In un programma televisivo che parla di un grande evento politico, a volte le reazioni del pubblico possono essere più illuminanti della notizia. L’ultima volta che ho avuto un’esperienza simile è stata quando ho visto un’intervista di Sky News all’ambasciatore tedesco nel Regno Unito, alcuni giorni dopo le elezioni locali in Turingia e in Sassonia, nella Germania orientale. Quello che mi ha affascinato sono stati i commenti degli spettatori, che comparivano sul teleschermo: in sostanza, considerano antidemocratico il cosiddetto firewall che vieta agli altri partiti di allearsi con il movimento populista di destra Alternative für Deutschland (Afd).
Un’accusa semplice, ma a cui è difficile rispondere senza cedere a ridicole tesi su quanto siano manipolate delle cosiddette persone comuni. Ecco un’altra reazione tipica di un telespettatore, che cerca una risposta provvisoria: “Per ridurre il sostegno elettorale ai partiti di destra, basta affrontare i loro timori. Meno migrazioni di massa di lavoratori non qualificati, meno migranti economici e richiedenti asilo, meno ideologia woke, e magari un po’ meno collettivismo/comunismo”.
Quando la destra populista ottiene milioni di voti, la reazione tipica è paternalistica: le persone comuni sono stupide, non riconoscono il vero colpevole dei loro guai
Non c’è niente di semplice in queste preoccupazioni. Oggi la migrazione di massa di lavoratori con basse qualifiche mantiene in vita le economie dell’Europa occidentale: nel Regno Unito, in Italia o in Germania la maggior parte dei lavori manuali che richiedono qualifiche particolari, così come quelli di cura degli anziani e dei malati, sono svolti da immigrati. Se venissero buttati fuori, l’intera economia collasserebbe. Non c’è da meravigliarsi che qualcuno ritenga un dato positivo l’attrattiva esercitata dal Regno Unito sui migranti: così la carenza di manodopera si farà sentire molto meno che in altri paesi dell’Europa occidentale. Ma che questa presa di posizione capitalistica sia scambiata per un’espressione di comunismo è un triste segnale del punto a cui siamo arrivati. È una confusione chiaramente rintracciabile in un’altra reazione: “La gente è stanca del dominio dell’estrema sinistra”. Un’assurdità bella e buona. I sostenitori dell’Afd protestano dichiarando di non essere di estrema destra, ma fanno lo stesso errore quando definiscono “di estrema sinistra” l’ordine liberale finora dominante. No, quest’ordine non è di estrema sinistra, è semplicemente un centro liberal-progressista molto più interessato a combattere la sinistra (o quel che ne rimane) che la nuova destra. Se quello che abbiamo oggi in occidente fosse “il dominio dell’estrema sinistra”, allora la presidente dell’Unione europea Ursula von der Leyen sarebbe una comunista marxista (come peraltro sostiene il premier ungherese Viktor Orbán!).
Inoltre, quando la destra populista ottiene milioni di voti la reazione tipica degli sconfitti (“dobbiamo affrontare le preoccupazioni della gente”) è arrogante e paternalistica: le persone comuni sono stupide, non riconoscono il vero colpevole dei loro guai, perciò spetta a noi spiegargli chi è il vero cattivo, non gli immigrati ma il capitalismo globale. Questa teoria della sostituzione (sostituire “l’altra razza” con “capitale globale”) non funziona, è profondamente stupida. Le cosiddette persone comuni sanno bene che dietro gli immigrati c’è il grande capitale (i nuovi populisti strumentalizzano continuamente questo fatto), però percepiscono la minaccia dell’immigrazione al loro stile di vita come una realtà tangibile, e questo scatena una dinamica razzista. Non basta sentirsi dire dalla sinistra “affronteremo il problema alla radice”: queste persone vogliono che il problema sia risolto nella loro esperienza quotidiana. L’unico modo, quindi, è prendere sul serio quel malessere anche esplorando a fondo il razzismo, e metterne in evidenza la natura contraddittoria. Per dirla in termini semplici, quello che un razzista percepisce come un ostacolo alla sua identità, a una realizzazione indisturbata di sé, è in realtà la condizione stessa della sua identità: per affermarsi, un razzista ha bisogno che l’Altro sia una minaccia. Altrimenti si sgretolerebbe. In fin dei conti l’Altro come minaccia serve a offuscare la propria crisi e decadenza.
Un’altra reazione in difesa dell’Afd è questa: “È la legge islamica della sharia a essere di estrema destra, non l’Afd”. La nostra risposta dovrebbe essere: sono d’accordo con la prima parte, ma non con la seconda. Non deve esserci alcun tabù nella nostra analisi critica dell’islam: dobbiamo violare sfacciatamente il tacito divieto imposto da molte persone di sinistra che equipara un’analisi critica dell’islam all’islamofobia. È un dato di fatto che la separazione tra potere statale e religione, “date a Cesare quel che è di Cesare”, è profondamente radicata nel cristianesimo (anche se è stata sistematicamente violata), mentre nell’islam questa separazione di principio non esiste. L’ayatollah Khomeini ha proclamato compiutamente l’unità tra islam e politica affermando: “La religione dell’islam è una religione politica, una religione in cui tutto è politico, non solo gli atti di devozione e di culto”. Ecco la sua formulazione più concisa: “L’islam è politica o non è”.
Per questo motivo Khomeini è stato celebrato come l’artefice di una “decolonizzazione della politica”, intesa come capacità di creare e consolidare i rapporti sociali. In Iran la cosiddetta rivoluzione khomeinista è stata un caso straordinario di travolgente partecipazione politica di massa, un momento in cui si ricreavano la società e l’intera trama dei legami sociali. La celebrata decolonizzazione della politica è stata in effetti un atto politico, ma ha stabilito la piena unità tra politica e religione ed è per questo che è un ostacolo insormontabile a qualunque idea di politica laica.
Lo scrittore e attivista croato Boris Buden contesta l’idea che questi fenomeni siano una regressione causata dal fallimento della modernizzazione. Secondo Buden l’affermarsi della religione come forza politica è un effetto della disintegrazione postpolitica della società, della dissoluzione dei meccanismi tradizionali che garantivano la stabilità dei legami comunitari: il fondamentalismo religioso non solo è politico, è la politica a tutti gli effetti. Non è più un semplice fenomeno sociale, ma riguarda la struttura stessa della società: in un certo senso è la società stessa che diventa un fenomeno religioso. Dunque non è più possibile distinguere l’aspetto puramente spirituale della religione dalla sua politicizzazione: in un universo postpolitico la religione è lo spazio politico in cui riemergono le passioni antagonistiche. Quello che si è materializzato in tempi recenti sotto forma di fondamentalismo religioso non è il ritorno della religione in politica, ma semplicemente il ritorno della politica. La vera domanda è: perché la politica nel suo senso laico radicale, che è la grande conquista della modernità europea, ha perso la sua forza? Perché questa posizione radicale è sempre più spesso sostituita dallo spirito dei compromessi pragmatici.
Ecco un’altra reazione: “Quando un partito di estrema destra non ha la maggioranza assoluta, una coalizione è lo strumento ideale per farlo venire allo scoperto. Se partecipasse al governo di uno stato federale diventerebbe evidente che non ha soluzioni ai problemi. E a livello locale si possono fare meno danni che a livello nazionale”.
Ma l’esperienza della presidenza Trump negli Stati Uniti dimostra che questa strategia è molto pericolosa: invece di addomesticare l’estrema destra, apre uno spazio per la sua graduale radicalizzazione. Perciò preferisco di gran lunga la formulazione onesta e diretta di un altro spettatore del dibattito televisivo, secondo cui abbiamo bisogno di un nuovo apartheid razzista: “L’unico destino per questa nazione una volta grande, la Germania, è diventare il Sudafrica d’Europa”. Ma la mia reazione preferita è questa: “È un vero peccato che l’Alleanza Sahra Wagenknecht (Bsw) non possa collaborare con l’Afd in Sassonia. Vogliono tutti e due la pace e meno immigrazione” (attenzione: quando dicono pace, queste persone intendono negare gli aiuti all’Ucraina). Sembra logico (e lo è): sarebbe una coalizione tra le forze che s’interessano davvero a ciò che preoccupa la gente.
Qui dobbiamo evidenziare una differenza tra la Germania e la Francia. In Francia i tre campi tra loro (per ora) incompatibili, cioè nuova destra populista, centro liberale e sinistra, sono chiaramente distinguibili. Invece in Germania le linee di demarcazione sono labili: l’antica distinzione destra-sinistra con tutte le sue sfumature di significato è stata sostituita da una serie di nuove contrapposizioni (favorevoli o contrari all’immigrazione, pro o contro l’ideologia woke), così che oggi ci troviamo con una nuova mappa politica.
All’interno di questo nuovo spazio, cose che fino a pochi mesi fa erano inimmaginabili oggi sono prese seriamente in considerazione. Per esempio, alcune forze all’interno dei cristianodemocratici stanno valutando una coalizione larga che includa Die Linke per impedire all’Afd di entrare a far parte del governo. In una logica ostile all’immigrazione, la formula ideale sarebbe l’opposto, una grande coalizione tra l’Afd e la Bsw, perché da questo punto di vista quello di Wagenknecht è un partito di sinistra che ha fatto esattamente ciò che chiede il fronte anti-immigrati: ha preso molto sul serio le preoccupazioni della gente comune. Ora, con il suo successo elettorale, abbiamo una frattura nel campo della lotta all’immigrazione: la coalizione tra i due schieramenti è (almeno per il momento) impossibile.
L’Afd e la Bsw hanno in comune il fatto di astenersi dalle volgarità di Trump: anche se l’Afd ogni tanto scivola in un razzismo esplicito, entrambi i partiti parlano un linguaggio moderato e “civile”. Da un po’ perfino la sinistra radicale sta cercando di normalizzarsi: ai margini dello spettro politico c’è una nuova tendenza, qualcosa che potremmo definire “estrema sinistra moderata”.
Estrema, perché infrange il muro che ha caratterizzato la sinistra occidentale del secondo dopoguerra, cioè riabilita il socialismo reale, compresi Stalin e Mao. Ma invece di farlo nel linguaggio esaltato dello stalinismo, usa la moderazione e il realismo pragmatico, non dogmatico: non si tratta tanto di una riabilitazione dello stalinismo e del maoismo, quanto di una normalizzazione. Lo stalinismo, dal suo punto di vista, va considerato come una delle fasi del complesso sviluppo del socialismo: è vero, ha avuto i suoi eccessi, ma ha realizzato anche grandi conquiste e comprensibilmente si è sviluppato in reazione al boicottaggio e alla pressione degli altri paesi. Dopo aver preso il potere, i rivoluzionari hanno dovuto accettare di trovarsi in un mondo reale in cui, per sopravvivere, bisognava organizzare una polizia segreta e altre forme di oppressione. Analogamente, i terribili eccessi delle rivoluzioni cinesi (come le decine di migliaia di morti nel corso del “grande balzo in avanti” alla fine degli anni cinquanta) sono considerati dei momenti nel graduale e contraddittorio sviluppo del socialismo, con un’oscillazione tra i due estremi: terrore rivoluzionario da un lato e parziale ritorno all’economia capitalista dall’altro.
È facile riconoscere in questa normalizzazione un’immagine speculare dei tentativi della destra di normalizzare il fascismo situandolo nel suo contesto storico.
Un primo passo necessario per fare chiarezza in questa confusione è problematizzare la democrazia (almeno nel significato attribuito oggi a questo termine): bisogna avere il coraggio di contestare la semplice spiegazione secondo cui quello che manca oggi è la mobilitazione delle persone, una vera democrazia sostenuta dalla partecipazione popolare. Se le recenti proteste populiste di destra hanno qualcosa da insegnarci, è che è arrivato il momento di capovolgere la famosa frase di Abraham Lincoln: “Potete ingannare tutti per qualche tempo e qualcuno per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre”. La versione di oggi dovrebbe essere: la maggior parte delle persone può evitare di farsi ingannare per qualche tempo, e qualcuno può evitarlo sempre. Ma la maggioranza non riuscirà mai a evitarlo.
Un’autentica partecipazione emancipatoria delle persone è un evento raro e si disintegra alla svelta. Non stiamo parlando solo della democrazia occidentale: all’epoca della rivoluzione culturale Mao Zedong inviò migliaia di intellettuali nelle comuni agricole perché imparassero dai semplici contadini, che elevò a “presenti depositari del sapere”. Qualcuno dirà che è stato un bene costringere gli intellettuali a familiarizzare con la vita reale delle campagne, ma sicuramente questo non gli ha dato una più profonda comprensione della società. Oggi non esiste nessun gruppo privilegiato che possa dire di averla.
Per essere più precisi, la maggioranza non si fa ingannare, semplicemente si disinteressa. Il suo problema principale è assicurarsi che la relativa stabilità della sua vita quotidiana non sia disturbata. La maggior parte delle persone non desidera una vera democrazia in cui essere chiamata realmente a decidere: vuole una parvenza di democrazia in cui poter votare liberamente, ma con un’autorità superiore di cui si fida che la metta di fronte a una scelta indicando chi votare. Quando non ricevono imbeccate così chiare, le persone si confondono e la situazione in cui gli tocca davvero prendere una decisione è vissuta come una crisi della democrazia, una minaccia alla stabilità del sistema. Tuttavia, quando la cosiddetta maggioranza silenziosa comincia a interessarsi, quando le persone si sentono vittime ed esplodono di vera collera, le cose peggiorano molto. Come dimostra ampiamente l’attuale ondata di populismo di destra, la gente si espone ancora di più alla manipolazione, cadendo in balia delle teorie del complotto.
Nella confusione di oggi quel che manca davvero non è un’unità più vasta ma il suo esatto contrario. Il filosofo Alain Badiou aveva ragione quando diceva che le vere idee sono quelle che ci permettono di tracciare una linea di demarcazione significativa che definisca qual è il vero oggetto di una battaglia politica. E parole come libertà, democrazia, solidarietà e giustizia non sono più in grado di farlo. La democrazia è usata per giustificare il neocolonialismo. La libertà è spesso un pretesto per opporsi alla sanità pubblica (limita la nostra libertà di scelta) o all’istruzione pubblica universale. Giustizia può anche significare che “ciascuno dovrebbe agire secondo il suo posto nella gerarchia sociale”. Per affrontare le grandi sfide di oggi è fondamentale imparare a tracciare le giuste linee di demarcazione. Il vecchio motto “Uniti siamo forti, divisi cadiamo” dovrebbe essere rovesciato: divisi siamo forti, uniti cadiamo. ◆ fdl
Slavoj Žižek è un filosofo e studioso di psicoanalisi sloveno. Il suo ultimo libro pubblicato in italiano è Ucraina, Palestina e altri guai (Ponte alle Grazie 2024). Il titolo originale di questo articolo è “Divided we stand, united we fall!”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1582 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati