Un crimine è un reato particolarmente grave, e quello che sta succedendo sulle coste dell’Islanda non può certo essere definito come tale: non è stata violata alcuna legge e la giustizia non è stata chiamata a intervenire. Ma se non è un crimine, allora di che parliamo quando degli esseri viventi vengono mutilati, chiusi in gabbia e mangiati vivi dai parassiti?
Al telefono, Daníel Jakobsson ha detto che ne parleremo. Jakobsson è una sorta di portavoce dell’industria del salmone islandese. Ma siccome questa carica ufficialmente non esiste, lui preferisce definirsi “figlio di un prete”.
Nella galassia dell’industria del salmone, un tempo l’Islanda era solo un puntino, un paese di pescatori che da sempre affrontavano il mare tempestoso sulle loro barche e che nei romanzi venivano dipinti come audaci eroi dell’oceano. Ma le cose sono drasticamente cambiate negli ultimi anni, da quando il paese è entrato nel commercio globale del salmone: all’improvviso, questo remoto stato insulare ha cominciato ad attirare imprenditori come Daníel Jakobsson.
Per raggiungerlo ci vuole un po’: saliamo in auto a Reykjavík, la capitale, e guidiamo per sei ore in direzione nord, verso la penisola di Vestfirðir. Superiamo distese di pietra lavica ricoperta di muschio, piccole cascate, pecore incuriosite a bordo strada e cavalli islandesi che sonnecchiano nei loro recinti. Attraversiamo vasti altopiani e strette gole, banchi di nebbia e piogge sferzanti. Fuori ci sono nove gradi: una normale giornata di settembre. A volte passa anche mezz’ora prima di vedere un’altra auto comparire all’orizzonte. E poi ecco il primo fiordo, acque blu scuro e dimensioni imponenti. Sulla riva starnazzano le oche. Nulla sembra indicare che qualcuno stia facendo violenza all’ambiente. Eppure qui si gioca la battaglia che deciderà se i salmoni selvaggi, simbolo di una natura indomabile, possono ancora sopravvivere, o se il mondo artificiale dei pesci d’allevamento finirà per distruggere quello dei loro parenti liberi.
Man mano che ci si avvicina a Ísafjörður, uno dei centri nevralgici dell’industria del salmone, si vedono sempre più spesso grandi anelli nei fiordi. A volte sono due, uno accanto all’altro, poi otto disposti in una strana formazione. Potrebbero sembrare installazioni artistiche, invece sono gabbie per salmoni d’allevamento. Possono essercene fino a duecentomila esemplari in ogni anello. Presto i loro filetti rosa finiranno nei ristoranti di tutto il mondo, dal Giappone agli Stati Uniti alla Germania.
Parenti lontani
Nel piccolo paese di Ísafjörður, Daníel Jakobsson, 51 anni, apre sorridendo la porta del suo ufficio. Si presenta come head of business development: in poche parole è lui che nell’azienda Arctic fish, la numero due dell’industria del salmone islandese, si occupa di tutto quello da cui si possono trarre profitti. Una volta Jakobsson era il sindaco di Ísafjörður e si batteva per l’industria del pesce. Oggi, da manager del salmone, si batte invece per la sua cittadina. Qui la politica sembra un prolungamento del settore ittico.
“L’Islanda ha bisogno di industrie in crescita”, spiega Jakobsson accendendo due schermi nella sala riunioni. “Noi siamo esperti di pesce, non parliamo d’altro. Le risorse del mare sono limitate, per questo ci siamo dati all’allevamento”. Aggiunge che la sua azienda produce diecimila tonnellate di salmone all’anno e che il potenziale di crescita è ancora grande.
Oggi l’Islanda produce dieci volte più salmone d’allevamento che nel 2014. In Norvegia, leader mondiale del mercato, nei fiordi ci sono talmente tante gabbie piene di pesci che servono nuovi spazi, all’estero. Ed è qui che entra in gioco l’Islanda. Nei prossimi anni Jakobsson punta a raddoppiare la quantità di salmoni nelle sue gabbie, arrivando a ventimila tonnellate. Tutto si muove nella stessa direzione.
Ma quando Jakobsson ci parla del personale che si occupa dei pesci, i numeri calano drasticamente. Qui un ufficio con 15 dipendenti, lì un equipaggio di tre persone – 125 lavoratori in totale. Molti processi sono automatizzati. Il numero di posti di lavoro creati è sorprendentemente basso, visto che queste aziende totalizzano profitti tali che i loro manager sono tra i più pagati d’Islanda.
Al contrario di quello che succede in un allevamento di maiali, nel caso dei salmoni nessuno deve occuparsi di escrementi e scarti di mangime. Le deiezioni dei pesci vanno semplicemente a fondo nel fiordo. L’acqua è gratis, il mare non emette fatture. Perciò gli affari sono incredibilmente redditizi. Grazie ai salmoni, anche Jakobsson è diventato ricco: possiede tre alberghi e due guesthouse in città. Secondo lui l’importante è “non perdere il controllo della situazione”.
Si riferisce a una cosa successa nell’agosto 2023, quando dai suoi allevamenti sono fuggiti 3.500 salmoni. Capita che si aprano dei buchi nelle reti, oppure che un lavoratore commetta un errore e lasci scappare i pesci. La Arctic fish ha fatto immediatamente arrivare dei sub professionisti che, armati di arpioni, sono andati a caccia degli animali in fuga. Ne hanno catturati solo 489: gli altri hanno raggiunto l’Atlantico. Ma è poi così grave? In fin dei conti, dei prigionieri hanno riconquistato la loro libertà.
Negli ultimi cinquant’anni il numero di salmoni selvatici nelle acque islandesi si è ridotto a un quarto della popolazione originaria
Il problema comincia quando i salmoni d’allevamento si accoppiano con quelli selvatici. Gli abitanti delle gabbie hanno ben poco in comune con le immagini che vediamo sulle confezioni dei filetti di salmone, quei vigorosi pesci che risalgono le rapide controcorrente. Anche i salmoni d’allevamento nuotano e mangiano, ma le analogie con quelli selvatici finiscono qui. I prigionieri delle gabbie sono una razza a parte, creata appositamente per l’allevamento. Le loro pinne posteriori, essenziali per il movimento degli esemplari selvatici, si sono atrofizzate: per loro non è un problema, dato che la vita in gabbia non richiede grande energia.
Hanno teste piccole, mascelle e muscoli deboli, ma corpi massicci. Perché crescano rapidamente sono nutriti con mangimi concentrati. A differenza dei salmoni selvatici non mangiano granchi ma granulati: le loro carni sarebbero pallide se al mangime non venissero aggiunti coloranti rossi. Ai consumatori piace quel colore, spacciato per un segno di nobili origini.
I salmoni selvatici sono creature affascinanti che hanno ancora molti segreti: passano anni in mare e poi, quando vogliono riprodursi, tornano ai fiumi e ai torrenti in cui sono nati, riuscendo a ritrovare il proprio luogo di nascita con un’approssimazione di non più di dieci metri. Grazie all’odore, riconoscono la parte di ruscello dove hanno vissuto e ci scavano una buca per depositare le uova.
Ai salmoni d’allevamento di questi istinti non è rimasto granché: nascono nelle vasche di plastica di qualche stabilimento. Se si accoppiano con i salmoni selvatici, nascono ibridi con un pessimo senso dell’orientamento. Hanno grandi difficoltà a trovare le zone di riproduzione o non ci riescono affatto. I loro discendenti non sono solo grassi ma anche stupidi, una combinazione devastante che mette in pericolo intere popolazioni di animali selvatici.
Nel 2022 in Islanda sono evasi in un colpo solo 82mila salmoni d’allevamento. Poche settimane fa altri trecento. Episodi simili si ripetono continuamente, e Jakobsson ammette: “Non posso promettere che non succederà più”.
Ma per la nefasta spirale dell’industria del salmone questo è solo l’inizio. Le reti infatti sono piene di quelli che alcuni ambientalisti chiamano “pesci Frankenstein”, salmoni mangiati vivi da minuscoli crostacei chiamati pidocchi di mare. I parassiti li spolpano fino alle ossa, attaccano persino gli occhi. Alla fine i pesci più che nuotare si trascinano. I pidocchi di mare parassitano anche i salmoni selvatici, ma quando questi raggiungono i fiumi per riprodursi si staccano: ai pidocchi l’acqua dolce fa male. Nelle gabbie che galleggiano nell’acqua salata dei fiordi, invece, se la passano bene: hanno a disposizione uno stuolo di ospiti in uno spazio ridottissimo.
Acqua calda e laser
Andiamo a trovare la kayakista Veiga Grétarsdóttir nel suo camper parcheggiato in una baia, e lei ci mostra un video che le ha cambiato la vita. Cinque anni fa ha circumnavigato l’Islanda in kajak in 103 giorni. Passando accanto alle gabbie dei salmoni ha notato prima gli uccelli morti, poi le carcasse dei pesci. “Fino a quel momento avevo sempre creduto che l’Islanda fosse un paese pulito”, dice.
Poi ha usato dei droni per filmare quello che succedeva nelle gabbie. Ha fatto riprese scioccanti dei pesci Frankenstein: sembra che non ci sia rimasto neanche un salmone sano, hanno tutti le teste bianche, consumate dai parassiti. Alcuni salmoni sono diventati ciechi e sbattono continuamente contro la rete. “Penso che quello che facciamo a questi animali sia uno dei più gravi crimini commessi dall’umanità”, dice Jón Kaldal dell’Icelandic wildlife fund.
Immaginate una fattoria in cui dei maiali ciechi e con le teste smangiucchiate sbattono contro le pareti delle loro stalle. Se i pesci non fossero muti, le loro grida di dolore risuonerebbero in tutto il fiordo.
Grétarsdóttir ha pubblicato il video su YouTube, è diventata un’ambientalista e ha affrontato le aziende produttrici di salmone. “Per prima cosa hanno cercato di comprarmi offrendosi di coprire i costi del mio prossimo viaggio”, racconta.
Nel 2023 i due maggiori allevatori di salmone del paese hanno dovuto sopprimere un milione di pesci colpiti dai parassiti. Ogni anno muore tra il 20 e il 30 per cento di tutti i salmoni in cattività, ma questo dato è considerato normale e non riduce i profitti.
A Ísafjörður sta cominciando una giornata tempestosa: le raffiche di vento spingono le barche a vela contro i moli, i bambini che vanno a scuola devono reggersi ai lampioni. Gauti Geirsson è cresciuto a stretto contatto con i capricci della natura: “Già mio nonno faceva il pescatore in questa città”. Oggi Gauti ha 31 anni ed è un’eccezione tra i capi delle aziende produttrici di salmone: la sua è la più piccola della regione e lui è islandese.
Le concorrenti sono gestite da norvegesi, che hanno comprato molti degli allevamenti islandesi. Alla ricerca di nuovi mercati, le aziende ittiche norvegesi hanno cominciato a ricoprire di gabbie galleggianti il mondo intero, dal Canada al Cile, all’Irlanda, alla Scozia e adesso anche all’Islanda. Rispondono malvolentieri alle domande scomode. L’amministratore di Arnarlax, l’allevamento più grande d’Islanda, ha rifiutato di parlare e ha denunciato una “campagna contro gli allevatori di salmoni”.
Alcuni produttori di pesce sono diventati milionari e alcuni milionari sono diventati miliardari. Il più importante è John Fredriksen, proprietario della Mowi, che ha rilevato la quota maggioritaria della Arctic fish. Questo ottantenne norvegese è a capo di un impero, con una flotta “più grande di quella di Aristotele Onassis”, secondo le sue stesse parole. Anche le sue figlie ricoprono ruoli di prestigio in azienda, e si vedono spesso alle feste di famosi galleristi londinesi.
Gauti Geirsson è molto lontano da questo mondo scintillante. L’evento più emozionante che ricorda è quando un orso polare è arrivato dalla Groenlandia ed è stato abbattuto poco dopo. Geirsson è un uomo simpatico e non sfugge alle domande critiche. Quando gli chiediamo se pensa mai alle conseguenze del suo lavoro, risponde: “Sì, ho avuto dei dubbi. Lavoriamo in una natura fragile”. Ma questi dubbi non lo hanno mai distolto dal suo percorso.
Per combattere le malattie dei salmoni le ha provate tutte. Altri hanno tentato con i pesticidi, ma i pidocchi sono diventati resistenti. Poi nelle gabbie sono stati liberati dei pesci pulitori che avrebbero dovuto mangiare i pidocchi, ma molti parassiti sono sopravvissuti anche a questo. Adesso Geirsson ci sta provando con il laser: delle telecamere individuano i parassiti sulla pelle dei salmoni e un computer indirizza gli impulsi.
Ma tutto questo non risolve il problema principale: il sovraffollamento dei pesci nelle gabbie. È come con la pandemia di covid-19: più persone ci sono in una stanza, più facile è il contagio. Se tutti i tentativi falliscono deve intervenire la Ronja, una nave lazzaretto ancorata in un fiordo, una specie di ospedale per pesci. A bordo i salmoni colpiti sono trasferiti in vasche di acqua dolce o sottoposti a una doccia calda. Questo fa male ai pidocchi, ma anche ai salmoni, che tornano nelle loro gabbie indeboliti.
Bisogna considerare inoltre che alcuni pidocchi di mare passano dai salmoni ai merluzzi. Poi c’è una questione di solito non associata agli impianti di acquacoltura: l’inquinamento da microplastiche. Il mangime è pompato nei fiordi attraverso tubi di plastica lunghi centinaia di metri. L’alta pressione può consumarli, e i frammenti di plastica finiscono nel mangime e in mare. E la lista dei problemi potrebbe andare avanti ancora a lungo.
Se la natura fosse in condizioni di difendersi forse si potrebbero superare, ma il cambiamento climatico sta rendendo la vita difficile ai salmoni: l’Atlantico è diventato troppo caldo e l’acqua dei fiumi in cui si riproducono non è più abbastanza fredda e ossigenata, motivo per cui i pesci anticipano la migrazione verso il mare, anche se spesso non sono ancora abbastanza robusti per sopravvivere. Negli ultimi cinquant’anni il numero di salmoni selvatici nelle acque islandesi si è ridotto a un quarto della popolazione originaria: oggi ci sono tra i 60mila e gli 80mila esemplari, contro i 22 milioni di salmoni d’allevamento.
I salmoni selvatici hanno qualche possibilità di sopravvivere? Se dovessero sparire gli ultimi esemplari atlantici che vivono nel golfo del Maine, negli Stati Uniti non ci sarebbero più salmoni. Perfino in Norvegia, il paese con più fiumi popolati da salmoni di tutta Europa, negli ultimi tre anni la popolazione ha subìto un brusco calo, toccando il livello più basso di sempre.
Secondo l’Unione internazionale per la conservazione della natura, dal 2006 al 2020 la popolazione mondiale dei salmoni atlantici è calata di quasi un quarto. Questo pesce è sulla lista rossa ed è considerato a rischio di estinzione. “Ci stiamo avvicinando a un momento cruciale”, dice l’ecologo tedesco Jörg Schneider. È troppo tardi per salvare i salmoni selvatici? Pochi ricercatori sottoscriverebbero un’affermazione così drastica, ma il punto di non ritorno si sta avvicinando. Sono cinquant’anni che nei fiordi norvegesi si allevano salmoni, e da quasi altrettanti ne sono note le devastanti conseguenze. Eppure l’industria non ha fatto altro che espandersi.
Beni di lusso
Perché nessuno fa niente? Il parlamento di Reykjavík ha discusso un disegno di legge per regolamentare il settore in modo più rigoroso, ma non ha ottenuto nulla: rimpallata da una commissione all’altra, la legge è stata discussa e modificata talmente tanto che alla fine erano contrari perfino quelli che l’avevano inizialmente appoggiata.
Eppure qualcosa si è mosso: nell’ottobre 2023 a Reykjavík una folla si è riunita per protestare contro l’industria ittica. Probabilmente per la prima volta al mondo, migliaia di manifestanti hanno attraversato la capitale in difesa dei salmoni. Al corteo si è unita anche Halldóra Mogensen del Partito pirata islandese. “Lei mangerebbe il salmone d’allevamento?”, dice con la faccia di una a cui è stato proposto un piatto di spazzatura.
Ma c’è un’obiezione difficile da ignorare. Come dice l’allevatore Daníel Jakobsson, “We feed the world”, nutriamo il mondo.
In un imponente edificio nelle vicinanze di Reykjavík si parla proprio di questo. Gli esperti dell’Istituto di ricerca sulle acque dolci e marine sono pagati dallo stato, non dall’industria. Il capo dipartimento Gudni Gudbergsson è appena tornato da un viaggio di ricerca, e quando gli ripetiamo la frase di Jakobsson si mette a ridere: “L’industria del salmone produce beni di lusso per la società occidentale”. In Africa e in Asia chi può permettersi il salmone nordeuropeo? “Se rinunciassimo all’allevamento non perderemmo proprio niente”.
Un sondaggio ha rilevato che la grande maggioranza della popolazione islandese è contraria all’allevamento dei salmoni nelle gabbie. Ma cosa importa? Il 98 per cento del prodotto è destinato all’esportazione. E il salmone continua a essere il pesce preferito dai tedeschi. ◆ sk
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Questo articolo è uscito sul numero 1587 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati