A pochi giorni dalle elezioni federali tedesche del 23 febbraio dove l’estrema destra conta di ottenere un risultato storico, si pensava che la 75a Berlinale avrebbe avuto tutti i presupposti per riprodurre il clima esplosivo dell’edizione del 2024. Ma dall’inizio della manifestazione, il 13 febbraio, non c’è traccia dei gravi dissensi dell’anno scorso. Per la prima volta alla guida di un festival, la statunitense Tricia Tuttle succede alla coppia Carlo Chatrian (estromesso fra le polemiche) e Mariëtte Rissenbeek, con il compito di riportare la Berlinale sulla retta via, il tutto senza tradire una reputazione di manifestazione impegnata. Nel discorso inaugurale, riaffermando un ruolo di resistenza contro “le idee diffuse da molti partiti di estrema destra”, la nuova direttrice si è mostrata in sintonia con il presidente della giuria, Todd Haynes, che ha parlato del traumatico ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. E Tilda Swinton, Orso d’oro alla carriera, ha denunciato “gli omicidi di massa organizzati dagli stati” e “l’inumano perpetrato sotto i nostri occhi”.

Tempismo perfetto

In questa atmosfera tutt’altro che allegra e sotto i cumuli di neve che al mattino trasformano Potsdamer Platz in una pista di pattinaggio, per tenere caldi pubblico e giornalisti ci voleva la promessa di un “latte caldo”. E Hot milk è infatti il titolo del primo film della britannica Rebecca Lenkiewicz, che cercheremo di dimenticare il più rapidamente possibile, senza cercare di capire gli errori di questo brodo edipico. La trama in due parole: una madre invalida trasmette i suoi traumi a un’Emma Mackey in pieno risveglio lesbico sulla costa spagnola, mentre costumisti e sceneggiatori cospirano per distruggere una volta per tutte la credibilità dell’attrice Vicky Krieps nel ruolo di tentatrice hippy.

Molto atteso, Mickey 17, la farsa distopica del coreano Bong Joon-ho è il titolo più importante di questa edizione. Vi si ritrovano un po’ tutti gli elementi del suo cinema in una concitata sintesi hollywoo­diana: una metafora socialmente consapevole alla Snowpiercer, una favola di mostri con chili di grassa comicità nel motore. Curiosamente è proprio la satira politica post-Musk interpretata da un delirante Mark Ruffalo che ha meno cose da raccontare, nonostante l’incredibile tempismo del film, rimasto bloccato due anni alla Warner Bros e sconcertante oggi per la sua attualità. Denti di plastica, retorica trumpiana e polenta al posto del cervello, Ruffalo si presenta come un guru tecnologico-totalitario, a capo di una colonia spaziale che vuole popolare con la razza più pura possibile. E chi se ne importa se nel corso del progetto bisogna cancellare le specie native.

Questo presente politico, che somiglia già a un brutto film, impossibile da uguagliare nei suoi toni oltraggiosi e cupi senza far saltare tutto, è denunciato dalla finzione, che lo imita fino a farne un doppione. Non vorremmo però che tutto ciò finisse per risultare sterile. Turba l’incubo transumanista, incarnato da Robert Pattinson in tutti i suoi stati organici. Avendo offerto il suo corpo alla scienza in quanto essere umano “riciclabile”, Mickey è la carne da cannone di questa conquista spaziale. Ogni giorno è distrutto in funzione di missioni suicide, per essere poi rigenerato. Fino al giorno in cui una sua versione sopravvive.

O último azul - Guillermo Garza, Desvia
O último azul (Guillermo Garza, Desvia)

In un clima trumpiano che a Berlino ha depresso più di un film, difficilmente i sudamericani perdoneranno Dreams a Michel Franco, diagnosi politicamente scorretta del cattivo migrante messicano. Probabilmente bisogna partire dal presupposto che esistono solo i mostri generati dalla violenza di classe e dal suo razzismo latente. Le prime scene sfidano i nostri pregiudizi sul suo protagonista (Isaac Hernández), giovane messicano della classe media, ballerino e appassionato di lirica, culturalmente assimilabile all’élite. Ma questo ragazzo è anche l’amante di una ricchissima filantropa, che raggiunge illegalmente negli Stati Uniti, interpretata da Jessica Chastain (scultorea, un miraggio in abiti di lusso) e che lo tiene con sé come una sorta di toy boy, alle spalle della sua famiglia. Ma lui aspira a qualcosa di più, si ribella, scappa e alla fine ci si chiede chi ha più bisogno dell’altro. Dreams analizza e scarnifica fino all’osso questo rapporto di dominazione padrone-schiavo, fino a rivelare quello che si credeva d’ignorare, o quello che non si aveva voglia di vedere. Intrigante nella sua fredda esposizione del privilegio dell’1 per cento della società, si trasforma in qualcosa di crudele, spietato con i suoi personaggi.

Giovani e vecchi

Difficile non parlare bene di Léonor Sérraille, una delle francesi della competizione, e del suo Ari. Un film che trabocca di dolcezza e di attenzione per i personaggi, che sembrano purtroppo persi. Aspirante maestro in una scuola materna a Lille, Ari è messo a riposo forzato dopo essere svenuto durante una lezione. Decide di andare a trovare gli amici del passato, che scopre in preda a tormenti esistenziali. Più che il giro d’orizzonte sociologico (l’amica bohémien depressa, l’edonista borghese di destra, l’amico arabo di estrazione popolare), si capisce bene che la voglia di filmare il protagonista Andranic Manet è il soggetto stesso del film. In altre parole il rapporto con il lavoro e il futuro dei ragazzi di oggi, generazione burnout, ecoansiosa e molto fluida. E il film stesso si dibatte tra due elementi contrastanti, stemperando la gioia con le lacrime, gli argomenti difficili con le piccole cose.

Nessuno infine avrebbe potuto immaginare che la distopia più allucinata e la meno punitiva del concorso sarebbe arrivata dal Brasile. La trama si svolge ai limiti dell’Amazzonia, tra villaggi su palafitte, un centro industriale in cui si scuoiano alligatori e un casinò galleggiante. Al centro di O último azul di Gabriel Mascaro c’è una scia soprannaturale: si attribuiscono poteri magici alle secrezioni blu di una lumaca, che permette di vedere il futuro. In una società interamente dedita alla produttività, bisogna evitare che i vecchi siano un fardello. Appena considerati buoni per la rottamazione sono messi sotto tutela, mandati di forza in una colonia isolata da tutto con zainetto, merenda e pannoloni per l’incontinenza. Teresa, 77 anni, scappa pur di non accettare questa sorte sinistra. Attraverso spostamenti poetici, tempi morti e gioia della disobbedienza, il suo road trip fluviale sostiene il film, con la cinepresa che si sposta ovunque tra speranza, ironia e sensualità. Più che in una distopia, siamo in una sorta di paradiso per anziane signore in fuga, un paradiso di una libertà incredibile per queste donne al timone della loro barca. Ecco un sogno tropicale che apprezziamo. ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1602 di Internazionale, a pagina 75. Compra questo numero | Abbonati