Nel mite pomeriggio estivo di domenica 30 giugno 2019 Wil, un ingegnere informatico di 31 anni, se ne stava su un materassino gonfiabile davanti a casa sua, a Clapham, un quartiere a sudovest di Londra. Era in pigiama e beveva birra polacca. Mentre chiacchierava con il suo coinquilino sotto il sole, sopra le loro teste gli aerei diretti all’aeroporto di Heathrow facevano manovra per prepararsi all’atterraggio. Wil ha preso il cellulare per mostrare al suo coinquilino un’app che individua la rotta e il modello di qualsiasi aereo di passaggio. Dopo averla provata su quello che stava passando in quel momento, ha alzato di nuovo il telefono in aria e ha guardato verso l’alto con gli occhi socchiusi per schermarsi dal sole. A quel punto ha visto cadere qualcosa. “All’inizio ho pensato che fosse una borsa”, ha raccontato in seguito Wil. “Ma dopo qualche secondo si è trasformato in un oggetto abbastanza voluminoso che cadeva in picchiata”. Forse era un ingranaggio che si era staccato dal carrello di atterraggio, pensò, o una valigia caduta dalla stiva. Poi però gli è affiorato un vago ricordo di un articolo letto anni prima sulle persone che viaggiano di nascosto sugli aerei. Non voleva crederci, ma via via che l’oggetto si faceva più vicino era impossibile negarlo: “Nell’ultimo paio di secondi prima dell’urto ho visto degli arti”, ha raccontato Wil. “A quel punto ho capito che si trattava di un corpo umano”.
Allora ha scattato una foto alla schermata dell’app dove comparivano le informazioni sul volo, e il suo coinquilino ha telefonato alla polizia per fornire i dati. Si trattava del volo KQ100 della Kenya Airways, un Boeing 787-8 Dreamliner decollato otto ore e sei minuti prima, alle 9.35 ora locale, dall’aeroporto internazionale Jomo Kenyatta di Nairobi. Wil ha preso la motocicletta nella speranza di “trovare magari un bagaglio caduto per strada, pregando che fosse solo una borsa o un soprabito o qualcosa del genere”. In effetti sulla strada ha trovato uno zaino e ha tirato un sospiro di sollievo.
La stampa è piena di storie di migranti che rischiano la vita per arrivare in Europa
Ma quello zaino, a un esame più attento, era coperto di polvere e quindi non poteva essere caduto dall’aereo. “Mentre svoltavo nella traversa”, racconta Wil, “ho incrociato una volante della polizia a sirene spiegate che per poco non ha urtato il mio manubrio. Ho pensato: ‘Mio Dio, era davvero un essere umano’”. Seguendo l’auto della polizia è arrivato in Offerton road, a trecento metri da casa sua. Lì, davanti a una bella villetta a schiera, c’era un uomo in piedi che poteva avere trent’anni: era pallido come un cencio, tremava e taceva. Si chiamava John Baldock, anche lui informatico. “Aveva”, ricorda Wil, “lo sguardo fisso, vuoto e spento”.
Attraverso i vetri della finestra, Wil ha sbirciato nel giardino dietro alla casa. Il patio era “in macerie”. Allora si è rivolto a John: “La prima cosa che gli ho detto è stata: ‘Era una persona, vero?’. Perché non ero ancora sicuro al 100 per cento. Lui non ha aperto bocca. Mi ha guardato e ha annuito. A quel punto mi è crollato il mondo addosso”. Wil aveva capito bene. Era un corpo umano. Il corpo, anzi quella persona, era precipitata per più di mille metri, mezzo assiderata, e si era schiantata al suolo alle 15.38. Era l’uomo caduto dal cielo. Il passeggero clandestino.
In condizioni normali, il caso sarebbe stato trasmesso all’ufficio persone scomparse della polizia, ma quel giorno la squadra aveva un sacco di lavoro, così il sergente Paul Graves, dell’unità anticrimine, si è offerto volontario per l’indagine. “Pensavo che potesse essere un lavoro interessante”, mi ha detto Graves l’anno scorso, quando ci siamo incontrati nel suo ufficio piccolo e illuminato con il neon al commissariato di Brixton.

Nei suoi trent’anni di carriera in polizia Graves si era occupato di accoltellamenti, sparatorie, rapimenti e tentati omicidi. Erano casi impegnativi, e lui era abituato alle domande insistenti dei giornalisti, ai parenti e agli amici che pretendevano risposte, a testimoni che non volevano collaborare. Da investigatore di lunga data, Graves sperava di identificare l’uomo caduto dal cielo e rispedire il cadavere in patria. Ma non era ottimista: “È difficile trovare qualche ottimista tra i poliziotti”, mi ha detto ridacchiando.
Lo zaino verde
Alle 15.39 di quel giorno, quando è arrivata la telefonata, gli agenti si sono precipitati a Offerton road, dove hanno parlato con Wil, John e con i vicini. La polizia ha contattato la società che gestisce l’aeroporto di Heathrow, che ha mandato alcuni dipendenti a esaminare i vani ruote dell’aereo della Kenya Airways, cioè le cavità non pressurizzate in cui si ritrae il carrello d’atterraggio dopo il decollo. È uno spazio dove una persona che voglia sfuggire al rilevamento entra a malapena. Gli addetti dell’aeroporto hanno trovato un sudicio zaino verde coloniale con le iniziali “M.C.A.”.
Lo zaino non conteneva indizi significativi, solo un po’ di pane, una bottiglia di Fanta, una bottiglia d’acqua e un paio di scarpe da ginnastica. “Cibo, acqua e un paio di scarpe: letteralmente l’essenziale per sopravvivere”, ha osservato Graves. Però c’era anche una piccola somma in monete keniane. La bottiglia di Fanta è risultata venduta da un negozio del Kenya: questo indicava che quella persona si era quasi certamente imbarcata in quel paese. Il volo KQ100 era arrivato a Nairobi da Johannesburg, mi ha detto Graves, quindi si poteva escludere che il passeggero clandestino si fosse nascosto a bordo dell’aereo in Sudafrica.
All’obitorio di Lambeth i patologi hanno prelevato campioni del dna dell’uomo, hanno fatto delle copie delle sue impronte digitali e hanno inviato tutto alle autorità keniane. I risultati del dna sono arrivati velocemente: nessuna corrispondenza. Graves sperava di avere più fortuna con le impronte digitali, dato che in Kenya molti datori di lavoro le prendono a chi vuole essere assunto. Ma neanche le impronte del viaggiatore clandestino erano nel database della polizia keniana.
Le persone che si nascondono nei vani ruote sono di solito maschi
Mentre Graves proseguiva il suo lavoro, in Offerton road sono piombati i giornalisti per intervistare i vicini di John, e hanno sfornato una raffica di articoli senza mai mancare di indicare il valore della casa dove John viveva in affitto (2,3 milioni di sterline) e il fatto che si era laureato a Oxford. Non è difficile capire perché la vicenda sia finita sulle prime pagine dei quotidiani. I giornali britannici erano pieni di storie di migranti che rischiavano la vita per arrivare in Europa. Nel maggio 2019 in un solo giorno era stato intercettato nella Manica un numero record di barche, e le motovedette che pattugliano la frontiera del Regno Unito avevano raccolto più di settanta persone. Nel 2018 l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati aveva calcolato che sei persone morivano ogni giorno nel tentativo di attraversare il mar Mediterraneo. Tuttavia, queste storie erano diventate così familiari da essere spesso accolte con indifferenza. Nella vicenda del migrante keniano, invece, c’era qualcosa di nuovo: uno sconosciuto proveniente da un paese dove circa un terzo della popolazione vive con meno di due dollari al giorno precipita dal ventre di un aereo e si schianta un migliaio di metri più sotto in uno dei quartieri più ricchi di Londra. “È un evento che fa notizia”, ha commentato Graves. “Due mondi che s’incontrano a 320 chilometri all’ora”.
Nascondersi nel vano ruote di un aereo di linea è un gesto oggettivamente pericoloso, al limite del suicidio. Secondo la Federal aviation administration, l’autorità statunitense che regola l’aviazione civile, dal 1947 al febbraio 2020 in tutto il mondo 128 persone hanno tentato di viaggiare clandestinamente in questo modo, e nel 75 per cento dei casi sono morte. Non c’è da sorprendersi: in ogni fase del viaggio la morte è in agguato. Il passeggero clandestino può precipitare dall’aereo in fase di decollo, come successe nel febbraio 1970 a Keith Sapsford, 14 anni, che cadde poco dopo il decollo dal vano ruote di un DC-8 Douglas in viaggio da Sydney a Tokyo (e che un fotografo catturò, sembra incredibile, proprio nel momento in cui cadeva dall’aereo). Se sopravvive al decollo, può restare schiacciato dal carrello di atterraggio quando si ritrae nel vano ruote. Nel luglio 2011 è morto così nei cieli dell’Avana un cubano di 23 anni, Adonis Guerrero Barrios, che si era imbarcato di nascosto su un Airbus A340 diretto a Madrid.
Può succedere che il passeggero clandestino non resti schiacciato, ma probabilmente morirà poco dopo. Entro 25 minuti dal decollo la maggior parte degli aerei passeggeri raggiunge un’altitudine di crociera di diecimila metri, dove la temperatura esterna all’apparecchio è circa 54 gradi sottozero. I sistemi idraulici che servono a estrarre e ritrarre il carrello di atterraggio emettono calore, aumentando la temperatura di ben venti gradi: tuttavia anche 34 gradi sottozero è una temperatura sufficientemente bassa da provocare un’ipotermia fatale. All’altitudine di crociera, poi, la pressione dell’aria è circa quattro volte inferiore rispetto a quella del livello del mare e questo significa che i polmoni di un essere umano non riescono a estrarre abbastanza ossigeno dall’aria. La conseguenza è l’ipossia, cioè il sangue non è in grado di fornire abbastanza ossigeno ai tessuti del corpo, cosa che può causare l’arresto cardiaco e la morte cerebrale. Ma il calo della pressione dell’aria mentre l’aereo si porta in quota può anche causare il disturbo da decompressione, ben noto ai subacquei: nel corpo si formano bolle di gas che provocano varie condizioni debilitanti, in alcuni casi fatali.
Se riesce a sopravvivere al viaggio, quando l’aereo comincia la sua discesa il passeggero clandestino sarà quasi sicuramente privo di sensi. Così, quando il carrello di atterraggio dell’aereo viene estratto durante l’avvicinamento finale, di solito entro otto chilometri dalla pista, probabilmente cadrà dal vano ruote a terra migliaia di metri più in basso. Questo è il motivo per cui a volte i corpi dei clandestini si ritrovano nella zona sud di Londra, cioè al di sotto del corridoio di avvicinamento a Heathrow. Il mozambicano Carlito Vale, precipitato da un volo della British Airways nel giugno 2015, fu decapitato nell’impatto con l’unità di aria condizionata di un complesso di uffici a Richmond. Il pakistano Mohammed Ayaz, anche lui precipitato da un volo della British Airways nel giugno 2001, morì sul colpo in un parcheggio, sempre a Richmond.

Ma nonostante i rischi enormi, alcuni sopravvivono, e questo è davvero straordinario. Gli scienziati hanno difficoltà a spiegarlo, anche perché non possono condurre simulazioni su quello che avviene a un essere umano chiuso in un vano ruote ad alta quota. “Succede qualcosa che non capiamo completamente”, dice Paulo Alves, dell’Aerospace medical association. L’ipotesi scientifica più attendibile è che vadano in ibernazione.
Stephen Veronneau, il principale esperto mondiale in materia, ha delineato questa teoria in un documento del 1996 per la Federal aviation administration statunitense. “La temperatura corporea centrale della persona può scendere a 27 gradi (di norma è fra 36,1 e 37,2 gradi) o anche più giù. Quando l’aereo atterra, la persona torna gradualmente a riscaldarsi e a riossigenarsi. Se è stata così fortunata da evitare danni cerebrali, il decesso per ipossia e ipotermia, un arresto cardiaco o lo scompenso causato dal riscaldamento, oppure gravi complicanze del disturbo da decompressione neurovascolare, effettivamente può avere un progressivo recupero della coscienza” (Veronneau ha confermato di essere ancora convinto della validità della sua teoria).
La gita scolastica
La ricerca sui casi di annegamento in acqua fredda sembra avvalorare la tesi di Veronneau. Nel febbraio 2011, durante una gita scolastica, tredici adolescenti danesi e due insegnanti si trovavano a bordo di un’imbarcazione che si rovesciò in un fiordo ghiacciato. Uno degli insegnanti e alcuni studenti riuscirono ad arrivare a nuoto a riva e a dare l’allarme, mentre l’altro insegnante fu poi trovato morto nel fiordo. Quando i primi soccorritori arrivarono sul posto, 103 minuti dopo, sette degli adolescenti galleggiavano ancora, privi di sensi, sull’acqua gelata a 2 gradi sottozero. Nelle due ore che ci vollero per tirarli fuori dal fiordo e portarli in ospedale, i loro cuori smisero di battere. Avevano una temperatura interna media di 18,4 gradi. Erano clinicamente morti, dice il dottor Michael C. Jaeger Wanscher, che gli prestò le prime cure.
Dal 2014 lungo le rotte migratorie globali sono morte almeno 10.134 persone
Successivamente i medici del Rigshospitalet di Copenaghen riscaldarono il sangue degli adolescenti di 1 grado ogni dieci minuti fino a portarlo a 36 gradi, con l’aiuto di una macchina di ossigenazione extracorporea a membrana che rimuove il sangue dal corpo, lo ossigena e poi lo pompa di nuovo nel corpo della persona sedata. In questo procedimento il sangue bypassa il cuore e i polmoni, permettendogli di guarire. Dopo questo riscaldamento, i ragazzi furono trasferiti in terapia intensiva, dove rimasero attaccati a ventilatori sotto sedazione profonda. Quando furono gradualmente staccati dalle macchine, tutti e sette ripresero conoscenza. Uno aveva purtroppo subìto gravi danni fisici e cognitivi e attualmente è ospite di una struttura di cura. Gli altri sei avevano subìto danni cerebrali da lievi a moderati, ma in seguito furono in grado di riprendere una vita relativamente normale e di tornare a scuola. “Hanno studiato e superato gli esami, ma forse a un livello inferiore”, mi dice Wanscher. “Non sono come prima dell’incidente. C’è una differenza. Loro stessi lo avvertono, perché dicono: ‘Non funziono più come un tempo’”.
Quando una persona è prossima all’assideramento, il suo fabbisogno di ossigeno e di energia diminuisce, rendendola meno suscettibile ai danni cerebrali provocati dall’ipossia, e quando viene gradualmente riscaldata si risveglia come da un sogno. “Abbiamo imparato senza ombra di dubbio che questo è possibile”, dice Alves. “Ci sono prove tangibili. Alcuni dei passeggeri clandestini che sono sopravvissuti erano coperti di brina, il che dimostra che avevano davvero subìto l’ipotermia”. Tornare in vita dopo essere rimasti assiderati: sembra una fantasia, eppure è possibile.
Telecamere a circuito chiuso
Nel settembre 2019, tre mesi dopo aver accettato il caso, Graves è volato in Kenya nella speranza di scoprire qualsiasi informazione potesse servire a identificare il viaggiatore clandestino. Ha visitato le baraccopoli intorno all’aeroporto di Nairobi e gli obitori, pieni di salme che nessuno aveva reclamato. Inoltre i funzionari lo hanno accompagnato a fare un giro dell’aeroporto e gli hanno fatto vedere le registrazioni delle telecamere a circuito chiuso. Da queste è emerso che l’aereo proveniente dal Sudafrica, dopo l’atterraggio era stato portato alla piazzola di sosta numero 1, dov’era rimasto fermo per cinque ore prima di essere spostato alla porta d’imbarco numero 17 per far salire i passeggeri. Le telecamere a circuito chiuso mostravano che nessuno era saltato sull’aereo mentre stava decollando e nessuno si era nascosto nel carrello mentre si trovava alla porta d’imbarco numero 17. Questo significava che quasi certamente il passeggero clandestino era salito a bordo nella piazzola di sosta numero 1, dove le riprese delle telecamere erano meno nitide.
Come aveva fatto a salire sull’aereo? In teoria non è difficile. Di solito chi vuole farlo si dirige verso i vani ruote posteriori, perché sono più spaziosi rispetto a quelli anteriori. Ma per entrarci bisogna arrampicarsi per quasi due metri sul carrello di atterraggio (che è pieno di montanti e quindi offre numerosi punti d’appoggio) e strisciare nella cavità in cui si ritirano le ruote dopo il decollo. Il compito più difficile è arrivare all’aereo prima del decollo. Il sistema di sicurezza dell’aeroporto internazionale Jomo Kenyatta di Nairobi era rigoroso. “Non c’erano prove di evidenti violazioni della sicurezza”, dice Graves. “Tutto il personale doveva mostrare un lasciapassare per attraversare i varchi”.

Graves sapeva che probabilmente un dipendente dei servizi aeroportuali a terra, un addetto ai bagagli o alle pulizie aveva avuto accesso all’aereo mentre veniva pulito, rifornito di carburante e caricato prima del decollo. “Doveva essere una persona poco pagata e poco istruita con accesso alla piazzola di sosta”, dice David Learmont, redattore di FlightGlobal, un sito di notizie sull’aviazione. “È improbabile che si tratti di un meccanico, perché sa bene che viaggiare nascosto lì non è un buon modo per volare gratis, perché sei sicuro di partire ma non di arrivare”. In ogni caso, le autorità aeroportuali keniane hanno assicurato a Graves che tutti i loro dipendenti erano presenti e verificati, e che dagli interrogatori della polizia non era emersa nessuna prova che il passeggero clandestino fosse stato aiutato dal personale.
Un’altra possibilità era che avesse raggiunto l’aereo violando il perimetro esterno dell’aeroporto. Nel 2014 Yahya Abdi, 15 anni, aveva scavalcato una recinzione all’aeroporto di San Jose, negli Stati Uniti, e si era nascosto su un volo diretto alle Hawaii (ed era sopravvissuto). Ma i funzionari dell’aeroporto hanno assicurato a Graves che il perimetro era sicuro. E anche in questo caso Graves non ha avuto altra scelta che credergli. Abbiamo chiesto alle autorità aeroportuali di Nairobi di fornirci qualche commento, ma non abbiamo avuto risposta.
Il caso era sconcertante. Un uomo si era nascosto in un aereo a Nairobi ed era precipitato dal cielo sopra Londra. Era keniano. Tutti quei fatti erano certi o quasi, eppure Graves non aveva fatto neanche un passo verso l’identificazione del suo uomo. Graves non è un tipo sentimentale, ma il caso lo colpiva. Dopo il decollo del suo volo diretto in Kenya c’è stato un momento in cui, sentendo lo scricchiolio del carrello che si ritraeva, si è girato verso il suo collega. “Ci siamo solo guardati”, dice. Era terribile immaginare una persona seduta sotto di loro, da sola, rannicchiata nel vano ruote. “Nel mio lavoro si vedono molte cose orribili: cadaveri e persone maciullate. In parte questo ci provoca una sindrome di stanchezza da compassione. Ma quando ho sentito il rumore delle ruote, ho pensato: ‘Caspita, per fare una cosa del genere bisogna essere davvero disperati’”.
Per Graves la vicenda non è mai rimasta circoscritta al mistero di come quell’uomo fosse riuscito a nascondersi nell’apparecchio. Per lui l’interrogativo era: perché? Di passeggeri clandestini si parla fin dagli albori dell’aviazione. Originari di paesi come Cuba, Sudafrica,
Kenya, Nigeria, Senegal, Repubblica Dominicana e Cina, in tanti sono saliti di nascosto a bordo di un aereo nella speranza di lasciarsi alle spalle la vecchia vita. Fuggono per i motivi più disparati: povertà, infelicità, noia, disperazione. Nel 1946 Bas Wie, 12 anni, s’imbarcò di nascosto su un DC-3 Douglas diretto dall’Indonesia all’Australia: era un orfano che per guadagnarsi da vivere lavorava nelle cucine dell’aeroporto di Kupang a Timor Ovest. Abdi, l’adolescente che ha volato dalla California alle Hawaii nel vano ruote di un Boeing 767, ha detto che stava cercando di tornare da sua madre in Somalia.
Le persone che si nascondono nei vani ruote sono di solito maschi, ma nel 2014 una cubana è arrivata negli Stati Uniti nella stiva pressurizzata di un aereo da carico proveniente dalle Bahamas. Il più giovane passeggero clandestino che si conosca è un ragazzino di 9 anni, ma la maggior parte sono adulti sotto i trent’anni, pochissimi dei quali hanno volato di nascosto su rotte nazionali. Il primo paese di provenienza è Cuba, che conta nove casi dal 1947. Il primo è stato Armando Socarrás Ramírez, che nel giugno del 1969, a 17 anni, si nascose nel vano ruota destro di un DC-8 Douglas pronto per il volo di otto ore dall’Avana a Madrid. All’atterraggio il pilota lo trovò sdraiato sotto la pancia dell’aereo: era coperto di ghiaccio e non respirava. “In Spagna i medici mi chiamavano ‘ghiacciolo’!”, mi ha raccontato Ramírez, che oggi ha 69 anni, vive negli Stati Uniti e ha quattro figli e dodici nipoti.
Ramírez voleva lasciare Cuba fin da quando aveva dieci anni. Fu il suo amico Jorge Pérez Blanco, più piccolo di un anno, a dargli l’idea d’imbarcarsi di nascosto. Insieme sorvegliarono l’aeroporto dell’Avana. “L’unica compagnia aerea adatta era l’Iberia”, racconta Ramírez. “Tutte le altre andavano nei paesi comunisti, e se fossimo atterrati lì, ci avrebbero rispediti indietro, magari nello stesso vano ruote!”. Il volo dell’Iberia Airlines da Madrid all’Avana atterrava il martedì mattina, faceva rifornimento e ripartiva la sera. Così il 3 giugno 1969 Ramírez e Pérez si misero in attesa fuori dalla recinzione perimetrale. Ramírez aveva una corda, una torcia e dell’ovatta per tapparsi le orecchie. Quando l’aereo cominciò a rullare verso la pista di decollo, i due saltarono la recinzione. Ma Pérez cominciò a ripensarci, e Ramírez dovette quasi trascinarlo.
I due ragazzi si avvicinarono da poppa: Pérez entrò nel vano ruota sinistro e Ramírez nel destro. L’aereo decollò. “Quando raggiunse la quota giusta”, ricorda, “il vano cominciò ad aprirsi per far rientrare il carrello. Ero aggrappato con la punta delle dita al bordo del vano, con il vento che mi spingeva lateralmente”. In seguito il suo dito medio si annerì per l’assideramento e lo sforzo. A un certo punto Pérez cadde dall’aereo: fu ritrovato vivo sulla pista dell’Avana e arrestato. Mentre il carrello rientrava Ramírez trovò un appiglio che gli impedì di precipitare. A quel punto, però, sorse un nuovo problema: il carrello di atterraggio lo stava schiacciando. A quel ricordo, Ramírez ha dovuto fare una pausa per ricomporsi. Poi ha continuato: “Io spingevo verso l’esterno mentre la ruota premeva verso l’interno”. Per fortuna, le ruote scattarono di nuovo verso l’esterno, dando al ragazzo il tempo di cambiare posizione prima che il vano si chiudesse ermeticamente.
All’interno del vano ruote era tutto buio e il rumore era assordante. “Entravi a far parte del rumore”, dice Ramírez. “Mi faceva tremare. Questa cosa di diventare il rumore va oltre la comprensione”. Lui però si sentiva al settimo cielo, incastrato in quell’angolo. “Ero contento di avercela fatta”. Quando si appoggiò agli pneumatici li sentì caldi, ma poi la temperatura calò di colpo e si raffreddarono. “Faceva un freddo terribile, si gelava”, ricorda. “Avevo i brividi e tremavo”.

A quel punto Ramírez svenne. Il suo ricordo successivo è il momento in cui si svegliò sotto la pancia dell’aereo, a Madrid. Poi perse conoscenza di nuovo. Furono chiamati i soccorsi, e gli infermieri lo trasportarono in aeroporto credendolo morto. Ma lui si riprese: “Vedevo gente intorno a me, e la stanza girava come quando hai le vertigini”, racconta. “Si muoveva tutto: le pareti si muovevano e le luci sembravano oscillare di qua e di là”.
Il giovane cubano trascorse 52 giorni in ospedale. Diventò un fenomeno mediatico internazionale. Andarono a trovarlo giornalisti del New York Times e del Reader’s Digest. Intanto le autorità cubane erano furiose: “Castro parlò con mio padre”, ricorda Ramírez, “e gli disse: ‘Con voi non ho nessun problema, voglio solo mettere le mani su tuo figlio’. Ovvio: gli avevo fatto fare una figuraccia!”.
All’inizio Ramírez aveva perso l’udito, e i medici dovevano usare una lavagna per comunicare con lui. Dopo un mese, però, l’udito tornò normale e lui non ebbe alcuna conseguenza fisica di lungo periodo: “Ho la pressione normale e anche il battito cardiaco”, spiega. Del resto ha lavorato per undici anni come vigile del fuoco. Fervente cristiano, Ramírez crede che sia stato l’intervento divino a salvargli la vita. “È Dio che mi ha tenuto la mano sulla testa”, dice. Ha un unico rimpianto: “Dopo di me un sacco di giovani cubani hanno cercato fare quello che ho fatto io, ma sono morti quasi tutti”.

A caccia di indizi
Esaurite le piste in Kenya, a Graves restava solo una cosa da fare: raccontare tutto ai giornalisti sperando che tornassero a parlare di quella storia, magari rinfrescando la memoria a qualcuno. “Probabilmente la gente crede che i poliziotti vadano in giro a caccia d’indizi”, mi ha detto. “La verità è che noi contiamo sulla possibilità che ci sia qualche testimone che ha visto i fatti e ce li racconti”.
Ma i suoi colleghi keniani, ricorda Graves, non hanno apprezzato quella mossa. E si capisce: i viaggiatori clandestini sono causa d’imbarazzo per chi gestisce un aeroporto, sono un pericolo, e spesso anche un costo. Quando fu violata la sua recinzione lunga più di tre chilometri, l’aeroporto San Jose spese 15,4 milioni di dollari per potenziarla. Per i governi, poi, questi episodi sono pessime notizie, perché spingono molte persone in tutto il mondo a chiedersi per quale motivo i cittadini di quel paese siano così disperati da correre rischi spaventosi pur di lasciare il paese. Nel luglio 2013 il turco Hikmet Kömür, 32 anni morì dopo essersi nascosto nel vano ruote di un aereo della British Airways diretto da Istanbul a Londra. Nei giorni seguenti la polizia turca andò a casa sua e disse alla sua famiglia che non doveva chiedere altre informazioni su come fosse riuscito a nascondersi a bordo. “A un mio zio dissero di non insistere”, ricorda la nipote di Kömür, Fatos, che studia a Londra. “Di lasciar perdere, insomma”.
Ma le autorità keniane potrebbero aver avuto anche un altro timore. Nel 2017 l’aeroporto di Nairobi ha ottenuto la classificazione di livello 1 in tema di sicurezza, quella che permette i voli diretti verso gli Stati Uniti. “Le autorità di polizia keniane”, mi dice Hillary Orinde, giornalista dell’Afp, “temono che se uscisse fuori che il viaggiatore clandestino era originario del Kenya, l’aeroporto perderebbe posizioni nella classifica della sicurezza”.
Graves è riuscito a convincere la polizia keniana a diramare informazioni sul caso attraverso la rivista interna del corpo, nella speranza d’incoraggiare qualche dirigente a indagare. Tornato nel Regno Unito a ottobre, ha diffuso un identikit digitale del volto del passeggero clandestino ricostruito dai patologi nei giorni successivi all’incidente, oltre a una foto dei suoi pochi effetti personali. Tutto era accompagnato da un comunicato stampa che citava le iniziali M.C.A. sullo zaino. I giornalisti si sono gettati sulle nuove informazioni, e il 12 novembre Sky News ha pubblicato gli esiti di un’indagine in cui sosteneva di averlo identificato: si sarebbe trattato di Paul Manyasi, 29 anni, un addetto alle pulizie dell’aeroporto. La ragazza di Manyasi, sotto il nome di fantasia di “Irene”, ha dichiarato a Sky News che le iniziali sullo zaino significavano “member of county assembly”, membro dell’assemblea di contea, cioè il nomignolo di Paul. Dal canto suo la madre di Paul ha dichiarato di riconoscere le sue mutande.

Willy Lusige, un giornalista della tv keniana Ktn, è rimasto sbalordito. Come tanti suoi colleghi, aveva seguito la storia da vicino cercando di dare un’identità al passeggero clandestino, ma senza ottenere la minima collaborazione né dalle autorità aeroportuali né dalla polizia. Gli riusciva difficile credere che il caso fosse stato davvero risolto: “La madre ha detto che non gli parlava da molti anni”, ha osservato Orinde. “Ma allora come faceva a riconoscere le sue mutande?”.
Entrambi i giornalisti si sono messi a scavare nell’indagine di Sky. Lusige è risalito ai familiari dell’uomo identificato da Sky come Paul Manyasi, e a quel punto ha capito che qualcosa non quadrava. “Mi aspettavo di trovarli in lutto, dopo aver saputo che il loro parente era morto”, mi ha detto. “Invece quando sono andato a trovarli si sono comportati come se niente fosse”. Il padre del defunto gli ha raccontato che erano venuti certi bianchi e gli avevano dato duecento dollari. “Insomma”, ha concluso Lusige, “c’era stato un passaggio di denaro, e un padre analfabeta era stato convinto a dichiarare che il passeggero clandestino era suo figlio”.
L’indagine di Sky si è sgonfiata. Non risultava da nessuna parte che ci fosse stato un Paul Manyasi tra i dipendenti dell’aeroporto Jomo Kenyatta. Tra l’altro neanche i genitori intervistati da Sky avevano un figlio di nome Paul Manyasi: il loro si chiamava Cedric Shivonje Isaac, e non si capiva proprio da dove fosse saltato fuori il nome Paul Manyasi. E poi c’era un fatto scomodo e non secondario: Isaac non era morto, ma si trovava in carcere a Nairobi. “Quando alcuni giornalisti stranieri arrivano in Kenya per scrivere di qualche vicenda”, osserva Orinde, “le persone si aprono, pensando che nessuno dei loro conoscenti leggerà gli articoli. Non immaginano che in Kenya ci sia qualcuno che va a controllare se le notizie riportate sono vere”. E così il 22 novembre Sky si è dovuta scusare per il reportage.
Orinde è ancora perplesso: “In Kenya non c’è questo desiderio disperato di raggiungere l’occidente con ogni mezzo”, dice. Rispetto a molti altri paesi della regione è relativamente ricco: è la sesta economia dell’Africa per dimensioni. Più pressante, semmai, è il problema dei keniani che migrano nei paesi del Golfo per lavorare e finiscono vittime di abusi.

Alla fine del 2019 i funzionari keniani avevano ormai archiviato le indagini senza che fossero state riscontrate violazioni nell’aeroporto di Nairobi, che ha conservato la classificazione di sicurezza di primo livello. Ma più di un anno dopo è successo qualcosa di strano. Il 4 febbraio 2021 un cargo Airbus A330 della Turkish Airlines è atterrato a Maastricht con un ragazzo keniano di 16 anni nascosto sopra il carrello di atterraggio principale. L’aereo era partito dall’aeroporto Jomo Kenyatta il 3 febbraio e aveva fatto scalo a Istanbul e Londra prima di atterrare nei Paesi Bassi. Il ragazzo era miracolosamente vivo e all’apparenza illeso, tanto che è stato dimesso dall’ospedale dopo appena un giorno.
Agli inquirenti olandesi l’adolescente ha dichiarato di essersi arrampicato sull’aereo e di essersi addormentato. Ha aggiunto che aveva lasciato il Kenya in cerca di una vita migliore. In seguito ha chiesto asilo nei Paesi Bassi. Le autorità aeroportuali di Nairobi non hanno ammesso l’incidente né spiegato come sia stato possibile che i protocolli di sicurezza siano stati violati ancora una volta da un viaggiatore clandestino. I voli dallo Jomo Kenyatta continuano ad atterrare nel Regno Unito.
Il ronzio dei motori
L’identità dell’uomo caduto dal cielo il 30 giugno 2019 è ancora ignota. Tutto ciò che sappiamo, o pensiamo di sapere, sono le ultime cose che potrebbe aver visto e sentito. Il grugnito e il sibilo dell’impianto idraulico all’interno del vano ruote mentre il volo KQ100 attendeva sulla pista. I tonfi dei passi sulle scalette metalliche mentre i passeggeri salivano a bordo. I tonfi dei bagagli gettati nella stiva. L’apparecchio che si allontana dalla piazzola, ruota su se stesso e rulla verso la pista. I segni bianchi che lampeggiano sotto i suoi piedi. Una pausa, e poi il ronzio dei motori Rolls-Royce che aggrediscono l’asfalto a 290 chilometri all’ora. L’aereo prende velocità, il rumore si fa sempre più intenso, è come il sibilo pneumatico di mille trapani da dentista. Il decollo. Una sferzata di vento, un brivido gelido, e su fino a tremila, seimila, diecimila metri. Sempre più freddo. Perdita dei sensi. Incoscienza.
L’uomo è stato sepolto nel cimitero londinese di Lambeth il 26 febbraio 2020. Era una bella mattina, luminosa, tersa e freddissima. Per scaldarmi saltellavo da un piede all’altro, le dita mi tremavano mentre mi abbottonavo il cappotto. Intorno a me quattro operai del municipio di Lambeth, in tuta verde e stivali sporchi di fango, aspettavano di vedere se sarebbe arrivato qualcuno. Accanto a loro era in attesa un tizio con una ruspa, pronto a riempire la fossa di terra. Gli operai commentavano la morte del passeggero clandestino. “Considerando che è caduto da molto in alto”, ha osservato uno di loro, “era in condizioni ragionevolmente buone”. “Ma pensate a quel poveretto”, ha detto un altro. “Stava prendendo il sole e all’improvviso… sbong!”.
Ormai tremavo dal freddo. Mentre si preparavano a calare il corpo nella fossa è apparso un funzionario dell’ambasciata del Kenya in completo nero e scarpe di cuoio, trafelato come chi è oberato di impegni e ha di meglio da fare. Abbiamo scambiato un cenno di saluto con il capo, e poi gli operai si sono fatti avanti. L’atmosfera è cambiata di colpo: dallo scambio di battute a un’efficienza funerea. Gli uomini hanno calato la bara nella fossa e per qualche secondo sono rimasti a capo chino. Sulla bara c’era una targa di metallo che recitava: “Ignoto, morto il 30 giugno 2019, età 30 anni”.
L’orrore della morte del passeggero clandestino del volo Kenya Airways è valso qualche titolo di giornale. Ma ogni settimana molti altri come lui muoiono in circostanze altrettanto orribili: sono chiusi nel vano di carico dei camion e soffocano, cadono da treni merci in movimento, annegano nella Manica. Sono colpiti dai proiettili che le guardie di frontiera sparano dall’altra parte di una rete metallica, restano folgorati nella galleria ferroviaria sotto la Manica, sono picchiati a morte da folle di razzisti inferociti. Restano prigionieri per anni nei centri di detenzione, dove subiscono abusi e violenze. A volte, per disperazione, si danno fuoco. Secondo il progetto Missing migrants, dal 2014 lungo le rotte migratorie globali sono morte almeno 10.134 persone. E probabilmente queste cifre sono solo una piccola frazione del totale. Dopo la sepoltura, il funzionario dell’ambasciata ha girato i tacchi e si è allontanato in fretta. Ho guardato la fossa. Un uomo senza nome giaceva davanti a me in un piccolo appezzamento del sudovest di Londra, in una sepoltura anonima, contrassegnata solo da una semplice croce di legno e da un codice numerico. Ce ne sono tanti come lui. Se ne stanno lì in silenzio, in tombe che nessuno visita, e svaniscono portandosi dietro le loro storie. ◆ ma
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Questo articolo è uscito sul numero 1420 di Internazionale, a pagina 150. Compra questo numero | Abbonati