Quando avevo sette anni e la mia famiglia, esiliata dal Sudafrica, si era trasferita nello Zambia indipendente, la maestra chiese a tutta la classe di condividere una canzone, una filastrocca o un proverbio. Un bambino cantò una canzone in lingua bemba. Un altro si alzò in piedi e si esibì in un ballo che al tempo andava di moda; mi ricordo che fece roteare i fianchi in modo lascivo e tutti ci mettemmo a ridacchiare.
Quando arrivò il mio turno mi alzai davanti a tutti e imposi il silenzio atteggiando il volto a un’espressione seria. Immobile, imbracciai un fucile immaginario, mi accovacciai e cominciai a ondeggiare da una parte all’altra, sibilando tra i denti per intimidire il mio pubblico. Mi buttai a terra, strisciando sul pavimento con il “fucile” attaccato al petto. Poi, a un tratto, balzai in piedi, puntando l’arma verso i miei compagni spaventati. La classe rimase pietrificata a guardarmi mentre mi sollevavo in tutta la mia altezza. Lentamente, abbassai il fucile e strinsi il pugno destro; poi lo sollevai sopra la testa facendo il segno del Black power. Guardando negli occhi il mio pubblico di nemici, cominciai a dare istruzioni ad alta voce.
Era il 1887, a Johannesburg era stato scoperto l’oro. Il giovane fuggiasco diventò un abile ladro e in pochi anni diventò il re di un fiorente mondo criminale
“Ripetete dopo di me”, dissi. “Uccidiamo i coloni!”.
Aspettavo che rispondessero, ma ci fu un po’ di esitazione.
“Uccidiamo i coloni!”, ripetei.
Stavolta ubbidirono. Il mio entusiasmo li aveva contagiati, oppure avevano paura di contravvenire ai miei ordini.
“Uccidiamo i coloni!”, gridarono.
“La terra è nostra!”, urlai.
“La terra è nostra!”, ripeterono in coro.
“Lunga vita allo spirito di Nelson Mandela, lunga vita!”, gridai infine.
I miei compagni si unirono al grido, alzando felici i pugni in aria. Tornai al mio posto accompagnata da applausi fragorosi.
Più tardi la maestra telefonò a mia madre e le raccontò della mia esibizione. Le spiegò che era molto bello che fossi così entusiasta della liberazione del Sudafrica, ma che era preoccupata per l’intensità del mio coinvolgimento.
Mia madre trovò la cosa molto divertente. Mi piacevano i conigli e il pane francese, a scuola non ero mai stata coinvolta in un litigio violento, eppure eccomi lì a minacciare di uccidere i coloni e a rimpadronirmi della terra persa dai miei avi. L’esibizione era fuori dal mio personaggio, ma mia madre sapeva esattamente chi stavo imitando. Sapeva benissimo che stavo emulando la voce di qualcun altro, dando voce a una rabbia che ero troppo giovane per provare.
Come tutti i bambini della nostra comunità di esuli che avevano i genitori iscritti all’African national congress, ogni fine settimana partecipavo alle riunioni dei Giovani pionieri. Per noi era un po’ come andare a scuola la domenica. La politica era la nostra religione e c’inginocchiavamo all’altare di Marx. Imparavamo a memoria slogan politici come i nostri coetanei imparavano gli inni sacri, e pregavamo gli dei del socialismo perché facessero crollare il regime dell’apartheid. Era molto divertente. La nostra insegnante era zia Ruth, una signora russa che aveva sposato un sudafricano. C’insegnava teoria marxista e ci lasciava far finta di essere ginnasti di fama mondiale. Qualche volta, la domenica, lasciava il posto a qualcun altro. Quando avevo sette anni, molti dei nostri insegnanti erano “giovani leoni” o “figli del ’76”, come spesso erano chiamati.
Al tempo delle proteste avevo solo due anni, ma ne avevo sentito gli effetti. Il 16 giugno 1976, ventimila studenti avevano marciato per le strade di Soweto per protestare contro le politiche scolastiche razziste del regime. Mentre i manifestanti si radunavano per prepararsi al comizio, la polizia aprì il fuoco sulla folla, uccidendo 176 studenti e ferendone molti altri nei giorni successivi.
Le proteste si estesero velocemente a tutto il paese, e dopo qualche giorno si parlava del Sudafrica in tutto il mondo. Era stata diffusa la foto di un adolescente che fuggiva dalla polizia con un ragazzo senza vita tra le braccia. Accanto a lui c’era una ragazza con la mano alzata, come a dire “Fermatevi!”. Il morto era Hector Pieterson, 12 anni, prima vittima delle violenze della polizia in quella giornata. La ragazza era sua sorella maggiore Antoinette.
Nel punto in cui hanno sparato a Pieterson oggi c’è un monumento. L’ultima volta che ci sono stata, Antoinette era seduta sui gradini e raccontava ai turisti del giorno in cui fu ucciso suo fratello. Mi ha colpito il fatto che neanche la fine dell’apartheid e l’avvento della democrazia in Sudafrica sono riusciti a liberarla dal peso della storia. Il suo dolore è un loop ininterrotto; la violenza del regime dell’apartheid è ormai per sempre parte della storia della trasformazione del Sudafrica.
Gli eventi del 16 giugno avrebbero segnato una svolta nella lotta per la liberazione del paese. In tutto il mondo, gli attivisti contro l’apartheid denunciavano che uno stato che sparava ai ragazzi non poteva far parte della comunità internazionale. Sul fronte interno, la strage radicalizzò una generazione di giovani sudafricani. Molti di loro mobilitarono le rispettive comunità di appartenenza, che formarono la spina dorsale dello United democratic front (Udf, Fronte democratico unito), una coalizione che a partire dagli anni ottanta avrebbe unito una serie di comitati di strada e associazioni di quartiere impegnate in prima linea nelle proteste.
Un numero consistente di figli del ’76 lasciò il paese ed entrò nell’Anc in esilio, andando a ingrossare le file della nostra piccola comunità a Lusaka. Mentre sempre più studenti e attivisti si univano alla rivoluzione, lo Zambia diventò un luogo in cui i giovani erano selezionati e spediti altrove, o per approfondire le loro conoscenze in Africa o in occidente, oppure per essere addestrati militarmente in Unione Sovietica, nella Repubblica Democratica Tedesca o a Cuba.
Gli attivisti della nuova generazione erano sensibilmente diversi da quelli che erano venuti prima di loro. Mio padre apparteneva a una generazione di poco più anziana. Come molti suoi coetanei, si era convinto a entrare nell’Anc dopo il massacro di Sharpeville del 21 marzo 1960, in cui furono uccisi 69 manifestanti pacifici. All’inizio dell’anno successivo, Nelson Mandela e i suoi compagni presero atto che la violenza dello stato era un fatto inevitabile. Nel suo discorso “Sono pronto a morire”, pronunciato nel 1964 durante il processo che lo avrebbe condannato a ventisette anni di carcere, Mandela disse che era arrivato a questa conclusione: “È irrealistico e sbagliato, per i leader africani, continuare a predicare la pace e la non violenza in un momento in cui il governo risponde alle nostre richieste pacifiche con la forza”.
Come molti suoi coetanei andati in esilio negli anni sessanta per formare l’ala militare dell’Anc, mio padre era un soldato riluttante. Pur riconoscendo l’utilità della violenza, capiva anche che era una maledizione per la democrazia. I figli del ’76, che erano entrati nell’Anc dopo la rivolta di Soweto, non avevano questi scrupoli. La nuova generazione era comprensibilmente attratta dall’efficacia della violenza e dalla sua capacità di provocare shock. I quadri più anziani, che conoscevano il pericolo implicito nel tentativo di costruire una democrazia sulla base di un conflitto violento, erano scettici. Avevano gli occhi rivolti al futuro, e la violenza gli sembrava nella migliore delle ipotesi una strategia a breve termine.
Chi aveva gli occhi rivolti al passato, invece, probabilmente si era accorto che i figli del ’76 avevano molto in comune con i niniviti, un gruppo di gangster neri anticolonialisti attivi nella Johannesburg dei primi del novecento. Come i militanti armati dell’Anc, i niniviti e il loro leader Nongoloza erano capaci di spettacolari atti di violenza e credevano fortemente nell’iniziativa personale. La violenza fu uno strumento potente per entrambi i gruppi. Sia i figli del ’76 sia i gangster dei primi del novecento aspiravano a vivere fuori dalle costrizioni delle leggi e delle norme sociali dell’uomo bianco.
C’erano ovviamente delle differenze. I niniviti erano criminali; i giovani del ’76 erano attivisti politici. Entrambi i gruppi giustificavano la violenza e si consideravano parte di un più ampio movimento di lotta anticolonialista, ma i gangster combattevano solo per se stessi. I giovani dell’Anc, invece, combattevano per quelli che sarebbero venuti dopo. Combattevano perché la mia generazione potesse essere libera.

Tutti e due i gruppi sarebbero rimasti vittime della violenza che predicavano: i niniviti dei primi del novecento e i giovani degli anni settanta si ritrovarono talmente invischiati nel sangue da non poter sfuggire ai suoi effetti psicologici. Molti figli del ’76 si fecero trascinare dalla logica violenta degli anni ottanta, autorizzando, eseguendo in prima persona o difendendo la raccapricciante pratica del necklacing, o “collana”, una forma di giustizia sommaria in cui si appendeva un copertone in fiamme al collo delle sospette spie dell’apartheid. Come è facile immaginare, i casi di disturbo da stress post-traumatico, ansia e depressione tra gli ex attivisti politici della generazione del ’76 furono molto numerosi. Dopo la fine dell’apartheid, i sudafricani hanno capito che il fascino della violenza è ingannevole. Può forzare la mano dei nemici, ma raramente mette le radici per il futuro.
Nongoloza era nato nel 1867 in una piccola fattoria nel territorio coloniale britannico di Natal, con il nome di Mzuzephi Mathebula. Suo padre era un bracciante zulu al servizio di un colono britannico, come migliaia di altri all’epoca. Fin da piccolo Mzuzephi imparò a lavorare la terra e a badare agli animali insieme ai suoi fratelli. Quando fu più grande andò a lavorare in una fattoria vicina.
Un giorno sparì un cavallo. Quando Mzuzephi lo disse al suo datore di lavoro, lui minacciò di trattenergli il costo dal salario sostenendo che fosse colpa sua. Oberato dal lavoro, Mzuzephi sbottò e disse che non capiva come potesse essere considerato responsabile della perdita del cavallo: aveva mille faccende da sbrigare e certo non poteva restare a guardare gli animali che pascolavano. Infuriato, abbandonò la fattoria. Suo fratello provò a convincerlo a tornare al lavoro. Il suo capo avrebbe potuto denunciarlo alla polizia con l’accusa di furto e insolenza.
Ma Mzuzephi era troppo arrabbiato per preoccuparsene. Qualche mese dopo partì per Johannesburg, la nuova città che stava sorgendo nell’interno del paese. Era il 1887, e poco prima che Mzuzephi partisse da Natal, a Johannesburg era stato scoperto l’oro. Il giovane fuggiasco si spogliò della sua identità contadina e diventò un abile ladro. I cavalli erano nel suo destino: cominciò facendo lo stalliere per una banda di rapinatori, che gli insegnarono a derubare i minatori stanchi che tornavano a casa con le tasche piene. Impressionati dalla sua abilità, i capi gli offrirono un posto nella banda. Ma Mzuzephi non fu nemmeno tentato. L’incidente alla fattoria aveva lasciato il segno: non si fidava più dei bianchi. Così decise di unire le forze con gli altri migranti zulu che facevano rapine in città e nei dintorni.
In pochi anni diventò il capo della banda, il re di un fiorente mondo criminale. Si reinventò con il nome di Nongoloza, una parola zulu che significa grosso modo “quello che fulmina con lo sguardo”, e formò una nuova banda con centinaia di membri e una particolare mitologia.
I niniviti prendevano il nome dall’antica città assira di Ninive, descritta nella bibbia come un luogo del peccato. Erano una banda formata solo da maschi, in gran parte omosessuali. Vivevano sulle colline di Johannesburg, dove le donne erano messe al bando. Erano incoraggiati a sposarsi tra di loro e aderivano a un rigido insieme di leggi che gli impediva di lavorare nelle miniere, in un’epoca in cui la manodopera nera africana era a buon mercato e i neri che potevano scegliere liberamente la loro occupazione erano pochi. Gli uomini rispettavano gli editti di un misterioso anziano di nome Po. Molte bande criminali attive oggi in Sudafrica discendono dai niniviti, e nelle carceri circola ancora la leggenda delle origini del gruppo.
La storia narra che agli inizi dell’ottocento – molto prima della scoperta dell’oro e dei diamanti in Sudafrica – Po ebbe una potente visione. Immaginò una grande città dove centinaia di uomini neri erano inghiottiti dalla terra e non facevano più ritorno. Vivevano in condizioni terribili, sfruttati fino alla morte. Quella visione era arrivata nel 1812: cinquant’anni prima che si scoprissero i diamanti e settant’anni prima che si trovasse l’oro nel Witwatersrand. Po aveva viaggiato nel tempo e aveva visto un futuro funesto.
Il vecchio decise di rimanere nel futuro per poter dire ai giovani neri di cercare la loro fortuna in superficie. Voleva fargli capire che se fossero scesi nelle gallerie avrebbero incontrato solo tormenti e una morte quasi certa. Dalla sua caverna, Po reclutò una banda di uomini speciali che avrebbero sfidato le aspettative della società coloniale in cui erano nati. Avrebbero resistito allo sfruttamento e sarebbero stati liberi; avrebbero rubato ciò che gli occorreva anziché prestare volontariamente il loro lavoro, e avrebbero sviluppato la loro lingua e le loro leggi: un codice di condotta che avrebbero fatto rispettare senza ingerenze esterne.
Il primo degli uomini scelti da Po fu Nongoloza. Con il passare del tempo, si dimostrò il suo soldato più duro e inflessibile, quello più capace di diffondere i suoi insegnamenti e consolidare il suo lascito. Sulle colline di Johannesburg, i niniviti diventarono più potenti e numerosi; arrivarono a essere un migliaio di uomini, tutti sotto il comando di Nongoloza. Questo esercito di soldati vendicatori, diceva, era composto da “uomini che mangiano cavalli”.
Dopo essere stato arrestato e incarcerato nel 1900, Nongoloza convinse moltissimi detenuti a unirsi ai niniviti. Appena scarcerati, i nuovi adepti portavano i messaggi e le istruzioni di Nongoloza ai suoi generali all’esterno. Il codice di condotta era fatto rispettare anche in carcere, con punizioni molto severe contro i trasgressori, e a volte anche contro le guardie carcerarie che maltrattavano i detenuti.

Il potere di Nongoloza era tale che nel 1912, durante una conferenza sullo stato delle carceri del paese, le autorità coloniali si soffermarono a discutere specificamente di lui, un detenuto trattato come un re dagli altri prigionieri e apparentemente invulnerabile, perfino dopo essere rimasto ferito da un colpo d’arma da fuoco durante un tentativo di evasione. Dopo la conferenza, il direttore delle carceri del governo coloniale decise di adottare un nuovo metodo: avrebbe sconfitto Nongoloza con la gentilezza. Gli fece assegnare una guardia bianca che parlava zulu, raccomandandogli di non picchiarlo né punirlo: un cambiamento radicale dopo anni d’isolamento e razionamento del cibo. La privazione fu sostituita “dal dialogo, le frustate dall’ascolto”, scrive lo storico Charles van Onselen nella sua biografia di Nongoloza. Avendo “perso l’equilibrio sul terreno morbido della compassione”, Nongoloza decise di mettere fine alla sua guerra contro le autorità carcerarie.
La capitolazione fu clamorosa. Nongoloza rinunciò al suo titolo di re dei niniviti e passò dallo status di detenuto a quello di guardia carceraria. Per i successivi 27 anni, fino al 1940, l’ex prigioniero convertito in secondino rimase all’interno del sistema carcerario. Lo stato coloniale lo aveva piegato? Niente affatto: le autorità non riuscirono mai a domarlo. Nongoloza fu sempre una presenza imprevedibile e instabile; fu un pericolo costante per le altre guardie e non recise mai i suoi legami con il mondo criminale.
Nongoloza continuò a seguire i princìpi di Po. Non lavorò mai sottoterra e amò gli uomini che voleva amare, senza vergognarsene. Lavorò al servizio dei bianchi, ma rimase sostanzialmente libero di fare ciò che voleva. Il prezzo da pagare, però, fu altissimo. Non riuscì mai a svincolarsi dalla violenza, che lo schiacciò costantemente con il suo peso, anche quando, apparentemente, gli permetteva di respirare, e per decenni continuò a essere intrappolato nella più coloniale delle istituzioni del Sudafrica. Eppure, nelle sue espressioni di rabbia e nel suo desiderio di rispondere con pari ferocia alla violenza dello stato coloniale, Nongoloza fu un viaggiatore del tempo proprio come il suo mentore Po. Fu davvero un precursore, l’antenato intellettuale e spirituale dei giovani che avrebbero dominato la scena politica negli anni settanta. È una specie di segno che Nongoloza sia morto nel 1948, l’anno in cui l’apartheid diventò legge.
Dopo la morte di Nongoloza, per cinquant’anni il regime dell’apartheid scatenò una guerra senza quartiere contro il popolo nero. La violenza bianca fu uno strumento fondamentale di questa guerra. L’allontanamento degli africani dalle terre che occupavano da secoli fu una forma di violenza, come il sistema del lavoro dei migranti, che costringeva i maschi neri delle campagne a cercare lavoro nelle grandi città per mantenere la famiglia, o le leggi sui permessi che regolavano la vita di quegli uomini.
Quella dell’apartheid non fu semplicemente una violenza simbolica ed economica. Fu una violenza imposta fisicamente da poliziotti con cani feroci e da soldati armati che pattugliavano le township. Nella vita di tutti i giorni, l’apartheid era praticato con la violenza da cittadini bianchi che picchiavano i loro dipendenti e aggredivano i neri per capriccio.
Inevitabilmente, la violenza bianca scatenò la violenza nera. Dopo il 1976 molti bambini neri non tornarono più a scuola perché il sistema scolastico aveva poco da offrirgli. Sottoistruiti, disoccupati e sfaccendati, passarono alla violenza. Bruciavano le case e punivano coloro che, ai loro occhi, erano collaboratori dell’apartheid. I loro atti occupavano una zona grigia tra attività politica e criminalità.
Intuendo le opportunità politiche create da quello spazio, l’Anc in esilio esortò i neri, in particolare i giovani, a “rendere il Sudafrica ingovernabile”. In un vibrante richiamo all’azione finalizzata a “rispondere al nemico, armi alla mano”, incoraggiò l’insurrezione che stava già montando nelle strade.
Allo stesso tempo l’Anc, attraverso lo United democratic front, ebbe anche un ruolo cruciale nella costruzione di una cultura democratica fondata su grandi iniziative non violente. L’Udf coordinò frequenti “sparizioni” di massa (stayaways) in cui la gente restava a casa, e scioperi bianchi detti go-slows, “vai piano”, in cui i lavoratori rallentavano la produttività facendo fermare l’economia. Boicottò le manifestazioni sportive e pretese una serie d’inchieste sulle morti degli attivisti in carcere. Organizzò funerali di massa che bloccavano le città. Da Stoccolma a Londra fino a Washington, gli attivisti antiapartheid guardavano all’Udf come a un modello di potere del popolo e lo elogiavano come un esempio di democrazia partecipata in azione.
Nel 1990 Nelson Mandela fu finalmente scarcerato e l’Anc tornò a essere legale. Nei quattro anni successivi, quando il partito cominciò a operare liberamente all’interno del paese e gli esuli fecero ritorno, i suoi dirigenti furono costretti a fare i conti con le sue contraddizioni. Per decenni il partito aveva promosso la cultura della responsabilità tra le organizzazioni territoriali che facevano capo all’Udf, ma allo stesso tempo aveva incoraggiato i neri a esprimere la loro rabbia con la violenza. Tutto questo nel nome di un futuro democratico.
Gli attivisti neri furono sia vittime sia accaniti sostenitori della violenza. Da una parte erano uccisi e feriti a centinaia dai poliziotti; dall’altra davano fuoco ai presunti collaboratori dell’apartheid, giustificando le loro azioni nel contesto di una lotta più ampia e della protervia della violenza bianca.
Data la centralità della violenza bianca nell’affermazione dell’apartheid, tuttavia, è importante non patologizzare la violenza nera. Il popolo bianco era profondamente legato alla violenza. Tra il 1967 e il 1993, una generazione di uomini bianchi fu arruolata e mandata al confine nord a uccidere i guerriglieri dell’Angola, del Mozambico e della Namibia. Molti di loro al ritorno soffrirono di disturbo da stress post-traumatico. Nonostante le sue tante vittime, il conflitto cominciato nel 1966 e terminato nel 1989 non è stato mai ufficialmente classificato come una guerra.
Dopo le storiche elezioni del 1994 che consacrarono l’Anc come partito di governo, la speranza era che la violenza finisse. Negli anni immediatamente successivi gli omicidi e gli stupri diminuirono, ma il tasso di criminalità è rimasto elevato. Oggi questi dati hanno ricominciato a salire.
Negli ultimi cinque anni l’economia sudafricana è crollata, la corruzione è esplosa e la disoccupazione e la disuguaglianza sono aumentate. Questo declino ha portato a un risentimento generalizzato, e molti sono convinti che l’Anc abbia tradito i suoi sostenitori.
Nel tentativo di conquistare una nuova generazione di giovani arrabbiati e stufi di promesse non mantenute, l’Anc ha cominciato a usare un linguaggio più militante e populista. Un tempo alfiere della pace e della riconciliazione, il partito oggi si richiama alla sua storia militare, parlando come se la liberazione del paese fosse stata ottenuta con la forza. Mentre le storie degli eroi con il fucile in mano cominciano a prendere il centro della scena, il sacrificio di migliaia di sudafricani neri che hanno usato la strategia della non violenza per resistere all’apartheid viene relegato ai margini. Eppure sono stati questi sforzi, non la minaccia delle armi, a imporre la democrazia.
Noi sudafricani andiamo giustamente orgogliosi della nostra vibrante e rumorosa democrazia. Abbiamo una costituzione meravigliosa, una società civile attiva e dei mezzi d’informazione fieramente indipendenti. Il fatto che queste istituzioni funzionino così bene è il riflesso dei migliori istinti delle donne e degli uomini che hanno reso possibile la nostra democrazia. Durante gli anni dell’apartheid, questi uomini e queste donne hanno fatto studiare i bambini, hanno gestito asili nido e hanno portato gli attivisti ai comizi e alle marce. Perseverando senza cedere alla violenza, hanno creato il modello di quelle che sarebbero state le relazioni sociali dopo l’apartheid. I loro sforzi, spesso passati sotto silenzio, servono a ricordarci che la vittoria non si conquista solo sul campo di battaglia.
Sono cresciuta nella convinzione che, nel contesto di una guerra giusta, il fine giustifichi i mezzi, che gli oppressi hanno il diritto di rispondere alla violenza degli oppressori con le loro forme di violenza.
Con il tempo ho cominciato a mettere in dubbio questa convinzione. Se paragono Nongoloza e i niniviti all’Anc e ai giovani del ’76 è perché voglio capire la differenza tra la violenza di chi combatte per la libertà e la violenza dei criminali in un contesto anticolonialista. È possibile fare il tifo per una banda di gangster africani dell’ottocento, oppressi dalle leggi e dai sistemi coloniali, come facciamo il tifo per i rivoluzionari del novecento che hanno combattuto l’apartheid? La violenza dei niniviti conteneva le stesse possibilità radicali di cambiamento sociale? Se il popolo lo avesse seguito, Nongoloza sarebbe diventato il leader di una rivoluzione anziché il capo di una banda di fuorilegge? Le differenze sono molte, ma alla fine si riducono a questo: Nongoloza era permeato dalla violenza e ne sarebbe rimasto annientato, mentre i giovani che m’insegnavano a gridare “Uccidiamo i coloni!” mentre mi aiutavano premurosamente ad allacciarmi le scarpe sapevano usare la violenza, ma non ne erano definiti.
Con tutti i suoi difetti, l’Anc non ha mai abbandonato la prassi democratica, neanche negli anni in cui predicava l’insurrezione violenta. È sempre stato pronto a usare la violenza, ma non si è mai identificato nell’intenzione di provocare dolore. Il partito non avrebbe mai potuto essere l’intermediario del patto democratico che portò alla fine dell’apartheid se i costituenti lo avessero percepito solo come un’organizzazione violenta.
Eppure, i mezzi che l’Anc ha usato per ottenere la libertà hanno provocato dolore. Troppi neri sono morti dopo il 1976, e troppi sono rimasti congelati nel tempo: non più giovani, per sempre “figli” del 1976. Hanno combattuto come hanno potuto, ma i loro traumi – come quelli del loro imperfetto progenitore Nongoloza – li hanno consumati.
La rinuncia alla violenza ha sicuramente una giustificazione morale, ma ancora più evidenti sono i suoi limiti tattici: l’apparente istantaneità della violenza – la sua capacità di ottenere subito un risultato – compromette qualsiasi strategia e qualsiasi impegno verso una trasformazione democratica a lungo termine. In Sudafrica, chi ha versato sangue ha avuto difficoltà a godere della libertà. Spero che la nuova generazione riesca a capire che la vera liberazione può essere afferrata solo da chi ha le mani pulite. ◆ fas
Sisonke Msimang è una scrittrice sudafricana. Questo articolo è uscito su Lapham’s Quarterly con il titolo Nongoloza’s ghost.
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Questo articolo è uscito sul numero 1415 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati