Nilüfer Yanya è sempre stata una cantautrice intrigante. Nel suo album di debutto, Miss Universe, le canzoni erano collegate tra loro da note vocali ispirate a Black mirror. Nel seguito, Painless, Yanya attingeva a influenze più estreme (come le t.A.T.u.) e le fondeva con l’oscurità dei Nirvana e il post-punk dei Bloc Party. Il suo terzo album, My method actor, distilla ancora una volta la creatività dell’artista londinese con ritmi incalzanti, riff di chitarra nervosi, sferzate di grunge e melodie vocali ascendenti che accompagnano testi meditativi. Il pop euforico degli esordi un po’ manca, ma queste canzoni sembrano scritte con una messa a fuoco maniacale e ogni parte strumentale ha uno scopo. A volte le scelte sono troppo ponderate (la sonnolenta Made out of memory potrebbe essere meglio), ma nella maggior parte dei casi vince la pura forza della scrittura. In realtà ci sono anche dei momenti orecchiabili, come il breve e dolce pezzo d’apertura Keep on dancing e la sfacciata Like I say (I runaway). Quest’ultima è una riflessione sull’inevitabile passaggio del tempo, con Yanya che canta: “Nel momento in cui non ho il controllo mi sto lacerando dentro”. Call it love, invece, è una riflessione sulle complicate dinamiche delle relazioni umane. My method actor racconta le sofferenze crescenti dopo i vent’anni, ed è una raccolta di brani spontanei e innovativi che rafforzano la reputazione di Nilüfer Yanya come cantautrice.
Hannah Mylrea, Nme
Nel corso della sua carriera da solista, cominciata nel 1998, Graham Coxon non ha mai fatto passi falsi. Anche se non gode del successo e dell’attenzione dell’altro Blur Damon Albarn, il suo lavoro è sempre stato superlativo. E i primi due album realizzati nel duo The Waeve, con Rose Elinor Dougall, dimostrano che di buone idee ne ha ancora. Il debutto dell’anno scorso aveva creato una certa attesa per il seguito, che finalmente è arrivato. I due lavori hanno molto in comune ma in City lights emerge un gruppo deciso a liberarsi: è più rumoroso, più oscuro, più audace; il suono pesca dal post-punk e dalla new wave. Coxon usa ancora il sax ma in maniera più disinvolta, senza seguire rigidamente la melodia, mentre le sue chitarre sono spinose, aspre, e in generale l’album si regge su linee di basso così cupe da sembrare predatorie. Rispetto al disco precedente gli arrangiamenti sono più densi e questo non funziona sempre, perché sarebbe stato meglio calcare di meno la mano su alcuni pezzi. Tuttavia l’alchimia tra Coxon e Dougall è intatta come la capacità di scrivere canzoni imprevedibili e non convenzionali.
Stephen Dean, Northern Transmissions
Domenico Cimarosa (1749-1801) compose L’Olimpiade nel 1784 per l’inaugurazione del teatro Eretenio di Vicenza. Il libretto era stato scritto da Metastasio nel 1733, ma mezzo secolo più tardi il gusto era cambiato. Nel 1781 era uscito l’Idomeneo di Mozart, però purtroppo a Cimarosa mancava l’arte di trasformare le emozioni in musica, che invece il suo giovane rivale padroneggiava. L’Olimpiade offre comunque tutto lo sfoggio di virtuosismo che ci si aspetta da un’opera seria. Alla guida della sua dinamicissima orchestra, Christophe Rousset prende in mano con coraggio la partitura, per la quale ha riunito un cast ideale. Le cantanti dei due ruoli principali sono spagnole: il mezzosoprano Maite Beaumont ricrea i fasti del castrato Marchesi, mentre il soprano Rocío Pérez è incredibile nei vocalizzi delle arie di Aristea. Il duetto che le riunisce alla fine è un momento meraviglioso. Tra i tenori, Josh Lovell domina con brio un’aria che per difficoltà ricorda quella dell’Idomeneo mozartiano.
Laurent Bury, Classica
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