Al loro risveglio, il 19 novembre, gli indiani si sono ritrovati davanti agli occhi qualcosa d’insolito: il primo ministro Narendra Modi, in genere bellicoso e gagliardo, si stava “scusando” con il paese mentre annunciava il ritiro di tre leggi sull’agricoltura approvate nel 2020 dal parlamento.
Le leggi, che avrebbero dovuto liberalizzare il settore agricolo consentendo l’ingresso del capitale privato e, di conseguenza, la fine del ruolo dello stato, sono state fin dall’inizio molto discusse. In un primo momento erano state varate sotto forma di ordinanza nel giugno del 2020, in piena pandemia. Poi, a settembre, il Bharatiya janata party (Bjp), il partito al governo, era riuscito a farle approvare in parlamento, addirittura con un voto per acclamazione alla camera alta. Un anno prima, il Bjp aveva ottenuto un’incredibile vittoria alle elezioni per la camera bassa, sulla scia di un grande entusiasmo nazionalista, dopo che il governo aveva rivendicato l’incursione di un aereo da combattimento indiano in territorio pachistano, dove era stata bombardata una base di miliziani. In seguito a quella vittoria, Modi è diventato senza alcun dubbio il primo ministro più forte dai tempi di Indira Gandhi.
Un continente camuffato
Il fatto che, nonostante lo straordinario picco di consensi, Modi non sia riuscito a far approvare la riforma agraria è una dura lezione sulla natura dell’Unione indiana. Non bisogna dimenticare che con i suoi 1,3 miliardi di abitanti l’India è un continente camuffato da paese. Anzi, è molto più di un continente: ci sono più persone in India che nell’America settentrionale e meridionale messe insieme. Perciò, quando un indiano dice che il suo è un paese unico, almeno per un aspetto dice il vero. La famosa tesi del politologo Benedict Anderson, secondo cui le nazioni si formano sulla base di una comune “lingua stampata” (quella usata da libri e giornali), va a farsi benedire in India, che non solo ha una miriade di lingue, ma annovera almeno sei famiglie linguistiche.
Date le dimensioni e la diversità del paese, il fatto che Modi abbia pensato di poter imporre una riforma agraria di così ampia portata non è stato solo sbagliato dal punto di vista morale, ma è stato anche un errore tattico. E se è vero che calare qualcosa dall’alto in India è, nella maggior parte dei casi, un errore, lo è a maggior ragione nel settore agricolo, che dà lavoro alla maggioranza della popolazione ed è estremamente diversificato da uno stato all’altro. Di fatto la costituzione indiana, per altri versi centralizzata, garantisce che questo campo sia assoggettato alla giurisdizione degli stati, consentendo solo alle assemblee locali di legiferare sul settore.
Non c’è dubbio che il settore agricolo nel Punjab e nell’Haryana, epicentro delle proteste, stia attraversando una grave crisi, fermo al sistema costruito durante la rivoluzione verde (la modernizzazione dell’agricoltura, cominciata nel 1968) per far fronte alla scarsità di viveri. Ma una soluzione deve nascere nei singoli stati e, come ha detto lo stesso Modi, non può essere imposta da New Delhi.
In realtà è stato lo stile di Modi a portare la politica in piazza. Gli agricoltori del Punjab, dell’Haryana e dell’Uttar Pradesh, che non possono sperare d’influenzare la politica a New Delhi, hanno valutato che la cosa migliore da fare era mobilitare le masse per mettere in difficoltà il governo. Con Modi l’India ha conosciuto una significativa centralizzazione, tendenza che ha avvantaggiato il Bjp. Le proteste degli agricoltori, tuttavia, ricordano che questo processo è tutt’altro che completo e che altre forze cercheranno di sottrarre il potere al centro.
◆ Le tre leggi sull’agricoltura approvate dal parlamento indiano nel settembre del 2020 allentavano le regole sulla vendita, sui prezzi e sullo stoccaggio dei prodotti agricoli che per decenni avevano protetto i produttori dal libero mercato. In particolare dava agli agricoltori la possibilità di vendere i prodotti a prezzo di mercato direttamente ai soggetti privati – imprese agricole, catene di supermercati, negozi online –, invece che ai mercati all’ingrosso controllati dallo stato o ai mercati ortofrutticoli a prezzi minimi garantiti. Gli agricoltori che per un anno sono rimasti accampati alle porte di New Delhi chiedendo l’abrogazione delle tre leggi temevano di perdere la protezione dello stato di fronte ai privati. Bbc
Se con le leggi agrarie questo contraccolpo alla politica ipercentralizzata di Modi si è fatto sentire con particolare forza, la tendenza era già emersa. Negli ultimi anni il primo ministro si è dato da fare per introdurre grandi riforme, ma ha avuto difficoltà a realizzarle. Nel 2019 il Bjp ha approvato in parlamento la contestata legge sulla cittadinanza, una misura che il ministro dell’interno Amit Shah aveva promesso di legare all’introduzione di un’anagrafe nazionale e di un test di cittadinanza per i musulmani. Ma questi sono subito scesi in piazza insieme a gran parte degli abitanti dell’India nordorientale. La legge ha anche avuto un impatto negativo sull’immagine dell’India nel mondo. La riforma sulla cittadinanza non è stata ritirata, ma il governo ha fatto marcia indietro: con una mossa significativa, data l’importanza del provvedimento per la destra induista, alla fine del 2019 Modi ha preso le distanze dalla legge, dicendo che non era stata un’iniziativa del Bjp. E, a due anni dalla sua approvazione, la norma non è stata ancora attuata.
Uno stallo simile si sta vivendo anche nel Kashmir. Nel 2019 il governo aveva eliminato a sorpresa lo status speciale del Jammu e Kashmir senza consultare il parlamento locale. Si è trattato di un provvedimento di facciata, dato che di fatto lo status speciale era decaduto già da tempo. Ma il pugno di ferro che il governo ha adottato da allora ha creato nella valle una situazione molto tesa.
Per il Bjp è un momento delicato. Per restare fedele alla sua immagine populista e decisionista, Modi dovrebbe prendere decisioni nette rivendicando la sua legittimità politica, derivata direttamente dal popolo indiano.
Ma i ripensamenti e l’incapacità di dare seguito a certe scelte possono causargli dei gravi contraccolpi. Non a caso i leader delle proteste degli agricoltori, valutata la posizione di debolezza mostrata dal primo ministro, hanno deciso di aumentare le pressioni rifiutandosi di levare le tende finché tutte le loro richieste non saranno accolte, compresa l’istituzione di un (quasi impossibile) prezzo universale garantito per i raccolti. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1437 di Internazionale, a pagina 31. Compra questo numero | Abbonati