Dal 13 ottobre decine di migliaia di abitanti del nord della Striscia di Gaza sono in fuga verso sud, dopo che Israele ne ha ordinato l’evacuazione. Il tentativo di trasferire più di un milione di persone somiglia a una seconda nakba, la catastrofe palestinese del 1948. Molti cercano rifugio in casa di familiari o amici. Ma tutti sanno che a Gaza non ci sono luoghi sicuri.
La maggior parte delle istituzioni internazionali con uffici a Gaza – compresa l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) e le agenzie di stampa come Associated Press – hanno spostato a sud i dipendenti. Nonostante questo, molti abitanti sono rimasti nella città di Gaza e in altre aree nel nord. Per tanti di loro, che sono profughi dal 1948, andarsene di nuovo è impensabile. Alcuni non possono farlo perché sono malati o feriti. Altri non sanno dove andare o temono le difficoltà del viaggio.
Samar Siyam, che si è rifugiata con la famiglia a Khan Yunis, a sud, ha avuto difficoltà a trovare un mezzo di trasporto: “Abbiamo contattato il centralino dei taxi, ma non c’erano più auto disponibili”. Kamal Obeid, 32 anni, è andato con i parenti in una scuola gestita dall’Unrwa a Tal el Hawa, nella zona ovest della città di Gaza: “Non scapperò due volte. Abbiamo perso tutto quello che avevamo. Se dobbiamo morire, moriremo qui. Nessuna morte è peggiore della situazione in cui viviamo, senza acqua, viveri o elettricità”.
Ahmed Masoud, 22 anni, ha deciso di scappare: “Dobbiamo andarcene, anche se finiremo per strada”. Umm Abed è tra le migliaia di persone in viaggio a piedi, lungo la strada Salah al Din, che collega la Striscia da nord a sud, insieme a figli e nipoti. “Questo è un genocidio”, dice. “Dove dovrebbero andare tutte queste persone? Le nostre anime e le nostre vite contano”. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1534 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati