Due eventi hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica alla fine di giugno: il colpo di stato militare fallito in Russia e le violente proteste in Francia. I mezzi d’informazione occidentali si sono occupati molto delle due vicende, ma è passata inosservata una caratteristica comune a entrambe.
Partiamo dalle proteste francesi. Dopo che un ragazzo di 17 anni, Nahel M., è stato ucciso da un agente di polizia la mattina del 27 giugno, nel paese è esploso il caos e le proteste iniziali si sono tramutate in saccheggi e incendi. I rivoltosi hanno alzato barricate e lanciato fuochi d’artificio contro la polizia, che ha risposto con gas lacrimogeni, cannoni ad acqua e granate stordenti. Tuttavia gli eventi hanno preso una piega più angosciante quando la polizia ha cominciato a reagire come un protagonista autonomo, rappresentando un pericolo anche per il governo: ha dichiarato di essere “in guerra” contro “orde selvagge” e due dei principali sindacati degli agenti hanno minacciato di ribellarsi se il presidente Emmanuel Macron non fosse intervenuto.
Le proteste di piazza e le rivolte possono svolgere un ruolo positivo se sostenute da un progetto di emancipazione
Queste dichiarazioni hanno mostrato una crepa nella struttura del potere statale: in reazione alle proteste popolari, i poliziotti che difendono la linea dura minacciano di agire autonomamente contro il potere dello stato. La prevedibile versione della sinistra, naturalmente, è che la polizia francese è razzista (l’uccisione di Nahel M. è stata totalmente ingiustificata), che l’uguaglianza in Francia è fasulla, che i giovani immigrati protestano perché non vedono alcun futuro davanti a sé: quindi il modo per risolvere questo problema non è aumentare la repressione ma cambiare radicalmente la società ed eliminare il razzismo. La collera sotterranea si è accumulata per anni e la morte di Nahel M. l’ha solo fatta esplodere: le proteste violente sono una reazione disperata a un problema, non il problema, e questo deve essere risolto alla radice.
C’è una profonda verità in questo modo di vedere la cosa: quando la prima ondata di proteste esplose nel 2015, le analisi fecero emergere una fitta rete di pregiudizi verso i giovani immigrati. Ci furono delle proposte dettagliate e realistiche su come migliorare la situazione, ma non se ne fece nulla. Eppure questa analisi sembra troppo semplice e presenta vari problemi. Il fatto che i manifestanti abbiano preso di mira gli autobus locali, mezzi usati dai lavoratori provenienti dalle periferie di Parigi, indica due cose: le rivolte puntano a distruggere le infrastrutture su cui si basa la vita quotidiana della gente comune, e a rimetterci sono i poveri, non i ricchi.
Le rivolte possono sicuramente svolgere un ruolo positivo se sostenute da un progetto di emancipazione. Basti ricordare il movimento Maidan in Ucraina (un’autentica esplosione sociale, altro che complotto organizzato dalla Cia) e le proteste iraniane ancora in corso, scatenate dall’uccisione di una donna curda che aveva indossato l’hijab “in modo inappropriato”.
Anche minacciare azioni violente a volte è necessario: ai mezzi d’informazione piace citare come due soluzioni negoziali di successo l’ascesa al potere dell’Anc in Sudafrica e le proteste pacifiche guidate da Martin Luther King negli Stati Uniti. In entrambi i casi è ovvio che la (relativa) vittoria fu ottenuta perché le classi dirigenti temevano la resistenza violenta (dell’ala più radicale dell’Anc e dei neri statunitensi). In Francia però la situazione è diversa: se l’ordine non sarà ripristinato, l’esito finale potrebbe essere l’elezione di Marine Le Pen alla presidenza.
Dovremmo aggiungere ai compiti della sinistra l’interesse per la sicurezza delle persone comuni: ci sono segnali di una crisi dei comportamenti pubblici
In Russia, dove l’equivalente di Le Pen è già al potere, è difficile non cogliere la natura comica della marcia verso Mosca di Evgenij Prigožin. È finita nel giro di 36 ore, e si è conclusa con un accordo: il capo della milizia privata Wagner si è evitato un processo, ma ha dovuto ritirare le sue truppe dall’Ucraina e andare in Bielorussia. Non sappiamo abbastanza per dire cosa sia successo in realtà: la sua marcia era davvero un attacco in piena regola con l’obiettivo di occupare il Cremlino, oppure era una minaccia, un’azione che doveva rimanere incompiuta, come lo stesso Prigožin ha poi confermato (“Abbiamo ritenuto che dimostrare cosa potevamo fare fosse sufficiente”)?
Allora chi è il peggiore qui? Bisogna ripetere ancora una volta la risposta data da Stalin alla fine degli anni venti alla domanda di un giornalista su quale deviazione fosse la peggiore, quella di destra o quella di sinistra: entrambe. Gli eccessi di brutalità di Prigožin non fanno di Putin una persona più ragionevole che cerca di contenere gli estremisti militari. Il capo della Wagner ha ammesso che gli ucraini combattono bene e che Zelensky è un buon leader. Ha ragione ad accusare l’esercito e l’élite russa di corruzione e inefficienza, quindi non c’è da meravigliarsi che sia stato acclamato a Rostov.
Dunque qual è la differenza tra i due? Per trovare un parallelo, dobbiamo tornare al nazismo: Prigožin contro Putin è come le Sa contro le Ss. Le Sa (Sturmabteilung, truppe d’assalto) erano composte da brutali e “onesti” nazisti, perciò Hitler dovette sacrificarli per essere accettato dall’establishment dell’esercito e dal grande capitale. Allo stesso modo, Putin deve trovare un equilibrio tra le diverse fazioni delle élite interne al potere: un processo che si svolge totalmente al di fuori dello spazio pubblico. Il fatto che lo stato russo abbia avuto bisogno di un esercito privato come la milizia Wagner è di per sé un chiaro segnale di uno stato fallito.
Questo caos c’insegna che gli stati falliti non si trovano solo nel cosiddetto terzo mondo, dalla Somalia al Pakistan, con il Sudafrica che si avvicina a questo abisso. Se misuriamo uno stato fallito dalle crepe nella struttura del potere, dall’atmosfera di guerra civile ideologica e dall’insicurezza degli spazi pubblici, dovremmo aggiungere alla lista Russia, Francia e Stati Uniti (con la decadenza dei centri cittadini, si pensi a San Francisco) e con i segnali di un degrado simile nel Regno Unito (dove le bande criminali minacciano gli spazi pubblici nelle periferie di Londra). In questa situazione la sinistra deve trovare il coraggio di fare proprio lo slogan dell’ordine pubblico.
Uno dei fatti più deprimenti della storia recente è che l’unico caso di una folla rivoluzionaria violenta che ha invaso i luoghi del potere è avvenuto il 6 gennaio 2021, quando i sostenitori di Donald Trump hanno fatto irruzione nel campidoglio di Washington. Consideravano illegittime le elezioni, un furto organizzato dalle élite economiche (e avevano ragione in un certo senso). I progressisti di sinistra hanno reagito con un misto di fascino e orrore. Alcuni dei miei amici di sinistra piangevano dicendo: “Dovremmo essere noi a fare una cosa simile!”. C’era un po’ d’invidia nella loro condanna di quelle persone “comuni” che facevano irruzione nel sacro centro del potere.
Questo significa che la destra populista ha sottratto alla sinistra lo strumento della resistenza al sistema attraverso un attacco alla sede del potere? La nostra unica scelta è tra elezioni parlamentari controllate da élite corrotte o rivolte controllate dalla destra populista? Non c’è da stupirsi se Steve Bannon, l’ideologo della nuova destra populista, si dichiara un “leninista del ventunesimo secolo”: “Io sono un leninista. Lenin voleva distruggere lo stato, e questo è anche il mio obiettivo. Voglio far crollare tutto e spodestare la classe dirigente oggi al potere”. E non c’è da stupirsi se la destra populista è stata entusiasta della rivolta, mentre la sinistra si è comportata come i conservatori, chiedendosi: “Dov’è la polizia, dov’è la guardia nazionale per fermare la ribellione?”. Anche se, ovviamente, questa non è la risposta giusta, ci sono momenti in cui la scelta è necessaria.
Perciò dovremmo aggiungere ai compiti della sinistra l’interesse per la sicurezza della vita quotidiana delle persone comuni: ci sono chiari segnali di una crisi dei comportamenti pubblici, di bande di giovani che terrorizzano i luoghi pubblici, dalle stazioni degli autobus e dei treni ai centri commerciali.
Il semplice parlare di questa decadenza è spesso liquidato come un’ossessione della destra contro i migranti, e la reazione standard è che bisogna guardare alle “radici sociali profonde” di questi fenomeni (disoccupazione, razzismo). Ma, se agiamo in questo modo, concediamo al nemico il dominio sull’insoddisfazione che spinge molti a destra. La mancanza di sicurezza colpisce i poveri molto di più dei ricchi, che vivono tranquilli nei loro complessi residenziali privati. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1519 di Internazionale, a pagina 35. Compra questo numero | Abbonati