Un bambino si mette in posa sorridente accanto alla sua bicicletta. Tiene la mano sul fianco, orgoglioso. Dal manubrio della bicicletta sventola una bandiera del Regno Unito. Presto quella stessa bandiera diventerà un simbolo di oppressione coloniale, mentre il ragazzo e altri come lui si ritroveranno intrappolati in un clima di razzismo e violenza.
La foto Boy with flag, Winford, in Handsworth Park è stata scattata nel 1970 dal giamaicano Vanley Burke per una serie sugli abitanti della periferia di Birmingham originari delle indie occidentali. Pochi anni dopo, nel 1977, Burke avrebbe fotografato le manifestazioni di protesta a Handsworth. E in quelle immagini c’è un elemento che ricorda l’altra fotografia: il corteo è guidato da ragazzi in sella a biciclette sgangherate.
Cittadini traditi
Le foto di Burke, insieme alle opere di una quarantina di artisti di origini caraibiche, formano la mostra Life between Islands, alla Tate Britain. L’esposizione racconta settant’anni di storia britannica dalla prospettiva di persone che si sentono separate dalle proprie origini, come i componenti della cosiddetta generazione Windrush (che prende il nome dalla nave che portò nel Regno Unito uno dei primi gruppi di migranti caraibici), quindi racconta i cittadini delle colonie che in seguito al British nationality act (1948) potevano stabilirsi ovunque nell’impero britannico, compresa quella che consideravano la madre patria, e che sono sistematicamente diventati oggetto di razzismo e discriminazione. Nel 2018 un’indagine nota come scandalo Windrush ha portato alla luce alcuni di questi abusi.
La mostra riunisce artisti del passato come Ronald Moody e Frank Bowling a contemporanei come Hew Locke, Steve McQueen e Isaac Julien. Le opere sono esposte più o meno in ordine cronologico e divise per movimenti culturali. Si comincia con i lavori della generazione arrivata nel Regno Unito tra gli anni quaranta e cinquanta, che trasmettono un senso di nostalgia e il desiderio di conservare la propria identità. In Sun and Earth II (1963) e Tribal mark II (1961), Aubrey Williams mischia espressionismo astratto e immagini di popoli indigeni del suo paese, la Guyana.
Nelle opere del Caribbean artists movement, nato negli anni sessanta, si nota la volontà di recuperare un’eredità perduta. Per esempio nei corpi danzanti di Dance at Reading town hall, dipinti da Paul Dash usando malinconiche sfumature di blu, o nei chitarristi di Talking music. In queste opere tutti sembrano divertirsi, come i protagonisti della foto di Charlie Phillips, Outside the Piss House Pub, Portobello road (1969).
Sono scene lontane da quelle delle manifestazioni, diventate un appuntamento fisso tra gli anni settanta e gli anni ottanta, quando l’influenza del Black power e del movimento per i diritti civili dagli Stati Uniti arrivò nel Regno Unito. Horace Ové fotografò Michael X, leader del Black power movement, che usciva dalle ombre della stazione di Paddington insieme a suoi compagni, diretti a un raduno. Un’altra foto mostra Darcus Howe mentre arringa una folla in occasione del processo ai Mangrove 9, un gruppo di residenti di Notting Hill accusati d’incitamento alla rivolta da un agente di polizia corrotto. Un’immagine molto potente è Black panther school bags (1970) di Neil Kenlock: quattro ragazze con con la scritta Black o i disegni di una pistola e di un pugno chiuso sulle loro borse a tracolla. Negli anni ottanta le rivolte esplosero in tutto il paese, da Brixton (Londra) a Toxteth (Liverpool). Nel Broadwater farm estate, nella zona nord di Londra, morirono due persone: una donna di origine caraibica e un poliziotto. Quegli eventi tragici si riflettono nel dipinto di Tam Joseph, ironicamente intitolato The sky at night (1985).
Mentre la rabbia si allargava in tutto il paese, fotografi come Pogus Caesar e Vron Ware immortalarono gli scontri tra manifestanti e polizia. Eppure alcune delle immagini più drammatiche sono opera dei pittori. In Destruction of the National Front (1979-80) di Eddie Chambers, una bandiera britannica e una svastica sovrapposte si disintegrano in brandelli. In Spirit of the carnival (1982) di Tam Joseph un uomo in maschera è circondato da poliziotti in tenuta antisommossa. Death walk (1983) di Denzil Forrester, dedicato a Winston Rose, morto nel 1981 mentre era in stato di arresto, mostra il soggetto supino su una bara, con le braccia allargate. E poi c’è Territories (1984), il video di Isaac Julien sugli scontri tra i partecipanti a una festa e la polizia.
Paradiso perduto
Rabbia, frustrazione, disillusione sono le emozioni illustrate in molti lavori, ma non manca la nostalgia. Ingrid Pollard, partita dalla Guyana a quattro anni, in Oceans apart (1989) incornicia foto prese da album di famiglia per esprimere un senso di perdita: una madre gioca con il figlio in una spiaggia assolata, un ragazzo cavalca un pony, dei bambini scherzano tra loro mentre le onde dell’Atlantico si abbattono sulla riva.
La stessa tensione è presente in Paradise Omeros (2002), un altro video di Isaac Julien che cerca di trovare un senso in due culture separate ma connesse, l’Inghilterra degli anni sessanta e l’isola caraibica di Santa Lucia, da cui venivano i suoi genitori. Alle spiagge assolate e alle lussureggianti foreste tropicali dell’isola fanno da contraltare le case popolari di Londra, battute dalla pioggia. Intrappolato tra i due mondi, un ragazzo cerca di scoprire a quale luogo appartiene.
Per molti la tentazione di mostrare un “paradiso” si rivela troppo forte. Peter Doig, artista britannico che si è trasferito a Trinidad nel 2002, in Music of the future (2002-2007) rappresenta il calore e la luce dell’isola, mentre nell’angosciante Moruga (2002-2008) una canoa si avventura in una notte tempestosa sventolando il vessillo di San Giorgio, e una figura che ricorda un crociato impugna una spada. Il paradiso, però, può essere sfuggente: Hurvin Anderson, nato a Birmingham da genitori giamaicani e allievo di Peter Doig, ha dipinto scene idilliche in Maracas III (2004) e nell’ingannevole Hawksbill Bay (2020), in cui dietro gli alberi tropicali si nascondono strutture abbandonate e alberghi in rovina.
L’ultima opera della mostra Remain, thriving (2018) della nigeriana Njideka Akunyili Crosby sembra voler recuperare un momento di normalità. Si vede una strana riunione di famiglia, in cui sono evidenti ricordi di generazioni passate e riferimenti alle persone e ai luoghi della comunità di Brixton. Normalità? Nessuno guarda la tv accesa, in cui è intervistata una donna nera con il titolo: “Scandalo Windrush, ultimi sviluppi”. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1448 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati