Dopo aver vissuto vent’anni a Parigi, oggi sono un cittadino francese, perciò ho potuto votare alle ultime elezioni, il 30 giugno e il 7 luglio. Lo ha fatto anche mia figlia, nata a Parigi e da poco diciottenne. La mattina del primo turno abbiamo percorso insieme a piedi il nostro viale, superando striscioni che annunciavano le imminenti Olimpiadi. Arrivati alla sua vecchia scuola elementare, dove c’era il nostro seggio, abbiamo fatto la fila con le altre persone, per lo più bianche e benestanti, che vivono in centro. Erano delle elezioni cruciali: l’estrema destra francese non era mai stata tanto vicina a conquistare il potere dopo il crollo del regime fascista di Vichy nel 1944. In quella piccola scuola c’è gran parte della storia parigina del ventesimo secolo. Sul muro esterno una targa ricorda gli alunni ebrei uccisi durante la seconda guerra mondiale. Ai piedi della scalinata principale c’è un monumento agli ex alunni caduti nella prima guerra mondiale. Il parchetto, con il cortile per il gioco della campana, è stato il luogo in cui i miei figli hanno cercato di ragionare sugli attacchi terroristici del novembre 2015, il cui epicentro è stato la sala concerti del Bataclan, appena dietro l’angolo. Quest’estate Parigi sta accumulando altri momenti storici. Il Rassemblement national (Rn), un partito di estrema destra, è arrivato terzo alle elezioni e per ora il suo arrivo al governo è stato scongiurato.
Le Olimpiadi cominceranno il 26 luglio con una spettacolare cerimonia di apertura lungo la Senna, sempre che non sia sospesa per un allarme terrorismo. Ma i giochi olimpici segnano solo l’inizio di un progetto parigino molto più ampio: la cosiddetta Grande Parigi, che punta a mettere per la prima volta in connessione la città con la sua periferia, sta entrando nella sua fase di realizzazione, con l’apertura di nuove stazioni della metropolitana suburbana.
Nei prossimi anni, la Grande Parigi potrebbe determinare una trasformazione urbana ancora più imponente di quella realizzata dal barone Haussmann negli anni cinquanta dell’ottocento.
Parigi si è sempre sentita una sorta di isola nella Francia: una città globale in un paese storicamente agricolo, una casa sia per gli immigrati sia per le antiche élite con case piene di libri. L’estrema destra francese esprime una tradizionale diffidenza nei confronti della capitale. Il padre intellettuale del movimento, Charles Maurras, finito in carcere nel 1945 perché aveva collaborato con i nazisti, dopo aver visitato Parigi per la prima volta si era lamentato della “moltitudine di insegne straniere, piene di quei nomi che cominciano con K, W e Z che i nostri stampatori chiamano spiritualmente lettere ebraiche”. Nel dopoguerra le periferie, o banlieues, si sono moltiplicate ma sono sempre state separate dalla città. Un tempo Parigi era protetta da una cinta muraria medievale. Dagli anni settanta in poi quel compito è stato affidato alla circonvallazione Périphérique. I parigini si avventurano di rado oltre il Périphérique, anche perché i collegamenti sono pessimi. La maggior parte delle periferie è stata costruita in fretta e furia, con un numero insufficiente di linee ferroviarie per la loro crescente popolazione di pendolari. Il progetto Grande Parigi non ha niente a che fare con le Olimpiadi, a parte il fatto che con i giochi è stata fissata una scadenza per il completamento della prima fase. Il progetto è nato con Nicolas Sarkozy. Quando nel 2007 era stato eletto presidente aveva promesso di reinventare Parigi, come fanno sempre i leader francesi. Mentre Londra e New York sono state plasmate da costruttori privati, Parigi è la creazione di secoli di pianificazione statale. Sarkozy pensava che Parigi dovesse essere una metropoli globale in grado di competere con le sue rivali anglosassoni. Ma come?
La città di due milioni di abitanti compresa all’interno del Périphérique non aveva massa critica. Non c’era altra scelta: si dovevano includere i quasi dieci milioni di banlieusards (gli abitanti delle periferie) – insieme a tutte le aziende, le università e gli istituti di ricerca della periferia – adeguatamente collegati non solo con Parigi ma anche tra loro. Circa un secolo dopo la stesura del piano originario, risalente al 1913 e quasi immediatamente cancellato dalla prima guerra mondiale, il progetto è stato finalmente avviato.
Rivoluzioni francesi
In questo secolo Parigi è diventata ancora di più un’isola d’élite. I suoi beaux quartiers – gli eleganti quartieri centrali vicino alla Senna – ospitano i potenti dello stato, degli affari e della cultura, quasi completamente staccati dal resto della Francia. Il demografo Jérôme Fourquet ha quantificato la loro conquista della città: la percentuale di dirigenti e lavoratori intellettuali nella popolazione attiva di Parigi è passata dal 25 per cento nel 1982 al 46 per cento nel 2013. L’autocompiacimento dell’élite francese è incarnato dal presidente Emmanuel Macron, l’ex banchiere in abiti da sartoria, il viso morbido e la dizione fin troppo colta con cui impartisce gli ordini al paese.
Dal 1789 in poi le rivoluzioni francesi sono sempre cominciate a Parigi: ma nel 2018 i gilets jaunes hanno lanciato una rivoluzione contro Parigi. Un sabato dopo l’altro, i gilet gialli hanno marciato sulla città, saccheggiando i negozi di lusso e altri simboli della ricchezza parigina. L’Rn ha poi imbrigliato gran parte di questa energia antielitaria. Secondo i sondaggi l’Rn doveva diventare il principale partito in parlamento.
Il suo fallimento segue uno schema molto francese, in cui gli elettori tendono a parlare da radicali ma ad agire da conservatori. Il loro linguaggio rivoluzionario è spesso di facciata, un omaggio alla tradizione francese. Molte persone che votano per i partiti di estrema destra o estrema sinistra, o che dicono di volerlo fare, nel loro intimo preferiscono che vinca un laureato all’École nationale d’administration. Sanno che alla fine va così. Poi possono passare cinque anni a inveirgli contro.
La città continua a essere quasi immune all’Rn. Il 7 luglio il partito non ha ottenuto alcun seggio nella capitale o nella sua periferia. La Parigi borghese dell’ovest è rimasta per lo più fedele a Macron, mentre gli arrondissements orientali, hipster e operai, hanno votato per i partiti di sinistra o verdi. Molti quartieri poveri che nel 1871 sostennero la rivoluzionaria Comune di Parigi oggi votano per l’estrema sinistra. L’Rn ha ottenuto seggi solo nelle zone più periferiche. Proprio come il voto per la Brexit ha permesso all’Inghilterra provinciale di vendicarsi della ricca e cosmopolita Londra, l’Rn esercita lo stesso tipo di fascino in Francia. Si oppone alla coesistenza multiculturale (con sacche di segregazione) che caratterizza la più grande città dell’Unione europea. L’Rn dipinge le banlieues come inferni “islamisti” dove i francesi comuni (cioè bianchi) non si sentono sicuri a uscire di casa. In un’area con dodici milioni di abitanti c’è sempre qualche crimine orribile che il partito può portare come “prova”.
Per avere un’idea della varietà demografica delle banlieues, basta seguire il percorso del treno suburbano Rer dall’aeroporto Charles de Gaulle a Parigi. Si passa per Aulnay-sous-Bois, dov’è nata Aya Nakamura, nome d’arte dell’artista franco-maliana che dovrebbe cantare alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi – una possibilità che ha scatenato attacchi razzisti contro di lei sui social media. Due fermate dopo eccoci a Drancy, dove Jordan Bardella, ventottenne presidente dell’Rn, è cresciuto con la madre single. Bardella parla di quanto sia stata dura per lui la vita, ma in realtà il padre, un imprenditore, gli ha pagato le scuole private. Il treno si dirige poi verso il nord di Parigi, passando davanti al quartiere dell’amato judoka Teddy Riner, arrivato qui con i suoi genitori dai Caraibi francesi. Altri eroi dello sport francese, come il calciatore Kylian Mbappé e il genio del basket Victor Wembanyama, sono prodotti meticci delle banlieues: Mbappé ha origini camerunesi e algerine, mentre Wembanyama ha un padre congolese e una madre bianca francese.
La città dei ricchi
L’Rn sembra considerare illegittimi i banlieusards non bianchi. Non vorrebbe più concedere automaticamente la cittadinanza alle persone nate in Francia da genitori stranieri, sottintendendo che chiunque sia diventato francese in questo modo non lo è veramente. Anche le persone con doppia nazionalità secondo l’Rn non dovrebbero contare come francesi a tutti gli effetti, e il partito avrebbe intenzione di vietargli di svolgere incarichi considerati “strategici”.
Inoltre, la politica della “preferenza nazionale” portata avanti dall’Rn – in base alla quale i cittadini francesi avrebbero la precedenza in materia di assistenza sociale e di alloggi – definisce i non francesi abitanti di seconda classe. L’Rn sembra sognare di ritrasformare in uova l’omelette multiculturale che è la Grande Parigi. Anche l’estrema sinistra – parte del Nuovo fronte popolare, che oggi è il più grande gruppo dell’assemblea nazionale – ha i suoi grattacapi con Parigi. Detesta la città del lusso emersa con Macron.
Una delle sue prime iniziative da presidente è stata l’abolizione della patrimoniale, un provvedimento che gli ha conquistato il soprannome di président des riches. Oggi tre delle sei maggiori aziende europee per valore di mercato sono gruppi francesi del lusso con sede nella Grande Parigi. Il più grande, Lvmh, è il principale sponsor locale dei giochi olimpici. La sinistra vuole aumentare le tasse ai ricchi, quasi tutti residenti nella capitale. La Brexit ha stimolato un afflusso di banchieri internazionali che ora non devono più nemmeno imparare il francese, visto che il centro di Parigi sta diventando una città d’affari bilingue quasi come Amsterdam, e i loro figli possono frequentare scuole in lingua inglese.
Quando cinque anni fa i miei figli hanno cominciato la scuola secondaria e noi cercavamo per loro un istituto di madrelingua inglese, nella nostra zona ce n’erano solo due. Ora ne stanno aprendo ovunque. E lo stesso vale per i ristoranti e gli alberghi di lusso. Tutta questa plutocrazia fa arrabbiare l’estrema sinistra, anche se circa un quarto dei parigini vive in case popolari: quasi il doppio rispetto all’inizio del secolo. La sindaca socialista di Parigi, Anne Hidalgo, vuole aumentare ulteriormente la percentuale.
Ora allo stress politico di Parigi si aggiunge lo stress olimpico. I manifesti nella metropolitana avvertono i passeggeri di “stare pronti alle Olimpiadi” come se si parlasse di una specie di pandemia. I parigini cercano ossessivamente su Google quali strade saranno chiuse. Le persone che vivono vicino alla Senna temono di restare imprigionate – in stile muro di Berlino – già dai giorni precedenti alla cerimonia di inaugurazione, senza poter ricevere ospiti o andare al supermercato a meno di avere un pass speciale.
Perfino la Senna è destinata a ospitare le gare di nuoto all’aperto, ma potrebbe non essere abbastanza pulita. E la città più densamente abitata d’Europa deve in qualche modo accogliere milioni di turisti olimpici. Già oggi ampie zone di Parigi sono chiuse, con conseguenti ingorghi epici. Il terrorismo, moderno trauma della città, è in cima alle preoccupazioni. La cerimonia di apertura sul fiume che attraversa il centro di Parigi, sotto gli occhi di tutto il mondo, rappresenta l’obiettivo terroristico più allettante che si possa immaginare.
In tutto ciò, dov’è la gioia? “La gioia arriverà”, promette il vicesindaco Emmanuel Grégoire. Non è possibile però tirare su di morale dei parigini dicendogli che le Olimpiadi faranno della loro città il centro del mondo. Parigi pensa già di essere il centro del mondo. Non siamo a Barcellona, Atlanta o Atene. Parigi non ha bisogno dei giochi. Forse però le banlieues sì. Le Olimpiadi di Parigi sono più che altro quelle delle periferie. Il loro epicentro è a pochi minuti a nord, a Seine-Saint-Denis, punto di arrivo per molti immigrati di origine africana. È il dipartimento più povero della Francia continentale, dove la sinistra esprime tutti i 12 seggi parlamentari.
Qui si trovano lo Stade de France, lo stadio olimpico e, appena oltre una passerella, il nuovo centro per gli sport acquatici. A poche centinaia di metri ci sono il villaggio olimpico e la nuovissima stazione della metropolitana che entro il 2030 dovrebbe diventare il principale snodo della regione: Saint-Denis-Pleyel. Il 24 giugno Macron ha inaugurato il prolungamento della linea 14 della metropolitana, che ora va dall’aeroporto di Orly a sud della città fino al quartiere olimpico.
All’improvviso gli abitanti di Pleyel si trovano a 15 minuti dal centro della capitale. Queste nuove fermate sono le prime di altre 68 stazioni, tutte in periferia, che saranno aperte entro l’inizio degli anni trenta. Nuovi treni metropolitani senza conducente collegheranno tra loro le banlieues, saltando in larga misura Parigi. Nella regione si aggiungeranno anche decine di stazioni per biciclette, autobus e treni suburbani. Immaginate tutto questo a Londra o a New York.
Una Parigi per tutti
Scopo del progetto è dare a Parigi più centri, invece di uno solo. Quando la maggior parte degli abitanti delle periferie non avrà più bisogno dell’automobile, la città potrà finalmente eliminare il Périphérique. Si prevede che la circonvallazione perderà molte delle sue corsie, trasformandosi in un boulevard urbano fiancheggiato da alberi e (con un tocco squisitamente parigino) da caffè.
Il progetto infrastrutturale Grande Parigi Express costa attualmente circa 42 miliardi di euro. Le autorità della Grande Parigi sperano di costruire tante di quelle case in corrispondenza delle nuove stazioni e nei loro dintorni – i centri nevralgici dei futuri quartieri – da potere tenere bassi i prezzi delle abitazioni nell’intera regione. Lo stato francese, con i suoi poteri quasi come quelli dell’amministrazione cinese, ha una tradizione migliore nella costruzione di infrastrutture rispetto ai rivali anglosassoni.
Qualche tempo fa sono andato a visitare il villaggio olimpico. Era una bella mattina d’estate, una di quelle in cui è più facile sentirsi ottimisti, e ammetto di essere rimasto a bocca aperta. C’erano isolati di edifici ariosi, ciascuno di circa dieci piani, situati in un’ansa della Senna intorno alla Cité du Cinéma, una centrale elettrica art déco degli anni trenta ristrutturata e destinata al cinema. Quando gli atleti se ne andranno, i loro alloggi diventeranno un mix di case popolari e a prezzi di mercato, uffici, negozi, caffè e spazi verdi. Nelle vicinanze ho visto costruire scuole per residenti non ancora nati. Tutto questo mi ha fatto ben sperare per Parigi. Certo, il villaggio olimpico è un pezzo forte. Molto di ciò che verrà dopo non sarà altrettanto bello. Il villaggio dimostra però quanto possano essere ben fatti gli alloggi a prezzi accessibili ora che gli urbanisti hanno imparato dagli errori dei decenni del dopoguerra.
L’architettura delle banlieues è migliorata. Le autorità hanno demolito alcuni mostruosi grattacieli degli anni sessanta (anche se molti ex residenti sono rimasti sconvolti dalla perdita dei loro ricordi familiari). Nei quartieri intorno al villaggio olimpico ho visto condomini di edifici bassi con spazi verdi, bambini che giocano a rugby e un vivace mercato all’aperto in mezzo alle piste ciclabili.
Dominique Perrault, capo urbanista del villaggio olimpico, è talmente parigino da indossare un foulard avvolto in modo impeccabile intorno al collo anche in piena estate. È convinto che l’imminente trasformazione resa possibile dai trasporti supererà quella di Haussmann. “Lui ha trasformato una piccola città in una bellissima grande città. Presto avremo una nuova mappa mentale della città”. Ho chiesto se un giorno gli abitanti di Seine-Saint-Denis diranno di vivere “a Parigi”. “No”, ha risposto Perrault, “credo che diranno ‘Grande Parigi’”.
La maggior parte dei parigini spera solo che le Olimpiadi passino senza disastri, come le elezioni parlamentari. Forse quest’epoca parigina, con il senno di poi, somiglierà all’epoca di Haussmann: quasi tutti i fatti di cronaca del suo tempo sono ormai dimenticati. Quello che sopravvive è la città che ha creato. ◆gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1573 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati