Luis Eduardo Tijaro percorre a piedi la strada sterrata che porta al terreno in cui ha investito i risparmi di una vita. Cammina accanto al suo bestiame, dando un’occhiata ai pascoli di un verde brillante e alla piccola casa di legno. Un albero di papaya domina il giardino curato dalla moglie. Tijaro si spinge fino al torrente dove il figlio di undici anni sta giocando.
La sua comunità rurale, in un angolo dell’Amazzonia colombiana che fino a poco tempo fa era controllato dalla più grande organizzazione guerrigliera del paese, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc), si trova ad almeno due ore dalla città più vicina. Questa famiglia di quattro persone è arrivata qui nel 2015, con una motocicletta e una sola valigia. La loro è una storia tipicamente colombiana: una famiglia vittima delle due parti contrapposte nel lungo conflitto interno del paese, durato più di cinquant’anni. Le milizie paramilitari appoggiate dal governo di Bogotá costrinsero Tijaro a lasciare la sua casa. Mentre la moglie fu minacciata dai guerriglieri delle Farc. Quando si sono trasferiti in questa terra, però, la pace era vicina. Hanno trovato un appezzamento di circa settanta ettari ricco e a buon mercato nella comunità di Montebello, nel dipartimento di Meta. Hanno costruito una casa e una fattoria: per loro è stato un nuovo inizio. Tijaro, però, non aveva idea che il terreno facesse parte di una riserva protetta dei popoli nativi.
La comunità indigena che vive nella zona si batte affinché i contadini non disboschino la foresta pluviale per il bestiame e le coltivazioni. Dopo l’accordo di pace firmato nel 2016 e la smobilitazione delle Farc, ha avviato un procedimento legale per proteggere la terra.
Oggi Tijaro e la sua famiglia temono di essere nuovamente costretti a lasciare la loro casa. “Dovremmo ricominciare da zero”, dice l’uomo.
Troppa lentezza
Poco più di cinque anni dopo la firma dell’intesa che sulla carta ha messo fine al conflitto civile, la terra continua a essere motivo di scontri invece che una fonte di stabilità. La nota incapacità dello stato colombiano di stabilire a chi appartiene una certa porzione di terra e di stabilire i confini delle aree protette ha permesso a persone come Tijaro di comprare dei terreni che legalmente non gli spetterebbero. In base all’accordo di pace il governo ha accettato di rilasciare dei titoli di proprietà dei terreni, anche per prevenire dispute come questa. Ma i ritardi nel mantenere questa promessa stanno facendo scontrare le persone più vulnerabili in varie zone del paese.
“Non tocca a noi o agli agricoltori risolvere questo conflitto. Dovrebbe occuparsene lo stato”, afferma Alexander Bocanegra, un leader indigeno della zona di Montebello. “Il rischio è che il nostro territorio sia distrutto. E se torniamo a viverci qualcuno potrebbe morire”.
La distribuzione della terra in Colombia è tra le più ingiuste e disuguali del mondo. L’1 per cento più ricco dei proprietari possiede quasi il 43 per cento dei terreni rurali. I piccoli coltivatori e allevatori, che producono la metà dei beni alimentari consumati nel paese, possiedono solo il 4,8 per cento. Circa la metà degli appezzamenti non ha un’assegnazione formale, un fatto che rende difficile per gli agricoltori ottenere prestiti, investire nella terra, lasciarla in eredità ai figli o difenderla dopo che durante il conflitto civile la guerriglia o i paramilitari gliel’hanno sottratta.
Negli anni sessanta la terra fu uno dei motivi principali che spinsero i guerriglieri delle Farc a imbracciare le armi, dando il via a una guerra durata 52 anni. Ma il conflitto non ha risolto niente, anzi ha peggiorato la situazione: i gruppi armati si sono appropriati di circa sei milioni di ettari di terreno. Milioni di famiglie sono state cacciate dalle loro case, creando una delle popolazioni di sfollati interni più numerose del mondo.
Il primo punto dell’intesa raggiunta tra il governo e le Farc è dedicato proprio alla terra. È stato previsto il riconoscimento della proprietà di sette milioni di ettari, la creazione di un fondo per gli agricoltori senza terra e l’istituzione di un registro di tutte le proprietà agricole.
L’allevamento ha permesso a Tijaro di offrire una vita migliore ai suoi figli, diversa da quella che ha avuto lui da bambino
“L’intesa risolverà molti problemi che da decenni affrontiamo nelle aree rurali”, aveva dichiarato l’allora presidente colombiano Juan Manuel Santos durante i negoziati di pace all’Avana. “La terra è stata il punto su cui ci siamo accordati più facilmente e rapidamente con i combattenti”. Ma è anche quello che il governo sta attuando con maggiore lentezza.
Secondo il presidente Iván Duque (di destra), la sua amministrazione ha dato prova di un “chiaro impegno” a favore della riforma agraria. Intervistato dal Washington Post, Duque ha spiegato che il governo vuole registrare cinquantamila titoli fondiari e ha delineato un piano d’azione per aggiornare i registri di metà dei terreni della Colombia, “l’essenza di ogni riforma agraria”.
I suoi avversari dubitano che raggiungerà questi obiettivi e sostengono che la sua amministrazione ingigantisca i passi avanti fatti realmente. Ad agosto del 2021 solo il 15 per cento del territorio nazionale era stato incluso nel registro agrario, secondo il Kroc institute dell’università di Notre Dame, negli Stati Uniti, uno dei supervisori ufficiali dell’attuazione degli accordi di pace. L’intesa prevede anche la creazione di un codice speciale per risolvere i conflitti che riguardano la terra, ma il parlamento non ha approvato la legge che dovrebbe istituirlo. Il governo di Duque afferma di aver inserito più di 1,2 milioni di ettari nel fondo agricolo. Ma ad agosto l’ispettorato generale della Colombia ha confermato che solo il 2 per cento di questi terreni è libero.
Il diritto di tornare
L’agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale ha speso almeno 160 milioni di dollari per sostenere il riconoscimento formale dell’assegnazione dei terreni, rilasciando finora undicimila atti di proprietà. Nel frattempo la violenza continua a crescere. Alcuni gruppi dissidenti delle Farc – guidati da ribelli fin dall’inizio contrari agli accordi di pace o che hanno ripreso le armi in seguito – e vari gruppi paramilitari spaventano la popolazione e cacciano intere comunità dalle loro case. Da gennaio a luglio del 2021 gli sfollati interni sono cresciuti del 167 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, affermano gli osservatori delle Nazioni Unite. Dal 2016 a oggi gli sfollati in Colombia sono stati più di quattrocentomila.
Quando Tijaro ha comprato il terreno da un parente della moglie, l’uomo gli ha spiegato che la proprietà si trovava fuori dalla riserva indigena Yaguara II nella zona degli Llanos de Yarí, tra i dipartimenti di Meta, Caquetá e Guaviare. Ha firmato un contratto di compravendita, ma non ha mai ricevuto nessun documento che dimostri la sua proprietà sul terreno. E ora Tijaro ha saputo che il governo colombiano potrebbe costringere gli agricoltori come lui ad andarsene. “Dove finiremo?”, chiede sua moglie Yorledi.
A Bogotá Efrén Bocanegra guarda dalla finestra del suo piccolo appartamento mentre da fuori arrivano il rumore del traffico, il suono della musica ad alto volume del vicino e la voce di un uomo con un megafono che vende mais per strada. La sua famiglia è tornata in quest’edificio di mattoni ad agosto del 2021. Hanno lasciato la riserva di Yaguara II a causa di quella che Bocanegra chiama la paz falsa, la pace falsa.
Quest’uomo, che oggi ha 56 anni, ne aveva otto anni quando la sua famiglia si stabilì in un terreno disabitato insieme a un gruppo di coloni indigeni che erano stati sfollati. Nel 1995 il governo colombiano dichiarò il territorio, grande circa 145mila ettari, riserva indigena protetta. È l’unico caso di colonizzazione indigena formalmente riconosciuta dallo stato colombiano. In quel periodo la Colombia era nel pieno del conflitto civile. Bocanegra aveva quindici anni quando suo padre, uno dei leader della comunità, sparì. Lo stesso destino ebbe un altro leader, nel 2004. Secondo la famiglia Bocanegra entrambi furono uccisi dai guerriglieri delle Farc che avevano minacciato ritorsioni se la comunità non avesse lasciato la zona entro pochi giorni.
I Bocanegra trovarono riparo in diverse città del paese. Alla fine Efrén e la sua famiglia arrivarono a Bogotá senza soldi e senza nessuna esperienza di vita in città. Passarono dal coltivare tutti i prodotti che consumavano al dover pagare un affitto e le bollette dell’acqua per la prima volta nella loro vita. Mangiavano gli scarti del principale mercato della città, finché Bocanegra trovò lavoro come custode in una scuola. Il governo gli ha poi assegnato una casa in un complesso residenziale destinato alle vittime del conflitto. Tuttavia, dopo la firma degli accordi di pace, Bocanegra ha intentato una causa allo stato, chiedendo che gli sia garantito il diritto di tornare a casa senza correre pericoli. Un giudice ha ordinato al governo di definire i confini della riserva, di proteggerla dai gruppi armati criminali e di collaborare con l’esercito per debellare le coltivazioni illegali. Ha anche sottolineato il “drammatico” aumento della deforestazione causato dagli allevatori di bestiame, ordinando alle varie agenzie governative di mettere a punto una strategia per fermarla.
Un messaggio chiaro
Sono passati quattro anni e gli agricoltori e gli allevatori continuano a entrare nella riserva, gli alberi sono abbattuti e nuovi gruppi criminali – soprattutto dissidenti delle Farc – hanno assunto il controllo della zona.
Le famiglie indigene tornate nella riserva sotto la guida del figlio di Bocanegra, Alexander, e della sorella Yerley, avevano promesso ai leader locali e al governo che avrebbero smesso di disboscare. Ma non c’erano riusciti e avevano chiesto di incontrare le persone con la maggiore autorità nella regione: i dissidenti delle Farc.
“Chi vi ha dato il permesso di tornare?”, gli aveva chiesto il comandante della zona, detto Cipriano González. E poi aveva accusato i Bocanegra di essere informatori dell’esercito colombiano. Ad agosto del 2021 un componente del gruppo armato aveva comunicato gli ordini: i Bocanegra avrebbero dovuto smettere di collaborare con il governo se volevano conservare la loro terra. Il messaggio era chiaro: dovevano andarsene. Sono tornati a Bogotá e, il giorno dopo il loro arrivo, hanno ricevuto la notizia che Cipriano González era stato ucciso in un’operazione dell’esercito. Poi si è sparsa la voce che i fratelli del guerrigliero consideravano i Bocanegra responsabili della sua morte e volevano vendicarsi. Per questo i Bocanegra non sanno quando potranno tornare. “Lo stato ha completamente abbandonato sia i contadini sia i nativi”, dice Yerley. “È una guerra senza fine”.
Per anni i contadini della comunità di Montebello hanno vissuto in armonia con i loro vicini indigeni e le poche famiglie rimaste nella riserva Yaguara II. Giocavano a calcio nel campetto vicino alla chiesa pentecostale. I loro figli frequentavano la stessa scuola. Tutto è cambiato nel 2017, quando alcuni funzionari del governo si sono presentati per tracciare i confini della riserva e hanno detto agli agricoltori che le loro proprietà si trovavano su un territorio protetto.
Ne è nato un dibattito che ruotava intorno a linee invisibili mai chiarite ai contadini e ai nativi. Ne hanno pagato le spese circa novanta famiglie, in gran parte contadini arrivati nella zona dopo la firma degli accordi di pace. Fanny Barreto, che vive con la comunità indigena a Yaguara II, non voleva mandare via i contadini: chiedeva solo che smettessero di abbattere gli alberi.
◆ A novembre del 2016 il governo di Bogotá, guidato dal presidente Juan Manuel Santos, e l’organizzazione guerrigliera delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc)hanno firmato un accordo di pace per mettere fine a 52 anni di conflitto civile. Più di cinque anni dopo la pace è ancora lontana. La violenza è aumentata soprattutto a causa degli scontri tra combattenti di dissidenti delle Farc, guerriglieri dell’Esercito di liberazione nazionale (Eln), gruppi paramilitari di destra e bande criminali, che si contendono il controllo di alcuni territori e le rotte del narcotraffico. Il 17 gennaio 2022 la Defensoría del pueblo, l’autorità garante dei diritti umani, ha reso noto che nel 2021 almeno 145 attivisti, tra cui leader locali, sindacalisti e ambientalisti, sono stati uccisi dai vari gruppi criminali. Il numero è più basso rispetto al 2020, quando le vittime sono state 182. Nelle proteste antigovernative del 2021, inoltre, almeno cinquanta persone sono morte a causa della violenza della polizia. Reuters, Bbc
Dopo vari avvertimenti inascoltati, i leader nativi locali hanno confiscato tutte le motoseghe. Il risultato è stato che le minacce sono aumentate: un contadino ha detto che se le famiglie indigene avessero provato a cacciarlo, ci sarebbe scappato il morto.
I nativi e il governo sostengono di non voler allontanare i contadini con la forza. Ma le paure di questi ultimi sono fondate. L’amministrazione Duque ha militarizzato la lotta contro la deforestazione attraverso una strategia chiamata “operazione Artemisa”, accusata di ricorrere a un uso sproporzionato della forza nei confronti dei piccoli agricoltori e allevatori. I contadini della zona dicono di non avere scelta: devono tagliare gli alberi.
“L’economia ruota intorno al bestiame”, ha detto il leader locale Elver Ortíz a Barreto, mentre un gruppo di contadini e di famiglie indigene discutevano nello spazio della comunità dedicato alle riunioni. Altre colture, come le banane e la yucca, richiederebbero meno ettari rispetto al bestiame e sarebbero meno dannose per l’ambiente. Ma non sono altrettanto redditizie: “Il problema è che non ci sono le strade”, ha spiegato Ortíz.
Se il governo investisse nelle infrastrutture, come stabiliscono gli accordi di pace, Ortíz potrebbe coprire i costi del trasporto delle banane fino alla Macarena, la città più vicina. Oggi l’unico modo per arrivarci è un sentiero fangoso che diventa impraticabile quando piove.
“Perché alleviamo il bestiame?”, ha detto. “Perché lo possiamo trasportare a piedi”.
Anche per Tijaro il bestiame è l’unica scelta praticabile. L’allevamento gli ha permesso di dare una vita migliore ai suoi figli, diversa da quella che ha avuto lui da bambino. A pochi passi dallo spazio per le riunioni della comunità, il figlio più piccolo entra di corsa in casa togliendosi lo zaino. La madre gli chiede se ha dei compiti. Il bambino, sette anni, va a dare da mangiare ai pulcini. Ne afferra uno, tenendolo stretto, e dice: “Questo è il mio preferito”. Intanto Tijaro guarda il pascolo dalla finestra, mentre l’altro figlio gioca sotto la pioggia. ◆ ff
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Questo articolo è uscito sul numero 1445 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati