N definisce un racket, è quintuplicato: oggi costa l’equivalente di 280 euro, una somma che possono permettersi in pochi. N ha ottenuto il documento dopo aver fatto per giorni lunghe code sotto il sole bollente, aver affrontato sparatorie e cariche con i gas lacrimogeni. Né lei né il marito parlano inglese. Vorrebbero chiedere a un lontano cugino che vive nel sud della Florida di fargli da garante.
La Casa Bianca considera il suo programma umanitario un successo. Gli attraversamenti illegali alla frontiera sono diminuiti. La stampa ha meno opportunità di raccontare le orribili scene di violenza suprematista bianca, come quella avvenuta a Del Rio, in Texas, nel 2021, quando gli agenti di frontiera a cavallo hanno inseguito i richiedenti asilo haitiani con le fruste. Intanto ad Haiti aumentano i professionisti in fuga. Il sito di notizie AyiboPost riferisce che i medici stanno partendo in massa; un amico che lavora per una ong ha calcolato che il suo staff si è ridotto di almeno il 10 per cento.
“La gente sta scappando”, dice H, un architetto determinato a rimanere a Port-au-Prince. “Non si può ricostruire un paese se tutti vanno via. Ma non si possono neanche incolpare le persone perché vogliono una vita migliore”. H pensa che il programma di Biden “sia stato un cattivo servizio. Se qualcuno ci volesse davvero dare una mano, ci aiuterebbe a restare nel nostro paese”.
Alla fine del 2022 Ariel Henry ha firmato un nuovo documento, l’accordo nazionale per una transizione inclusiva ed elezioni trasparenti, che prevede le elezioni politiche nel 2023 e l’insediamento di un nuovo presidente a febbraio del 2024. Quasi nessuno crede che lo scrutinio si svolgerà secondo questo calendario. Pochi appoggiano il piano di Henry, ma il problema più grande ora è la violenza. Le elezioni non possono essere libere e trasparenti se la vita quotidiana è così pericolosa. “Sarà difficile andare avanti senza affrontare il problema della sicurezza”, ha detto il 26 aprile la nuova rappresentante speciale delle Nazioni Unite per Haiti, María Isabel Salvador.
Per ristabilirla bisognerebbe dare un aiuto significativo alla polizia nazionale, ma nessun paese si è offerto di farlo. Le speranze di Washington che il Canada potesse occuparsene sono crollate alla fine di marzo. “Gli interventi che abbiamo fatto in passato non sono serviti a garantire ad Haiti una stabilità a lungo termine”, ha dichiarato il primo ministro canadese Justin Trudeau.
Ma secondo Monique Clesca, la questione dell’intervento armato è secondaria rispetto a quella più urgente della governabilità e della giustizia: “Negli ultimi undici anni il governo si è comportato come un orco, ha divorato il suo popolo. E voi volete far arrivare un esercito per dargli una mano?”. La polizia ha bisogno di aiuto, ma un intervento straniero senza un patto politico più ampio aggraverebbe i problemi del paese, afferma Clesca.
Secondo H, l’architetto che vuole rimanere ad Haiti, quest’atteggiamento è come volere apparecchiare la tavola a tutti i costi prima di dar da mangiare a un affamato. Ad Haiti, per lui, non c’è tempo per la politica. A sinistra molti sono d’accordo, anche se hanno sempre condannano l’interferenza arrogante delle potenze straniere. Ora pregano per averla. ◆bt
Pooja Bhatia è una giornalista e scrittrice. È stata corrispondente dell’Economist da Haiti, dove ha vissuto dal 2007 al 2011.
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Questo articolo è uscito sul numero 1513 di Internazionale, a pagina 49. Compra questo numero | Abbonati