Il giorno della morte di Sudan, tutto è stato grandioso e allo stesso tempo ordinario. Era lunedì. Cielo grigio, pioggerella leggera. All’orizzonte il sole si vedeva a fatica sopra la doppia cima del monte Kenya. Alcune scimmiette dal muso nero sono corse a scavalcare il recinto per rubare la razione mattutina di carote. I cancelli di metallo cigolavano e sbattevano. Gli uomini parlavano piano in swahili. Sudan era a terra, immobile, le zampe massicce piegate sotto il corpo, la testa enorme girata come una barca sul punto di rovesciarsi. Il suo grosso corno era spuntato, sfregiato, consunto. Il respiro era rauco e affannoso. Intorno a lui, per chilometri e chilometri in ogni direzione, la savana brulicava di vita. Facoceri, zebre, elefanti, giraffe, leopardi, leoni e babbuini continuavano a fare quello che facevano da millenni: cacciare, nutrirsi, addentare carcasse, respirare, correre ed esistere. Fino a poco prima Sudan era parte di questa energia vitale. Ma ora non riusciva a muoversi. Era una gigantesca quiete al centro di tutto quel movimento.

Sudan era l’ultimo esemplare maschio di rinoceronte bianco settentrionale, la parte finale di una catena evolutiva lunga milioni di anni. Anche se è stata una tragedia, la sua morte non ha sorpreso nessuno. È stata l’apice di una crisi della conservazione che da decenni stava accelerando fino ad arrivare a quel preciso momento. Ed era stato fatto ogni tentativo – legale, politico, scientifico – per scongiurarla.

Sudan aveva 45 anni, tanti per un rinoceronte. Aveva la pelle grinzosa. Gli occhi erano circondati di rughe. Grigio come una pietra, sembrava un masso che respirava. La sua salute peggiorava da mesi. Le zampe erano coperte di lesioni e una ferita si era infettata gravemente. Quando camminava, trascinava le zampe grattando il terreno. Il giorno prima, all’ora del tramonto, era crollato a terra per l’ultima volta. Inizialmente aveva cercato di rialzarsi – i custodi si erano accovacciati accanto a lui e l’avevano aiutato a sollevarsi – ma le zampe erano troppo deboli. Gli hanno dato da mangiare delle banane imbottite di antidolorifici, ventiquattro pillole alla volta. I veterinari gli hanno medicato le ferite con dell’argilla.

Negli ultimi anni di vita, Sudan era diventato una celebrità planetaria, il simbolo della lotta per la protezione degli animali. Viveva come un ex presidente, protetto da guardie armate, ventiquattr’ore al giorno e sette giorni alla settimana. I visitatori venivano da tutto il mondo per vederlo. Sudan era un perfetto ambasciatore: anche se pesava più di due tonnellate, era docile come un labrador. Permetteva agli esseri umani di toccarlo e di offrirgli da mangiare, e nella sua bocca cavernosa una carota sembrava uno stuzzicadenti. I turisti si commuovevano, perché sapevano di avere a che fare con una creatura unica, un gigante primordiale che stava per scomparire. Molti tornavano di corsa nelle loro auto, e scoppiavano a piangere.

Sudan era l’ultimo maschio, ma non l’ultimo della specie. Aveva due discendenti femmine: la figlia Najin e la nipote Fatu. Mentre Sudan si spegneva, le due rinoceronti continuavano a pascolare in un campo poco lontano. Vivranno il resto della loro vita in uno strano crepuscolo esistenziale, un limbo che gli scienziati chiamano, con straziante crudezza, “estinzione funzionale”. La sottospecie a cui appartengono non è più vitale. Due femmine, da sole, non possono salvarla.

Negli ultimi istanti di vita, Sudan era circondato da persone che lo amavano. I suoi custodi erano dei veterani, che avevano avuto spesso a che fare con la morte. Erano sopravvissuti a incontri ravvicinati con leoni ed elefanti, bufali e babbuini. Ma con Sudan era tutto diverso. Pensiamo che l’estinzione avvenga dietro le quinte o nelle nebbie della preistoria, non sotto i nostri occhi, in un giorno specifico. Invece eccolo lì: 19 marzo 2018. I custodi hanno grattato la pelle ruvida di Sudan, gli hanno detto addio, fatto promesse e chiesto scusa per i peccati dell’umanità. Alla fine i veterinari l’hanno addormentato per sempre. Lui ha respirato affannosamente per un po’ e poi è morto.

Sono state versate lacrime, ma c’era del lavoro da fare. Gli scienziati hanno estratto da Sudan il poco sperma che rimaneva, l’hanno messo in una borsa frigo e si sono precipitati in laboratorio. Nel recinto una squadra gli ha staccato la pelle a grossi pezzi. I custodi hanno bollito le ossa in un mastello. Volevano preparare un regalo per i posteri: un giorno Sudan sarà ricostruito in un museo, come un dodo o un’alca impenne o un Tyrannosaurus rex, e i bambini potranno sapere che un tempo esisteva un animale chiamato rinoceronte bianco settentrionale. Degli esseri viventi guarderanno la creatura morta immaginando com’era da viva. Ma non ci riusciranno veramente. Non si possono ricostruire tutti quei piccoli momenti, noiosi o elettrizzanti, che rendono una creatura quello che è.

Sotto i riflettori

La morte di Sudan è stata molto seguita dai mezzi d’informazione. La foto di un custode che lo accarezzava è diventata virale sui social network, dove ha ricevuto milioni di like. L’area dove vivono i rinoceronti si è riempita di visitatori. E poi, inevitabilmente, l’attenzione del mondo si è spostata su altro.

Najin, mentre comincia a piovere a Ol Pejeta, nell’aprile 2019 - Justin Mott
Najin, mentre comincia a piovere a Ol Pejeta, nell’aprile 2019 (Justin Mott)

Nel maggio del 2019, poco più di un anno dopo la morte di Sudan, le Nazioni Unite hanno pubblicato un rapporto apocalittico sull’estinzione di massa: un milione di piante e di specie animali rischiano di essere cancellate dal pianeta. Un orrore. L’estinzione di massa è la crisi definitiva, la sventura di tutte le sventure, il disastro finale. Cosa potrebbero fare di peggio gli esseri umani che uccidere la vita intorno a loro, in maniera irreversibile, su vasta scala? Un milione di specie: un numero così grande supera la nostra capacità di pensiero, diventa – come scrive Albert Camus nel romanzo La peste – soltanto “fumo nell’immaginazione”.

Eppure non possiamo permetterci di dimenticare cosa c’è dietro quel fumo. Un milione non è solo un numero, ma una moltitudine di esseri viventi: rane, pipistrelli, tartarughe, tigri, api, anguille, pulcinella di mare, gufi. Tutti sono reali, ognuno ha la sua storia, i suoi legami familiari e le sue abitudini. Insieme questi animali rappresentano un vasto, incredibile archivio: una raccolta di storie evolutive così ricca e complessa che i nostri cervelli altamente evoluti faticano a contemplarla a pieno. Gli esseri umani, però, senza un valido motivo hanno dato fuoco a questo archivio. Stiamo distruggendo la vaquita, una minuscola focena che nuota nel golfo di California. E il toporagno di Christmas island, che zampetta (o zampettava, perché forse non ne è rimasto nessuno) nelle foreste pluviali su un puntino di terra in mezzo all’oceano Indiano. E, naturalmente, il rinoceronte bianco settentrionale.

La storia evolutiva dei rinoceronti comincia circa 55 milioni di anni fa. In quell’epoca lontana l’Europa era un gruppetto di isole tropicali, cavalli grandi come gatti percorrevano al galoppo il Nordamerica e carnivori simili a lupi cominciavano a immergersi nell’oceano avviando quello stranissimo processo che li avrebbe trasformati in balene. In tutto il pianeta i mammiferi sperimentavano l’essere mammiferi e procedevano a tentoni verso la loro forma migliore. Le prime specie di rinoceronti ricordavano gli attuali ippopotami o i tapiri. Un loro parente di stazza particolarmente grande aveva il collo così lungo che oggi è chiamato a volte “rinoceronte giraffa”.

A un certo punto il rinoceronte ha assunto la forma che conosciamo: massiccio, tozzo, gli occhi piccoli infossati dietro un corno minaccioso, se non due. Anche se questi animali sembrano pericolosi, la loro missione di vita è sempre stata pacifica: ruminare e riprodursi. Per milioni di anni, i rinoceronti sono riusciti a farlo con successo. Senza molti predatori, e senza nessuna preda, hanno prosperato in tutta l’Asia, in Nordamerica, in Africa e in Europa.

Poi sono arrivati gli esseri umani. Abbiamo cacciato i rinoceronti con armi primitive. Con il tempo, queste armi sono diventate così potenti che la corazza del rinoceronte non è servita più a niente. Le stesse caratteristiche che nella preistoria li avevano resi indistruttibili – le dimensioni e i corni – sono diventate degli svantaggi. La grandezza li rendeva facili bersagli. I corni erano ricercati per vari motivi: potevano essere dei trofei, ma erano considerati anche strumenti per individuare i veleni e facilitare il parto, o materiale per i manici dei pugnali yemeniti. E, cosa forse più nota, come ingrediente della medicina tradizionale cinese, dove si crede che la polvere di corno di rinoceronte possa compiere molti prodigi: raffreddare il sangue, attenuare l’emicrania, bloccare il vomito, curare i morsi di serpente e altro ancora.

Oltre alla violenza della caccia, c’è la violenza cronica della perdita dell’habitat. Aree commerciali, campi di calcio, fattorie, autostrade, fabbriche: anche queste sono armi. I grandi animali selvatici hanno bisogno di vasti spazi, e l’umanità non ha lasciato intatto quasi nulla.

Tutti questi fattori sono stati all’origine dello sterminio dei rinoceronti. Il rinoceronte di Giava, che un tempo girovagava in tutto il sudest asiatico, oggi è confinato in un parco nazionale in Indonesia. L’estrema concentrazione della sua popolazione (74 individui) preoccupa i conservazionisti, dal momento che l’eruzione di un vicino vulcano potrebbe ucciderli tutti. Il rinoceronte di Sumatra – un tipo solitario, piccolo, peloso e adorabile – è altrettanto in pericolo: oggi ne sopravvivono meno di ottanta esemplari.

Ma nessun rinoceronte sta peggio del bianco settentrionale. Il suo habitat originario, in Africa centrale, negli ultimi decenni del novecento è stato devastato dalle guerre, che hanno reso impossibile la protezione della specie. Negli anni settanta una popolazione di migliaia di esemplari si era già ridotta a settecento individui. A metà degli anni ottanta, in natura rimanevano solo quindici rinoceronti bianchi settentrionali. Nel 2006 erano quattro, e sembra siano scomparsi del tutto nel 2008, quasi sicuramente per mano dei bracconieri. I rinoceronti bianchi settentrionali erano stati cancellati dal loro habitat originario.

Fortunatamente c’era un piano d’emergenza: negli anni settanta una piccola riserva di rinoceronti bianchi settentrionali era stata trasferita in uno zoo, come una sorta di assicurazione sulla vita. Purtroppo questi animali morivano più rapidamente di quanto riuscissero a riprodursi. Nel 2009 gli unici animali da riproduzione rimasti – Sudan e Suni, Najin e Fatu – sono stati riportati in Africa, in un’area protetta in Kenya: una mossa azzardata, dettata dalla speranza che il continente nativo potesse risvegliare qualcosa di profondo nella biologia degli ultimi quattro rinoceronti della sottospecie.

Non è andata così. Prima è morto Suni, poi Sudan. Sono rimaste solo due rinoceronti bianche settentrionali. Erano ancora là, nel campo, a fare quello che i loro progenitori avevano sempre fatto: mangiare l’erba, sguazzare nelle pozzanghere, appisolarsi all’ombra degli alberi. Ma ora era tutto diverso. Si trascinavano pesantemente in un mondo tra la vita e la morte. Ogni boccone d’erba che mangiavano era un boccone più vicino all’ultimo.

Dopo la morte di Sudan, non riuscivo a smettere di pensare alle ultime due. Com’erano? Cosa facevano tutto il giorno? Trovavo la loro esistenza stranamente confortante. Anche se la loro storia era una tragedia quasi insopportabile, loro non erano tragiche, erano semplicemente rinoceronti. Avvicinarle sarebbe stato un modo per guardare in faccia l’estinzione di massa.

Il primo incontro

Nel lungo volo da New York al Kenya, ho passato tutto il tempo a leggere articoli sui rinoceronti bianchi settentrionali. Non sono veramente bianchi: il loro nome, probabilmente, è frutto di un equivoco. I coloni olandesi li chiamavano wijd (larghi) e quelli britannici pensarono che intendessero white (bianchi). Poi aggravarono l’errore chiamando altre specie di rinoceronti africani “neri”. Ma è una sciocchezza, perché entrambi sono del solito colore grigio.

Pensiamo che l’estinzione avvenga dietro le quinte o nelle nebbie della preistoria, non sotto i nostri occhi, in un giorno specifico

A Nairobi ho preso un piccolo aereo che è partito per la savana rombando come un autobus. Mentre volavo, ho guardato per la milionesima volta le foto delle ultime due superstiti. Non erano originarie del Kenya – nessun rinoceronte bianco settentrionale lo è mai stato – ma è qui che sono finite, in un vecchio ranch dove si allevavano bovini trasformato in un’area protetta: Ol Pejeta. Un grosso autocarro sferragliante mi ha portato nella riserva passando vicino a zebre, facoceri e bufali africani dalle grosse corna ricurve e dallo sguardo torvo. Sulla strada di terra battuta abbiamo incrociato un cartello che indicava l’equatore. Infine siamo arrivati nella zona dei rinoceronti.

Finalmente, dopo tutti quei mesi passati a leggere e a immaginare, mi sono ritrovato in un campo. In lontananza ho visto le ultime due rinoceronti bianche settentrionali che pascolavano. Dal vivo. Erano insieme su un’ampia distesa di erba che cresceva a ciuffi, con le teste basse chinate a terra. Con l’orizzonte sullo sfondo sembravano parte del paesaggio, come depositi geologici. Buffi stormi di faraone zampettavano avanti e indietro, chiocciando. Uno dei custodi delle rinoceronti ha preso un grande secchio bianco e, facendolo dondolare, ha sparpagliato per terra carote e compresse di mangime per cavalli.

Tutt’a un tratto le rinoceronti si sono mosse avanzando placidamente, goffe e al tempo stesso aggraziate, corpulente ma armoniose, con le pieghe della pelle che rimbalzavano, i musi enormi che ondeggiavano al ritmo dei passi pesanti. In un attimo la mia fantasia è stata superata dalla realtà. Quegli animali, avvicinandosi, erano diventati gli animali.

Tutto quello che avevo letto non mi aveva realmente preparato a come sarebbe stato stargli vicino. La loro presenza dava molte sensazioni. Innanzitutto la mole, nel suo senso più immediato, creaturale. Il rinoceronte bianco è il secondo mammifero terrestre più grande del mondo dopo l’elefante. Può raggiungere le tre tonnellate di peso e il corno frontale ricurvo può crescere fino a un metro e mezzo. Trovarsi accanto a qualcosa di così enorme amplifica la forza di gravità delle cellule del tuo corpo. Ti senti presente e fatto di carne e ossa quando sei sovrastato da questi rumorosi masticatori dal sangue caldo.

Mi hanno permesso di stargli molto vicino. Così vicino che potevo sentirle respirare pesantemente, vederle che chiudevano i grandi occhi miti, notare le orecchie contornate da peli delicati come ciglia e i ciuffetti neri sulle loro code. I corni, da vicino, erano frastagliati e a tratti fibrosi, come legno scheggiato. Le ho osservate premere le grandi bocche grinzose contro il terreno, grufolando e masticando. Ogni tanto alzavano gli occhi e mi fissavano, inespressive. I rinoceronti bianchi a volte sono chiamati “rinoceronti dalla bocca quadrata” e da vicino ho capito perché. Le labbra sono schiacciate in una linea lunga e spessa, che gli conferisce un’espressione seria leggermente comica, come l’emoji .

A un certo punto Fatu, la figlia, seguendo una striscia di erba fresca è finita a brucare accanto a me. Era tanto vicina che potevo studiarne la pelle, dai disegni elaborati, fessure e linee profonde che mi ricordavano la corteccia di un albero. In alcuni punti sembrava un’armatura impenetrabile, ma in altri pareva perfino morbida: si piegava su se stessa, intorno al collo e alle zampe, con la fluidità della lava fusa o del caramello caldo in una pubblicità di gelati. Era così vicina che – ottenuta la necessaria autorizzazione – ho allungato la mano e l’ho toccata. Di nuovo, era tutto diverso da come l’avevo immaginato: la pelle non era liscia, ma ruvida, secca, pungente.

Alla fine ho dovuto lasciarle, e la notte, in tenda, ho rivissuto tutti quei momenti nel campo, guardando le foto e i video, cercando di rievocare la sensazione di solidità provata nell’averle accanto. E, soprattutto, aspettavo che facesse giorno per tornare da loro.

Il custode Peter Esegon visita la tomba di Sudan al cimitero dei rinoceronti di Ol Pejeta. Sudan, morto nel 2018, era l’ultimo rinoceronte bianco settentrionale maschio. - Justin Mott
Il custode Peter Esegon visita la tomba di Sudan al cimitero dei rinoceronti di Ol Pejeta. Sudan, morto nel 2018, era l’ultimo rinoceronte bianco settentrionale maschio. (Justin Mott)

Nel 2009, quando Najin e Fatu sono arrivate in Africa, avevano paura di tutto. Sobbalzavano al primo soffio di vento, scappavano se un coniglio saltava fuori da un cespuglio. Erano nate e cresciute in uno zoo. Le loro nascite – nel 1989 e nel 2000 – erano state uno dei pochissimi successi di un fallimentare progetto internazionale per salvare i rinoceronti bianchi settentrionali. Anche se i loro antenati erano africani, queste due esemplari non lo erano. Erano state allevate nella Repubblica Ceca, in recinti costruiti dagli esseri umani, mangiando erba già tagliata, circondate da persone. Non avevano idea di cosa significasse vivere allo stato brado.

Così a Ol Pejeta è stata chiamata una tutor: Tauwo, una rinoceronte bianca meridionale. La sua sottospecie è strettamente imparentata con quella settentrionale. Tanto tempo fa c’era una sola grande popolazione di rinoceronti bianchi in tutta l’Africa, ma fu separata – molto probabilmente da una glaciazione – in due gruppi, che continuarono a evolversi a distanza, seguendo percorsi quasi paralleli. Con il passare del tempo, le popolazioni isolate si trasformarono in due sottospecie diverse. I rinoceronti bianchi settentrionali vivevano su terreni acquitrinosi, tra l’erba alta, e svilupparono zampe dalle estremità più larghe, che secondo alcuni studi li aiutavano a camminare nel fango. Inoltre hanno le orecchie un po’ più pelose. I rinoceronti bianchi meridionali, invece, vivevano nella savana. Oggi la differenza principale tra le due sottospecie è che quella meridionale prospera, almeno per gli standard dei rinoceronti. Dopo essere stati quasi annientati dai cacciatori alla fine dell’ottocento, i suoi esemplari sono aumentati di numero grazie a una rigorosa opera di tutela. Per i conservazionisti quella del rinoceronte bianco meridionale è una storia di successo.

Tauwo è veloce e aggressiva, e ha un corno affilato come un dente aguzzo. Le è bastato trasferirsi nell’area di Fatu e Najin e fare quello che fa un rinoceronte selvatico per trasmettergli alcune competenze fondamentali. Grazie a Tauwo, le altre due rinoceronti hanno imparato ad affilare il corno, strofinandolo avanti e indietro sui cancelli di metallo che delimitano la loro area. Hanno imparato a marcare il territorio defecando, strategicamente, in grosse quantità. Prima si limitavano a farla dove capitava. Hanno imparato a brucare, a cercare l’erba corta e morbida e strapparla da terra con le labbra facendo oscillare la testa avanti e indietro. Soprattutto, Tauwo gli ha insegnato a non aver paura dell’Africa: del vento che fischia tra le acacie, dei conigli, dei facoceri, degli uccellini che gli saltellano sulla schiena e sul muso. Oggi le due rinoceronti bianche settentrionali sembrano perfettamente a loro agio a Ol Pejeta, dove tutti le chiamano affettuosamente “le ragazze”. Vivono in libertà, anche se sono controllate, e hanno una routine quotidiana piena di piccoli piaceri e rituali. All’alba i custodi battono sui cancelli e le ragazze escono silenziosamente dai loro ricoveri per salutarli. I rinoceronti non vedono bene, ma hanno l’olfatto e l’udito molto sviluppati, perciò riconoscono gli esseri umani dall’odore e dal rumore.

Meditazione trascendentale

I rinoceronti bianchi sono sorprendentemente tranquilli. Possono uccidere se necessario, ma preferiscono non farlo. Come diceva Martin Booth, uno scrittore britannico che aveva trascorso parte dell’infanzia in Africa orientale: “Quando si vede un rinoceronte bianco in natura è impossibile sfuggire all’impressione della mole, alla sensazione di un’incredibile forza benigna e di una strana passività interiore. È una bestia dall’aria pacifica, affabile e sicura. Se si può dire che un animale ha scoperto la meditazione trascendentale, allora quell’animale è il rinoceronte bianco”.

Cresciute in uno zoo, le ragazze hanno un carattere socievole. La loro giornata comincia spesso con una bella grattata da parte di uno dei custodi, un affettuoso benvenuto. Najin, la più anziana e mite, l’apprezza particolarmente: si avvicina e aspetta, accosta il grosso corpo e sbuffa delicatamente dalle narici quando il custode le strofina la fronte, il collo, la pancia e le orecchie. Dopo le due ragazze si allontanano per le loro altre occupazioni: sguazzare nel fango, affilare il corno e strofinare il corpo, sistematicamente, per lunghi minuti, contro una vecchia staccionata di legno.

A prima vista le ragazze possono sembrare identiche. Grosse masse grigie, sempre insieme, che fanno più o meno le stesse cose. Ma per i custodi sono diverse quanto possono esserlo due persone di una stessa famiglia. Najin, la madre, ha le zampe posteriori deboli e una linea all’estremità del corno frontale, lasciata da una sega che fu usata, anni fa, per accorciarlo. È dolce, tranquilla, gentile e a volte severa, almeno con la figlia. È lei a dirigere ogni momento della routine quotidiana. Se Fatu cerca di rovesciare la gerarchia, di saltare la fila per la grattata o di essere la prima a sdraiarsi per dormire, la madre ripristina l’ordine con un rapida cornata.

A prima vista le ragazze possono sembrare identiche. Grosse masse grigie, sempre insieme, che fanno più o meno le stesse cose

Fatu, che ha poco più di vent’anni, ha ancora l’energia dei giovani. I rinoceronti in cattività posso vivere più di quarant’anni. È curiosa, imprevedibile, a volte selvaggia. I custodi toccano anche lei, ma sono più cauti e attenti al suo umore. Fatu è molto affezionata a Tauwo: brucano insieme e qualche volta, allegramente, si mettono in posizione per fare a cornate. Gli esseri umani invece si tengono alla larga da Tauwo, che ogni tanto parte alla carica e una volta ha costretto un custode a mettersi in salvo sotto un camioncino.

I custodi sono una squadra di keniani vestiti con uniformi verde oliva e cappelli. Tra loro parlano una decina di lingue diverse. In Kenya vivono più di quaranta gruppi indigeni riconosciuti, che parlano una settantina di lingue, perciò i keniani sono spesso poliglotti. I custodi vivono in semplici capanne rotonde vicino al recinto e si cucinano pasti modesti con razioni scarse. Le loro giornate sono scandite dalle attività delle ragazze. Si svegliano all’alba, come le ragazze, e staccano al tramonto, quando le ragazze si ritirano nei loro ricoveri per la notte. Di conseguenza tra loro c’è un legame molto forte. Gli uomini passano più tempo con le ragazze che con le loro famiglie, che in alcuni casi vivono lontane. Gli basta un’occhiata per intuire di che umore sono le rinoceronti o se hanno bisogno di qualcosa. Sanno fermare una rinoceronte arrabbiata con una parola o alzando una mano, oppure – se le circostanze sono davvero allarmanti – gettando in aria i loro cappelli verdi e flosci. Passano tanto tempo con le rinoceronti che la notte spesso le sognano. In questi sogni a volte le rinoceronti gli parlano e gli danno consigli di vita.

Gli estranei, compreso il sottoscritto, tendono ad avere una visione romantica del lavoro di accudimento degli animali e tra gli ambientalisti anche i custodi sono diventati delle piccole celebrità. Joseph Wachira, che si fa chiamare JoJo e appare nella foto di Sudan in fin di vita, ha conosciuto una donna statunitense che si era fatta tatuare il suo nome sul braccio. Uno zoo del North Carolina qualche tempo fa ha chiamato un cucciolo di rinoceronte Jojo, in suo onore.

In Kenya, però, questo lavoro è tutt’altro che prestigioso. I custodi sono pagati poco e si collocano in basso nella gerarchia sociale. I keniani hanno un rapporto complicato con la savana e i suoi animali, quelle creature enormi, indigene, spesso distruttive ma sempre più minacciate, che con il loro esotismo attirano tanti stranieri ricchi. Per molti keniani di città spalare gli escrementi dei rinoceronti è un’attività servile, retrograda e leggermente imbarazzante. Quando i custodi lasciano Ol Pejeta per andare in città non indossano mai le uniformi.

Ho passato gran parte del tempo con uno dei più giovani, James Mwenda. Ha 31 anni, la stessa età di Najin. Mwenda è cresciuto in un villaggio povero sulle pendici del monte Kenya e sognava di studiare letteratura all’università. Non ci è riuscito, così si è messo a lavorare con gli animali, nella savana. All’inizio era solo un lavoro, non una vocazione. Ma ben presto si è innamorato delle due rinoceronti. Ne parla con voce roca, affettuosa, e le chiama mama e “brava ragazza”. Loro lo seguono come strani cagnoni.

Quando Sudan si è ammalato, Mwenda ha avvertito in modo nuovo il peso dell’estinzione. “Ti svuota emotivamente”, mi ha detto. “Non mi piacciono i fallimenti. Riesci a immaginare cosa significa vedere una specie estinguersi?”.

Le rinoceronti Fatu e Najin all’abbeveratoio. Nella riserva di Ol Pejeta vivono anche trenta rinoceronti bianchi meridionali e 110 rinoceronti neri. - Justin Mott
Le rinoceronti Fatu e Najin all’abbeveratoio. Nella riserva di Ol Pejeta vivono anche trenta rinoceronti bianchi meridionali e 110 rinoceronti neri. (Justin Mott)

Ha promesso al rinoceronte morente che avrebbe condiviso la tragedia dei bianchi settentrionali con il resto del mondo, che avrebbe trasformato la sua personale tristezza in energia, per salvare altre specie. “L’estinzione è un concetto lontano”, mi ha detto Mwenda. “Perciò devi trasformarla in una storia in cui le persone possano riconoscersi”. Lui usa molto i social network. Mwenda insegue le ragazze con una costosa macchina fotografica dotata di teleobiettivo che gli ha regalato un amico straniero. A volte si sdraia nell’erba per inquadrarle da nuove angolazioni, che siano interessanti per i suoi follower.

Qualche tempo fa Mwenda è apparso in Kifaru, un documentario statunitense sui rinoceronti bianchi di Ol Pejeta, e ha tenuto conferenze nel Regno Unito, negli Stati Uniti e a Hong Kong, dove alcuni si sono messi a piangere vedendo le foto di rinoceronti uccisi dai bracconieri (ai bambini di Hong Kong spesso si racconta che i corni cadono naturalmente quando i rinoceronti muoiono, e che i custodi li raccolgono).

Mwenda vorrebbe cambiare il modo in cui i turisti stranieri viaggiano in Africa, per evitare che si limitino a guardare gli animali dai finestrini delle auto. “Perché non fargli conoscere come vivono gli animali?”, si chiede. “Passarci del tempo insieme aiuta a entrare in sintonia. Proprio come vorresti passare del tempo con un amico o con una persona nuova. Imparare a sapere chi sono, come fanno le cose. Lo stesso vale per le ragazze. Sono creature contemporanee. C’è qualcosa di terapeutico nel considerarle nostre contemporanee”.

Le ragazze passano le giornate brucando, dall’alba al tramonto, in un campo di quaranta ettari protetto da una recinzione elettrificata. Su un lato passa la strada dove le auto dei safari possono fermarsi a guardarle. A volte si creano degli ingorghi. Najin e Fatu non sono famose come Sudan, ma sono note nell’ambiente dei safari. Quattro volte al giorno, un pulmino di visitatori che hanno pagato una tariffa speciale e firmato una liberatoria è autorizzato a entrare nel recinto. Le ragazze circondano il furgone, mangiando spuntini, mentre i turisti (cinesi, australiani, tedeschi, statunitensi) scattano le foto. In alta stagione il parcheggio dell’area rinoceronti si riempie di quattro per quattro e autobus scolastici.

In osservazione

Ho passato una settimana nel campo con le ragazze. Andavo da loro all’alba e le lasciavo al tramonto. Nel grande ordine delle cose non è stato niente, meno di un battito di ciglia nella storia dell’evoluzione, una minuscola frazione della grande vita grinzosa delle ragazze. Ma nel campo il tempo pesava come nebbia. Ogni giorno sembrava una scheggia di eternità.

Era la stagione fredda in Kenya e sono rimasto con loro in ogni condizione meteorologica: sotto cieli arancioni, cieli gialli e cieli grigi come le ragazze. Ho visto Fatu arrabbiarsi con un airone che si era posato sul suo dorso e cercare di disarcionarlo. Ho visto Najin immergere l’enorme testa nel trogolo e bere così dolcemente, con sorsi così delicati, da non increspare quasi l’acqua. Ho visto gli scarabei stercorari che arrotolavano sfere perfette di cacca di rinoceronte e poi si affaticavano per portarle nei loro nidi attraverso l’erba alta. Ho visto le ragazze che si affilavano i corni su un cancelletto di metallo, goffe, adorabili, scrostando la vernice e rischiando di scardinarlo. Sono stato inseguito, per breve tempo, da un bufalo cieco di nome Russell.

Una mattina ho visto Fatu che prendeva la scossa dalla staccionata, proprio sul muso: ha fatto un salto ed è scappata via a una velocità che non credevo i rinoceronti potessero raggiungere, mentre una Najin terrorizzata si voltava e si metteva a correre con lei. Durante i temporali sono rimasto nel campo a inzupparmi e a osservare le ragazze che cambiavano colore – cioccolatoso, scintillante – mentre la polvere sul loro dorso si trasformava lentamente in fango. Un giorno ho tenuto in mano una palla di cacca di rinoceronte grande come un melone e l’ho spezzata a metà: erba pura. Ho passato un gran numero di ore semplicemente a guardarle brucare. Potrebbe sembrare noioso, ma loro lo elevano a una forma d’arte. I rinoceronti bianchi mangiano tanta erba che a volte sono chiamati “rinoceronti d’erba”. La loro bocca è strutturata alla perfezione per questo compito, proprio come le fauci di uno squalo bianco sono fatte per mangiare le foche. Il muso dei rinoceronti bianchi è piatto, come la bocchetta di un aspirapolvere, e loro strappano l’erba non con i denti ma con le labbra, che sono increspate per strappare anche il più minuscolo stelo. Riescono a trovare l’erba anche dove sembra ci sia solo una nuda distesa di terra. Mentre mangiano, le ragazze dondolano la testa avanti e indietro, strappando e masticando, sgranocchiando ogni boccone con un rumore sordo. Continuavo a chiedermi: come fanno quelle piante minuscole a nutrire creature così enormi? E come fa l’erba a essere così rumorosa?

Continuavo a chiedermi: come fanno quelle piante minuscole a nutrire creature così enormi? E come fa l’erba a essere così rumorosa?

Un giorno, poco dopo l’alba, sono riuscito a dare a Najin la sua grattata quotidiana. La stava grattando JoJo, come tutte le mattine. Poi ha smesso e Najin è rimasta ferma, in attesa, come se ne volesse ancora. JoJo mi ha chiesto se volevo provare. Certo che volevo. Mi sono avvicinato alla rinoceronte madre, ho piegato le dita e – con una certa esitazione e molto più prudentemente di JoJo – ho cominciato a grattare. La tempia, il collo, le pieghe grosse e spesse. Ho sentito la sua ruvidezza e la sua morbidezza. Non ero molto bravo, a essere onesto – ero leggermente spaventato, pronto a sfrecciare via in ogni momento – perciò non andavo veramente a fondo come fanno i custodi, non svolgevo il compito con tutto il mio fragile corpo, e credo che Najin se ne accorgesse. Ma rimaneva comunque lì, accettandolo. Quando mi sono fermato, ha girato la lunga testa verso di me, mi ha guardato ed è rimasta ferma. A detta di JoJo, mi chiedeva di non smettere. E l’ho accontentata.

Unicorni e lingue spinose

Alla maggior parte di noi hanno insegnato che i rinoceronti sono esotici. Forse nessun animale è stato più incompreso, soprattutto in occidente. Per più di mille anni, spiega la storica Kelly Enright, in Europa non si vide un solo rinoceronte. In questo vuoto la disinformazione fiorì. Nel Milione di Marco Polo i rinoceronti sono descritti come unicorni molto brutti che non uccidevano i nemici con il corno, come ci si poteva aspettare, ma li bloccavano sotto le ginocchia e li leccavano a morte con le loro lingue spinose. Ancora oggi i rinoceronti sono mitizzati e trasformati in feticci. Li vediamo come dinosauri sopravvissuti al loro tempo, anche se non sono più antichi dei cavalli. Attribuiamo ai loro corni proprietà strane e fantastiche, ma di fatto sono soltanto cheratina compressa, lo stesso materiale dei capelli. Lo stesso materiale delle unghie che usavo per grattare Najin.

Stare accanto alle ragazze, osservare la vita che condividono con i loro custodi, è l’antidoto a ogni esotismo. Quegli uomini le trattano come una via di mezzo tra sorelline, cani mansueti, mucche pregiate e bisnonne. Non è una relazione predatoria. Tutte le piccole interazioni quotidiane – le carezze, le grattate, i soprannomi, gli sguardi – sono scambi di valute così antiche che non si possono accumulare: gentilezza, conforto, attrito, calore, piacere, presenza, sicurezza.

A Ol Pejeta c’è un memoriale per i rinoceronti morti. È un luogo molto triste. Intorno a un grande albero solitario sono disseminati una ventina di mucchi di pietre, ciascuno sovrastato da una targa con inciso il nome di un rinoceronte. Alcuni animali erano famosi e protetti, e sono morti per cause naturali: Suni e Sudan, per esempio, gli ultimi due bianchi settentrionali maschi.

Ma la maggioranza non era famosa, e la loro vita si è conclusa in modo terribile, per colpa dei bracconieri. Sono stati uccisi da fucili o frecce avvelenate, i loro corni segati via. Ho visto targhe per Carol, Mia, Shemsha, Zulu, Kaka, Batian. Alcuni sono morti rapidamente, altri sono sopravvissuti per settimane prima di arrendersi. Ho visto la targa di Ishirini, rinoceronte nera di 19 anni: “La squadra della sicurezza l’ha trovata che si contorceva per il dolore, con i corni già segati. Era incinta di dodici mesi”. Un altro si chiamava Job e aveva 28 anni: “Rinoceronte cieco semiaddomesticato ucciso da un’arma da fuoco in un recinto, entrambi i corni asportati”. La lista dei nomi era lunga: Mwanzo, Kiriamiti, Muigo, Chema. A Max, un bianco di sei anni, i corni erano stati tagliati preventivamente dalle guardie forestali per scoraggiare i bracconieri. Ma l’hanno ucciso lo stesso.

Perfino in una riserva è impossibile proteggere tutti gli animali. Ol Pejeta è enorme e circondata da ogni lato da una disperata povertà. Al mercato nero un corno di rinoceronte vale più dell’oro. La legge della domanda e dell’offerta vuole che più i rinoceronti si avvicinano all’estinzione più i loro corni diventano preziosi. Anche se la caccia si svolge a livello locale, il mercato è internazionale e controllato da efficienti organizzazioni criminali. Negli ultimi anni il bracconaggio è sensibilmente aumentato. Se non ci fossero i guardiani armati, le ragazze con ogni probabilità sarebbero già morte. Ci sono miliardari disposti a pagare una fortuna per avere i corni delle ultime due rinoceronti bianche settentrionali.

Un custode controlla Najin mentre riposa, alcuni giorni dopo il prelievo degli ovociti, nel dicembre del 2019. - Justin Mott
Un custode controlla Najin mentre riposa, alcuni giorni dopo il prelievo degli ovociti, nel dicembre del 2019. (Justin Mott)

A dispetto di tanta tristezza e delle scarsissime probabilità, si sta facendo un ultimo disperato tentativo per salvare la sottospecie. Dagli anni settanta gli scienziati raccolgono tessuti dai corpi dei bianchi settentrionali. Molti sono conservati a centinaia di gradi sotto zero nel Frozen zoo, un centro di ricerca di San Diego, negli Stati Uniti. Come molti grandi animali, i rinoceronti partoriscono pochi cuccioli. Sia Najin sia Fatu hanno problemi riproduttivi e non possono portare a termine una gravidanza. Ma i loro ovuli, fertilizzati con sperma congelato e impiantati nell’utero di una rinoceronte bianca meridionale, potrebbero riuscire a creare un cucciolo. È un azzardo, ma è anche l’unica opzione rimasta. Il mio viaggio in Kenya si è svolto poche settimane prima del tentativo di prelevare gli ovociti delle ragazze, un’operazione delicata che rendeva tutti molto nervosi. C’era il rischio che le ragazze non avessero ovuli o non ne avessero di vitali. Se l’operazione fosse andata male potevano morire. Zacharia Mutai, il capo dei guardiani dei rinoceronti, un uomo tranquillo, stoico, mi ha confessato che era talmente preoccupato da non essere riuscito a dormire la notte.

“È una faccenda delicata”, mi ha detto James Mwenda. “È impegnativo. È difficile per gli animali. Ma è l’unica soluzione. Dobbiamo provare”.

“Se non va in porto”, ha detto Elodie Sampéré, l’addetta stampa di Ol Pejeta, “l’unica opzione che rimane sono le cellule staminali”. Come nel film Jurassic park, per intenderci.

La domanda è scomoda ma va fatta: perché salvare una sottospecie particolare di rinoceronte? Il pianeta, diranno i cinici, non è un museo. Non abbiamo il sacro dovere di salvaguardare lo status quo ecologico. La natura è brutale. Le varianti vanno e vengono. Abbiamo già perso i rinoceronti giraffa, i rinoceronti lanosi e un centinaio di altri tipi di antichi rinoceronti. E ce la caviamo lo stesso. La protezione degli animali non sarà in gran parte sentimentalismo?

La risposta è no e bisogna, innanzitutto, scrollarsi di dosso il cinismo. Non c’è niente al mondo che sia isolato dal resto. Un rinoceronte non è solo un rinoceronte: è un filo di una complessa rete ecologica. Il modo stesso in cui passa le giornate contribuisce a mantenere sano il suo ambiente. Brucando tiene l’erba bassa e ara il terreno. Le sue passeggiate quotidiane aprono passaggi nella savana, lasciando strade piatte e dure che gli altri animali possono percorrere. Le sue feci nutrono colonie di insetti, e gli uccelli si nutrono di quegli insetti, e altri predatori vanno a catturare gli uccelli. Un rinoceronte non è solo una parte del mondo, è un mondo. Ovunque vada, attira stormi di bufaghe, aironi e faraone. Gli esseri umani si possono anche illudere di non far parte delle interconnessioni complesse della rete della vita non umana. Ma anche noi ne facciamo parte. E prima o poi il nostro filo sarà tagliato.

Parliamo d’amore

A un certo punto dobbiamo anche parlare d’amore. Dei rinoceronti come esseri che danno e ricevono amore. Viviamo in una cultura che lo scoraggia. L’amore non è quantificabile; non genera statistiche tragiche. È ignorato nei dibattiti politici. Eppure, alla fine, l’amore è la fonte di tutti i nostri valori più importanti.

Il corno di Fatu. Nonostante siano fatti di semplice cheratina, i corni sono molto ricercati in Asia. - Justin Mott
Il corno di Fatu. Nonostante siano fatti di semplice cheratina, i corni sono molto ricercati in Asia. (Justin Mott)

Najin e Fatu si vogliono bene. Sono madre e figlia, cercano ognuna la presenza dell’altra, il calore, il contatto. In natura le femmine di rinoceronte bianco tendono a essere sociali, e vivono con i cuccioli in gruppi di una decina di esemplari. Ma le ragazze hanno solo l’una la compagnia dell’altra, giorno dopo giorno. A volte ho cercato di immaginare Najin senza Fatu o Fatu senza Najin, e la cosa mi ha intristito enormemente.

Anche i custodi vogliono bene alle ragazze. Che sembrano ricambiarli. Dopo appena un paio d’ore anch’io ero già innamorato di queste creature, soprattutto di Najin, e non desideravo altro che starle accanto e abbracciarla. Innamorarmi delle ragazze mi ha reso consapevole di un paradosso: l’amore ha un raggio d’azione limitato.

Siamo fatti per amare, e per amore possiamo fare cose quasi impossibili, eppure quell’amore ha dei confini. È come una lampada magica: riempie l’interno delle nostre case, inonda la nostra famiglia e i nostri animali domestici. Si estende, mentre camminiamo, alla città intorno a noi. Ma non può saltare con la stessa intensità oltre i confini della città, degli stati o degli oceani. Non può arrivare, se non in astratto, con grande sforzo, a persone bisognose che vivono lontane o a strani animali minacciati. Amiamo davvero quello che ci è vicino. Quello che tocchiamo. E che ricambia il nostro amore.

Queste limitazioni sono un problema di fronte a una crisi come l’estinzione di massa. I 7,7 miliardi di esseri umani che vivono sulla Terra non possono andare in Africa e passare una settimana con le ragazze. Questo significa che l’umanità non darà mai a Najin la sua grattata del mattino e non sentirà il caldo grugnito del suo respiro. L’umanità non le amerà mai veramente. E quindi non agirà mai, collettivamente, con la premura e la sollecitudine che caratterizzano il vero amore.

E questo per limitarci alle ragazze, due animali particolarmente carismatici sull’orlo dell’estinzione. Che dire, per esempio, dell’orango del Borneo nordoccidentale, una scimmia fulva con le guance che sembrano essere state pizzicate e allungate da una nonna troppo entusiasta? Ne rimangono 1.500 circa. E del furetto dai piedi neri, un piccolo e furtivo cilindro di pelo che vive nelle praterie del Nordamerica? In natura ne rimangono meno di quattrocento. E del pesce napoleone, del panda gigante, del dugongo, della tartaruga embricata, dell’orso polare, del gorilla del Cross River o della farfalla monarca? Che dire dell’intera foresta amazzonica e delle barriere coralline?

Dobbiamo fare in modo che il nostro amore si estenda a creature e luoghi lontani. Dobbiamo dotare l’umanità di una qualche estensione protesica dell’amore.Le ragazze non esistono per noi. Non sono simboli o oracoli. Non sono qui per rispondere ai nostri interrogativi esistenziali o per aiutarci a salvare il mondo. Sono qualcosa di migliore e più semplice. Sono le ragazze.

Il mio ultimo giorno in Kenya, sono andato all’abbeveratoio e ho salutato Najin. Lei ha allungato la testa verso di me, con quel suo corno letale proteso, e si è limitata a guardarmi. Era ferma, grossa, e mi guardava, e io ricambiavo lo sguardo. Dopo un po’ ha piegato il collo per una delle sue lunghe, tranquille bevute. Poi ha alzato gli occhi verso di me, con il muso scintillante di acqua. Ho allungato la mano e le ho toccato il corno, prudentemente, per due volte. Lei è rimasta ferma, fissandomi. Ho detto a Najin che era stato bello conoscerla. Non riuscivo ad allontanarmi. Najin mi ha fissato ancora un po’, fiutando gentilmente. Poi si è voltata ed è andata via.

Qualche settimana dopo la mia partenza, nell’agosto del 2019, ho saputo che l’intervento per estrarre gli ovuli era stato un successo. Le ragazze stavano bene e l’équipe degli scienziati era riuscita a prelevare cinque ovuli da Fatu e cinque da Najin. Sette erano stati fertilizzati e tre erano diventati embrioni. Ora sono congelati, in attesa dei prossimi difficili passi: impianto, gestazione, potenzialmente un parto. È una sfida, e i ricercatori avvertono che potrebbero volerci molti anni, e che se anche tutto andasse alla perfezione, nei laboratori e nei campi, potrebbe non esserci abbastanza diversità genetica per selezionare una nuova popolazione di rinoceronti bianchi settentrionali sani.

Da sapere
La ricerca di un cucciolo

◆ All’inizio di luglio gli scienziati e i conservazionisti del consorzio BioRescue, impegnato a salvare dall’estinzione i rinoceronti bianchi settentrionali, hanno detto che sperano di far nascere il primo cucciolo entro due anni. Gli scienziati hanno ottenuto nove embrioni vitali (che potranno essere conservati per dieci anni) dallo sperma dell’esemplare maschio Suni (morto nel 2014) e dagli ovociti di Fatu e Najin. Gli embrioni sono stati creati nel laboratorio Avantea di Cremona, specializzato in riproduzione animale. Il passo successivo è trasferire gli embrioni in una rinoceronte bianca meridionale, che faccia da madre portatrice nei più di 16 mesi di gestazione. L’obiettivo è far nascere un cucciolo prima che Fatu e Najin muoiano, di modo che possano insegnargli a sopravvivere. Questa procedura potrebbe poi essere ripetuta per creare un nuovo branco, da reintrodurre in natura in un prossimo futuro. Se avesse successo, questo progetto potrebbe diventare un modello per la salvaguardia delle specie a rischio di estinzione. The Nation, Kenya


Le ragazze, intanto, erano di nuovo nel campo a fare quello che hanno sempre fatto. Tornato a casa, continuavo a guardare le foto e i video delle rinoceronti cercando di tenermi stretto il ricordo del tempo passato con loro. Ma inevitabilmente sono scivolate via. La loro massiccia presenza si è trasformata in una massiccia assenza.

Qualche mese dopo, mentre cercavo di scrivere delle ragazze, mentre cercavo di farle vivere sulla pagina, è arrivata una pandemia. Il mondo intero si è fermato. Eravamo improvvisamente assenti gli uni per gli altri. Era difficile concentrarsi sulla crisi dell’estinzione di massa quando la nostra stessa specie stava soffrendo e morendo a una rapidità allarmante.

Eppure il pensiero delle ragazze continuava a ronzarmi nella testa. In un momento di sconvolgimento globale, trovavo che la loro esistenza fosse un punto fermo, mi confortava sapere che erano tutte e due ancora lì, nel campo, fianco a fianco, masticando l’erba sotto un cielo tempestoso. E vivendo, come ha scritto il poeta statunitense Wendell Berry, “nella pace delle cose selvagge / che non appesantiscono la loro vita con previsioni / del dolore che verrà”.

Continuavo a ricordare, in particolare, un momento nel campo. “Hai mai sentito russare un rinoceronte?”, mi aveva chiesto un pomeriggio James Mwenda.

Eravamo seduti sull’orlo di una buca, una vecchia tana di oritteropo che era crollata e ora veniva usata per lo più dai facoceri. Le ragazze erano appisolate poco lontano. Intorno a noi gli uccelli tessevano la loro folle trama di canti: bubolando, trillando, frullando, tubando, sminuzzando, scivolando. E sì, in mezzo a tutto quel rumore, come un trattore lontano, una delle rinoceronti stava russando. Era la prima volta che sentivo un rinoceronte russare. Era un suono familiare, lo stesso tipo di rantolo che potrebbero emettere il vostro patrigno, il cane di famiglia o il vostro migliore amico. Era solo il normale vecchio rumore di chi russa: la colonna sonora universale di un mammifero profondamente addormentato.

Il suono proveniva da Najin. Fatu dormiva silenziosamente accanto a lei, il grande muso quadrato schiacciato a terra, le zampe arrotolate sotto il corpo come un gattino. Nonostante la corazza, sembravano indifese, adorabili e tristi.

Guardare le ragazze durante il pisolino era una delle mie cose preferite, perché ogni volta era preceduto da una tenera e complicata coreografia. Najin, zoppicando leggermente a causa delle zampe posteriori deboli, sceglieva un punto dove sdraiarsi, mentre Fatu rimaneva ad aspettare con pazienza, accertandosi che il campo fosse sicuro per dormire. Solo quando Najin si era sdraiata per terra in tutta la sua enorme mole, Fatu poteva riposarsi. Ma prima di farlo, in pratica abbracciava la madre: abbassava la testa e le toccava il corno anteriore con il suo, poi premeva il corpo contro il suo. Infine scivolava a terra, piatta, a qualche metro da Najin. Non mi stancavo mai di guardarle dormire. Ogni volta che chiudevano gli occhi, tutta la coscienza dei rinoceronti bianchi settentrionali rimasti sul pianeta scompariva temporaneamente.

A un tratto, in mezzo al russare di Najin, sul campo è esploso un altro suono, un rimbombo ancora più forte del russare. Questo nuovo rumore durava e durava, sembrava un trombonista che si stesse scaldando, che provasse l’acustica di un’enorme sala da concerto. Era, come si è subito capito, una scoreggia di rinoceronte. Una delle ragazze stava facendo aria nel sonno, empaticamente, sinceramente, ammirevolmente, senza ritegno.

Quando il rumore è cessato, ho chiesto a Mwenda se sapeva chi era stata. Lui ha riso. “Tutte e due”, ha detto. “L’hanno fatto contemporaneamente”.

La cosa mi ha colpito, in quel momento, come se fosse la definizione stessa di magia, e ho riso follemente. Le ultime due rinoceronti bianche settentrionali, madre e figlia, avevano scoreggiato insieme, in perfetto unisono, durante un sonno felice. Mwenda e io avevamo appena sentito la più rara sinfonia del mondo: un accordo biologico che saliva e scendeva, disperdendosi, espandendosi. ◆ gc

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Questo articolo è uscito sul numero 1420 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati