Ci vuole un po’ prima che si accorgano del fumo. All’inizio esce lentamente dalle fessure del vano bagagli, come la nebbia che sale da un campo. Sull’A330 Boston-Francoforte, quel lunedì pomeriggio di novembre i volti assumono espressioni interrogative: cos’è? Un incendio, una fuga di gas? Poi quella nebbiolina si fa sempre più fitta. La luce salta, le torce elettriche disegnano coni luminosi in quello che ormai è diventato fumo nero. Sono gli assistenti di volo che setacciano la cabina alla ricerca dell’origine del problema. L’aereo sibila e si muove a scossoni. L’A330 si inclina in avanti con un rumore che sembra il verso di un dinosauro esausto. È atterrato finalmente. Dalla cabina di pilotaggio un annuncio: “Attention! Crew on station! Attention! Crew on station!”. E poi: “Passenger evacuation! Passenger evacuation!”. Immediatamente, quelli armati di torce si trasformano in istruttori dei marines che sbraitano in coro: “Slacciate le cinture, lasciate tutto, uscite! Seat belts off! Leave everything! Get out!”.

Ecco cosa succede a bordo di un aereo quando la situazione precipita.

Una vita senza cortisolo sarebbe una vita senza sfide, in cui non si impara niente

Quelli con le torce – Kira, Felix, Alisa, Patrick, Fiona e altri – sono 22 giovani che seguono un corso per diventare assistenti di volo. Alcuni di loro diranno poi di aver trovato quell’esercitazione piuttosto stressante, nonostante sapessero che il dinosauro esausto era semplicemente un simulatore di volo, nell’hangar della Lufthansa aviation training a Francoforte. Ma sapevano anche che un giorno avrebbero potuto affrontare davvero una situazione come quella.

Poco prima dell’esercitazione l’istruttrice aveva spiegato che ad alcuni assistenti di volo non capiterà mai di vivere nulla di simile in quarant’anni di carriera, mentre altri fanno esperienze del genere dopo due o tre anni appena. Lo scenario “incendio a bordo” ha colto di sorpresa i ragazzi. È proprio questo il principio su cui si basa il corso: sai che sarà simulata una situazione difficile, ma sarà diversa da quella che ti aspettavi. Sono convinti che si tratterà di un atterraggio d’emergenza e invece ecco che nell’impianto di condizionamento scoppia un incendio impossibile da spegnere. Gli assistenti di volo devono imparare a gestire situazioni di stress estremo e fare il loro dovere in condizioni di pressione massima.

Una delle poche cose su cui oggi siamo tutti d’accordo è che lo stress fa male, che fa ammalare. E che continua ad aumentare. La vita che accelera, il lavoro che si intensifica, i social media, la recessione, l’inflazione, la guerra. Quasi due terzi dei partecipanti a una ricerca di YouGov realizzata in Germania nel 2023 hanno definito piuttosto elevata o molto elevata la loro percezione dello stress. Per molte persone ogni giorno è come l’evacuazione di un aereo. Per loro la vita non è altro che una serie infinita di emergenze.

Lo stress può toglierci il sonno, può creare problemi al cuore o all’intestino. Può stringerci la gola in una morsa, prosciugarci, consumarci. E sembra che lo yoga e il digital detox, che in teoria dovrebbero servire a combatterlo, non bastano a liberarci dall’ansia che affligge le nostre società. Ma perché liberarsi dello stress è così difficile? Abbiamo bisogno di un corso di emergenza per le nostre vite, o basterebbe imparare a gestire correttamente le tensioni? È possibile che lo stress abbia perfino dei lati positivi?

Un test imbarazzante

Clemens Kirschbaum, 64 anni, è uno dei più importanti ricercatori che si occupano di stress in Germania. Al momento non ha un ufficio vero e proprio, perché ha deciso di rallentare il lavoro ancora prima di raggiungere l’età della pensione e ha rinunciato alla sua cattedra al politecnico di Dresda, contemporaneamente alla moglie Angelika Buske-Kirschbaum, anche lei biopsicologa.

I due lavorano insieme dal 1986. Clemens si è occupato dell’aspetto biologico del fenomeno, ossia di quello che accade al corpo quando è sotto stress, lei delle conseguenze cliniche: perché ai bambini stressati viene la dermatite atopica? Qual è il legame tra stress e allergie? Perché il burnout (esaurimento da lavoro) è così frequente tra i docenti? La sera a tavola i coniugi riflettevano su come integrare i risultati delle rispettive ricerche.

Allegri, rilassati e leggermente abbronzati, i Kirschbaum ci ricevono in una sala conferenze dell’istituto Max Planck per la biologia cellulare molecolare e la genetica a Dresda, dove sono ospitate sezioni del laboratorio che Clemens dirige da molti anni. È la parte del suo lavoro che non ha abbandonato. Anche sua moglie investe il suo tempo libero nel laboratorio, ma lavorano solo qualche ora al giorno, niente in confronto a prima. Ma insomma, cos’è esattamente lo stress?

Innanzitutto, spiega Clemens, bisogna distinguere tra essere sotto stress e sentirsi stressati. Poi c’è differenza tra lo stress acuto e quello cronico. Per accertare se una persona si sente stressata basta un questionario: “Ha la sensazione di ricevere troppe richieste? Ha troppe cose da fare? Teme di non riuscire a raggiungere i suoi obiettivi? Quasi mai, a volte, spesso, quasi sempre”.

Per verificare se una persona è effettivamente sotto stress da un punto di vista biologico bisogna misurare i livelli di cortisolo. È quello di cui Clemens Kirschbaum si è occupato per decenni. Il suo contributo più importante è il Trier social stress test (Tsst), così chiamato perché è stato sviluppato trent’anni fa a Trier (Treviri), dove Kirschbaum ha ideato un esperimento piuttosto cattivo per la sua tesi di dottorato.

I soggetti partecipano a una sorta di colloquio di lavoro. Devono descrivere per cinque minuti le loro caratteristiche personali a due impassibili esaminatori in camice bianco che non sorridono, non li incoraggiano, non annuiscono gentilmente. Si limitano a fare una faccia annoiata e a dare qualche indicazione in tono neutro.

“Questo l’ha già detto”.

“Ha ancora tempo”.

“La prego, prosegua”.

Poi devono fare un calcolo mentre sono osservati: partono da 2.043 e sottraggono sempre il numero 17.

“Per piacere, si sbrighi”.

“Ha commesso un errore”.

“Per piacere ricominci da 2.043”.

Al termine dell’esperimento sono sottoposti a un tampone per misurare i livelli di cortisolo.

Per poter studiare la risposta allo stress si è cercato a lungo un modo per indurlo. Ai soggetti esaminati si facevano immergere i piedi nell’acqua gelida, li si sottoponeva a rumori o elettroshock, ma nessuno di questi metodi faceva salire i livelli di cortisolo in tutti quanti. Il test di Kirschbaum invece sì. Una volta, racconta, ha sottoposto al Tsst un giovane manager dell’industria farmaceutica molto sicuro di sé, convinto di superare il colloquio senza stress: era abituato a parlare in pubblico ed era bravo a fare i conti. “Era tranquillissimo. Eppure i suoi livelli di cortisolo si sono rivelati estremamente alti”.

Il cortisolo, come l’adrenalina e altri ormoni, viene rilasciato dalle ghiandole surrenali in condizioni di stress. La differenza tra adrenalina e cortisolo è che la prima, rilasciata pochi secondi dopo lo stimolo stressante, provoca tachicardia e mani sudate. È un effetto spiacevole, ma dura pochi minuti e non danneggia l’organismo. Il cortisolo, invece, è rilasciato venti-trenta minuti dopo lo stimolo e non provoca sensazioni specifiche. Fa salire la glicemia in modo che il cervello sia rifornito di energia. Blocca la digestione, perché in situazioni di stress ci sono cose più importanti da fare che andare in bagno. Inibisce il sistema immunitario, perché tutta l’energia dev’essere usata per gestire la situazione e non per combattere un’infezione. L’effetto del cortisolo può durare diverse ore. Se lo stress persiste, anche i livelli di cortisolo rimangono elevati.

Con il Tsst sono stati condotti moltissimi studi. È emerso che le persone estroverse e con un’elevata autostima possono abituarsi allo stress del colloquio, mentre quelle molto ansiose a ogni esperimento rilasciano maggiori quantità di cortisolo.

È stato inoltre riscontrato che chi percepisce le difficoltà come sfide rilascia meno cortisolo di chi le vede come minacce. E che a vedere le difficoltà più come sfide che come minacce ci si può esercitare.

Soprattutto, il Tsst ha rivelato un frequente legame tra stress e aspettative sociali. In una certa misura, infatti, lo stress è un costrutto sociale: ci stressiamo quando pensiamo di non essere in grado di svolgere un certo compito – e quando crediamo che gli altri ci giudicheranno male per questo. E i livelli di cortisolo aumentano.

Quando Clemens Kirschbaum ha sviluppato il Tsst, il cortisolo aveva una brutta fama: era stato scoperto che può danneggiare l’ippocampo (l’area del cervello che controlla la memoria e le emozioni), che rende l’organismo maggiormente soggetto alle malattie e che può favorire obesità, diabete e ipertensione. Sembrava che elevati livelli di stress fossero piuttosto dannosi.

Secondo Kirschbaum, però, sul breve periodo lo stress può avere effetti decisamente positivi: ci rende attivi, lucidi e concentrati. Come durante l’esercitazione sul simulatore di volo. Combattere o fuggire, ecco il significato dello stress dal punto di vista evolutivo: consentirci di salvare la pelle in situazioni di pericolo, mobilitando tutte le nostre risorse. Gli umani preistorici dovevano sfuggire ai predatori, quelli di oggi devono evacuare un aereo o fare una buona impressione sui clienti, tutte cose che possono sembrare questioni di vita o di morte.

Dopo un po’, quando si è riusciti a sfuggire al predatore, l’esercitazione è stata completata o la presentazione è finita, il cortisolo viene smaltito.

Il problema sorge se lo stress persiste. Questo succede quando le situazioni stressanti si susseguono o quando compaiono dei pensieri ossessivi: sarò stato all’altezza? Continuerò a esserlo? In questi casi, l’organismo non può riprendersi e, con i livelli di cortisolo sempre alti, diventa impossibile rilasciarne altro in situazioni di stress acuto e quindi gestire bene un ulteriore aumento dello stress. Ecco perché chi è costantemente stressato sviluppa una forte sensibilità dal punto di vista biologico, reagendo con maggiore intensità alla più piccola occorrenza di stress acuto.

È il caso degli insegnanti, racconta Angelika Buske-Kirschbaum: il loro lavoro è come un Tsst permanente, che si ripete ogni giorno con gli alunni nel ruolo degli esaminatori impassibili.

Clemens racconta che il suo relatore diceva sempre che l’organismo stressato va immaginato come un elastico in tensione, che con il tempo cede.

Ma se il rilascio di cortisolo non produce effetti riconoscibili, come facciamo a sapere quando l’elastico ha ceduto?

Un giorno Clemens Kirschbaum ha letto di un gruppo di macachi Rhesus che erano stati trasferiti da una gabbia all’altra. Un ricercatore aveva prelevato dei campioni del loro pelo e, facendoli analizzare in laboratorio aveva scoperto che era possibile rilevare la presenza del cortisolo – di parecchio cortisolo, a dire il vero, perché i traslochi stressano tantissimo le scimmie.

Kirschbaum si è chiesto se non si poteva fare qualcosa di simile anche con gli esseri umani. Era noto da tempo che nelle donne incinte i livelli di cortisolo aumentano nei mesi che precedono il parto per stimolare lo sviluppo dei polmoni del nascituro. E, se il cortisolo era riscontrabile nel pelo dei macachi, perché non si sarebbe dovuto trovare anche nei capelli delle donne incinte?

Così si è messo al lavoro, scoprendo che, in effetti, dall’analisi del capello si evince il momento esatto in cui salgono i livelli di cortisolo. Come un geologo che analizza la roccia strato dopo strato, poteva vedere com’è cambiato l’equilibrio ormonale delle donne nei mesi precedenti.

Lo svolgimento del Trier social stress test - frontiersin.org
Lo svolgimento del Trier social stress test (frontiersin.org)

Kirschbaum ha messo a punto un sistema per determinare i livelli di cortisolo sul lungo periodo, che è alla base di numerosi studi. Il procedimento non è ancora stato standardizzato, ma è dimostrato che analizzando una ciocca di capelli si può ricostruire la cronologia dello stress di una persona, almeno per qualche mese. Oggi sappiamo che i cardiopatici presentano alti livelli di cortisolo già prima di un infarto. Chi è vittima di un burnout invece presenta livelli di cortisolo bassissimi, come un elastico troppo sforzato: è passato dall’eccesso all’insufficienza di cortisolo.

Secondo Angelika Buske-Kirschbaum, “l’analisi dei capelli offre possibilità prima impensabili”. Per esempio, si possono prelevare campioni di capelli alla nascita per verificare se durante la gravidanza un bambino è stato sottoposto a elevati livelli di stress, come sta facendo uno studio in Canada. Anche nel laboratorio dei coniugi Kirschbaum a Dresda vengono analizzati i capelli dei neonati, e presto arriveranno anche campioni prelevati dai bambini della Striscia di Gaza. Una volta tagliati in pezzettini di un centimetro ciascuno, saranno pesati e immersi nell’alcol perché rilascino gli ormoni. L’estratto sarà messo in un dispositivo collegato a flaconi contenenti agenti chimici. Su uno schermo saranno visualizzati i livelli di cortisolo rilevato. La storia dell’umanità potrà essere raccontata anche come una storia dello stress?

L’era del relax

Una mattina di dicembre, nell’abside della cattedrale di Canterbury, Anna Schaffner rivolge lo sguardo verso l’alto. Intorno a lei due donne anziane si affannano a lucidare gli stalli del coro. L’ambiente è intriso del profumo della storia. Le donne stanno sistemando la cattedrale in vista del Natale. Su, nel matroneo, l’organista fa risuonare il suo strumento. Schaffner non è religiosa, ma ama la cattedrale e spesso ci porta chi viene a trovarla. Le piace il fatto che l’architettura gotica ti costringe a guardare in alto. “Riesci a prendere le giuste distanze da te stessa”, spiega, “e al contempo ti senti parte di qualcosa”. Un ottimo rimedio contro lo stress persistente.

Chi è stressato, infatti, spesso guarda in basso e vede solo il suolo, la superficie, il negativo. Schaffner ha 46 anni e ha studiato letteratura. È nata a Darmstadt ma vive da molto tempo nel Regno Unito. Fino a un anno e mezzo fa aveva una cattedra di storia culturale presso l’università del Kent, ora fa la coach e la scrittrice. Il suo ultimo libro, Exhausted, è una sorta di storia culturale del burnout dall’antica Cina ai giorni nostri. Lo stress, spiega Schaffner passeggiando per la cattedrale, non è un fenomeno nuovo: anche i monaci medievali erano stressati. Qui a Canterbury i benedettini si dedicavano alla preghiera, alla copiatura dei manoscritti e alla cura dell’orto. Tutte attività molto meno contemplative di quanto sembri. Nel medioevo, prosegue, l’ideale da raggiungere era quello della concentrazione permanente sulle questioni spirituali – un compito piuttosto faticoso, visto che ogni colpo di tosse, ogni risatina, ogni pensiero rivolto al sesso o al cibo era considerato una debolezza. E la stanchezza, rivelano i testi dell’epoca, era considerata una mancanza di fede. Per combattere lo stress, ai monaci si raccomandava una sola cosa: concentrarsi ancora di più.

Schaffner cammina sul marmo consumato dai passi di tutti quelli che l’hanno preceduta, sulle lapidi dei religiosi sepolti nella cattedrale. È convinta che lo stress derivi dalla paura della finitezza: ci rendiamo conto che prima o poi la vita finisce e che dobbiamo sbrigarci. Nel caso dei monaci medievali, il poco tempo a disposizione andava usato per avvicinarsi il più possibile a Dio.

Ogni epoca ha i suoi fattori di stress e parla a modo suo di stress ed esaurimento. Ma tutti questi modi hanno in comune la pressione, le aspettative, le cose – qualsiasi esse siano – da fare con la massima urgenza. Un trattato di medicina cinese risalente a quattromila anni fa lamenta l’eccessiva fretta di cui erano vittime i contemporanei, favoleggiando di un passato in cui la gente era più equilibrata, più misurata.

Alla fine dell’ottocento gli statunitensi e gli europei soffrivano della cosiddetta nevrastenia, una specie di esaurimento dovuto all’eccessivo lavoro intellettuale e alla vita moderna. Tram, treni, telefonate e telegrammi: era troppo, soprattutto per chi apparteneva alle classi più agiate. Inoltre la nevrastenia era chic, dava l’impressione di essere sensibili e istruiti. Se è vero che lo stress è stato per millenni una costante di cui si è parlato in termini sempre diversi, come guarderanno i posteri al nostro tempo? Diranno: “Che teneri che erano, si lamentavano di ricevere troppe email”?

Secondo Schaffner in futuro con lo stress succederà quello che è successo con il fumo: rischiare la salute smetterà di essere fico, e chi soffre di stress permanente non sarà più considerato un eroe. I segni di questa tendenza, sostiene, sono già riconoscibili: negli Stati Uniti i più ricchi investono molto tempo in prevenzione, alla ricerca di una longevità che vedono come l’ulteriore dimostrazione del loro status elevato. Essere rilassati sarà lo status symbol di domani.

Prestazioni da ansia

La giornata di Jan-Philipp Martini è cominciata alle 5.30. Per prima cosa, mezz’ora di meditazione nella capanna sull’albero che ha costruito lui stesso nel giardino della sua seconda casa in Lituania, dove è venuto a fare smart working per qualche settimana. Quando finisce di meditare, va a fare un tuffo nel laghetto gelido, poi un’ora di allenamenti seguita dalla colazione con moglie e figlio. A quel punto comincia con le videochiamate, che lo impegnano fino alle 17. Sono ritmi molto faticosi, racconta in una di queste videochiamate. Perciò prima di ogni chiamata si concede cinque minuti di meditazione: chiude gli occhi e non pensa a niente.

Gregory Reid, Gallery stock

Martini ha fondato una start-up che organizza corsi sulla gestione dello stress. Tra i suoi clienti ci sono dipendenti della Danone, delle Nazioni Unite e di due banche d’investimento.

L’idea gli è venuta pensando alla sua vita. Faceva il consulente aziendale per la Boston Consulting: oggi in Australia, domani in Sudafrica, dopodomani in Spagna e una scappata a casa tra un viaggio di lavoro e l’altro. Lavorava tanto e dormiva poco. A un certo punto ha fondato la sua prima azienda. E poi è crollato: diabete di tipo 1. Il suo sistema immunitario aveva cominciato ad attaccare il pancreas, arrivando quasi a ucciderlo.

Martini ha studiato ingegneria meccanica ed è uno a cui piace racchiudere la vita su Excel – tabelle, grafici e diagrammi –, uno che dice company per dire azienda. Ma è anche un insegnante di meditazione. Già quando era alla Boston Consulting andava a meditare per diverse settimane all’anno, e ogni volta che partiva per un ritiro i colleghi gli dicevano: “Stai andando da quelli della tua setta”. E lui rispondeva: “No, mollo tutto”.

Tutta quella mindfulness, però, non è bastata a evitare il crollo. Non si è reso conto di aver preteso troppo da se stesso.

Martini voleva capire cosa succede all’organismo in situazioni di stress. Così ha cominciato a studiare medicina, senza però avere intenzione di fare il medico. Seguiva solo i corsi necessari a farsi delle basi. Quando ha capito quello che pensava di dover capire, si è cercato dei soci: scienziati, medici, esperti di biotecnologie. E ha fondato una nuova azienda, che ha chiamato Sapiens.

Non è che Martini voglia trasformare il mondo del lavoro nel paradiso del benessere, anzi: dice di vedere lo stress in termini piuttosto positivi, perché è quello che ci mette in condizione di ottenere dei risultati. Vuole far capire che a rendere di più non è chi riesce a sopportare di più, ma chi si riprende meglio dallo stress. Perché sa trarre veramente vantaggio dagli aspetti positivi dello stress, da quell’energia che circola finché l’elastico rimane in tensione.

Una mattina Martini spiega alla responsabile delle risorse umane di una grande azienda come fare per reagire meglio allo stress. Per una settimana, la donna ha indossato un registratore Holter per l’elettrocardiogramma e ha annotato le riunioni di lavoro, l’ora in cui metteva a letto il figlio, gli allenamenti sull’ellittica. Ha consegnato campioni di saliva e capelli da far analizzare in laboratorio e ha risposto a una serie di domande sulle sue abitudini alimentari, la sua forma fisica e la sua digestione.

Adesso scoprirà quanto è stressata dal punto di vista biologico. Martini le chiede cosa intendesse esattamente quando, rispondendo al questionario, ha indicato come obiettivo quello di voler vivere di più il momento presente. La donna spiega che è costretta a dare sempre il massimo, perché oltre a essere responsabile di centinaia di persone, ha anche assunto un’altra carica all’interno dell’azienda. “Due lavori a tempo pieno, praticamente”.

Spesso, dice, ha la sensazione che la vita le scorra davanti come le notizie sul telefonino quando scrolli: se prima dedicava mezz’ora a ogni call, adesso è passata a 25 minuti, a volte 15. “Sono piena di energie, ma mi sento circondata da vampiri, e vorrei capire chi sono”, dice.

“Ok”, dice Martini, “allora giochiamo a fare i detective”. Sullo schermo appaiono una serie di grafici che ricordano un po’ il tachimetro di un’auto: è evidente, le dice, che ha un talento per quanto riguarda la sopportazione dello stress. E questa è la buona notizia.

Ma ce n’è anche una cattiva. “I risultati suggeriscono che lo stress cronico ha raggiunto livelli di allarme”. Significa che ora deve prendersi cura di sé.

Fino a poco prima la donna sembrava convintissima che, in qualche modo, ce l’avrebbe fatta a gestire tutto quanto. Aveva raccontato del suo rituale della buona notte: quando porta al letto il figlio, resta nella stanza finché non si addormenta e, seduta al buio accanto al lettino, si dedica alle sue email. Adesso però si fa silenziosa. “Certo che questi dati fanno paura”, commenta. Poi chiede: “E come si fa a riportare il cortisolo nei limiti di sicurezza?”.

Martini le ricorda le sue risorse: è in grado di rilassarsi e deve sfruttare questa capacità. Durante le riunioni potrebbe provare a concentrarsi sul respiro, a prestare attenzione alla tensione nel corpo. La sera, dopo aver letto le storie della buonanotte al figlio, potrebbe fare dieci minuti di stretching o magari un bagno caldo. Di notte potrebbe lasciare il cellulare in cucina e concedersi mezz’ora di lettura prima di andare a dormire. E qualche volta potrebbe tornare a ballare la salsa.

“Questi sono piccoli aggiustamenti”, dice Martini. “Ma sembra che sia arrivato il momento di prendere una decisione più importante”. Fa un’altra pausa. Si tratta del suo doppio ruolo, dei due lavori a tempo pieno.

Lei annuisce.

Si danno appuntamento dopo qualche settimana per un secondo colloquio.

La valigetta di Kennedy

“Le persone resilienti possono reggere lo stress anche per anni. Poi però cambiano lavoro”, dice Johanna Zabell, la psicologa a capo della Schön-Klinik di Amburgo-Eilbek. Nel suo studio riceve spesso persone che non sono così resilienti.

Nel reparto di medicina psicosomatica, Zabell si occupa soprattutto di pazienti giovani. Negli ultimi anni ha osservato una cosa strana, racconta. È emerso un nuovo tipo di persona: sono quelli che provano a vivere in modo consapevole e rilassato e a fare tutto, ma proprio tutto, nel modo più giusto. Praticano il journaling, cioè tengono una sorta di diario in cui segnano idee e pensieri, seguono un’alimentazione consapevole, fanno yoga – non perché ne hanno voglia, ma perché sono convinti di doverlo fare. E poi finiscono qui da lei, perché così non funziona.

Il peso della povertà

◆ Diverse ricerche indicano che la povertà è una fonte di stress cronico che può avere serie conseguenze, soprattutto durante l’infanzia. Secondo uno studio pubblicato su Nature nel 2023, durante l’infanzia l’esposizione prolungata a livelli acuti di stress, che è più comune nelle famiglie a basso reddito a causa di fattori di rischio come l’instabilità e la depressione materna, può influenzare lo sviluppo del sistema neuroendocrino impedendo una corretta percezione delle minacce e delle potenziali ricompense. Questo può avere effetti negativi sull’apprendimento, ostacolando il successo scolastico dei bambini e quindi favorendo il perpetuarsi delle disparità socioeconomiche.


“Certo che lo yoga fa bene”, dice, “ma se si fa per forza, allora diventa un problema”. Diventa l’ennesimo obbligo, l’ennesima costrizione. Ed ecco che il programma antistress diventa un altro fattore di stress.

Zabell ha l’impressione che la società abbia perso la cognizione del fatto che il lavoro è uno scambio: fatica, idee e sapere in cambio di soldi. Oggi nessuno lo vede più così: chiediamo al lavoro di dare un senso alla nostra vita e non siamo più in grado di accettare che sia solo un lavoro.

La gente, spiega Zabell, non riesce più a sopportare il fatto di non essere felice. Ma non si può essere sempre felici e rilassati. Una vita senza cortisolo sarebbe una vita senza sfide, in cui non si impara niente e a stento ci si alza dal letto al mattino.

Sarebbe pericolosissimo, come dimostra l’esempio dell’ex presidente statunitense John F. Kennedy. Il mondo lo ricorda come un uomo energico strappato alla vita nel fiore degli anni. Invece era un uomo molto malato: soffriva di numerosi disturbi, soprattutto alla schiena e all’intestino. Durante la campagna elettorale del 1960 stava talmente male da dover essere seguito da un assistente con una valigetta piena di medicine. Una volta, durante un viaggio in Connecticut, quella valigetta fu smarrita e Kennedy, nel panico, telefonò al governatore: se fosse finita nelle mani sbagliate e si fosse saputo da quanti medicinali era dipendente, sarebbe stata la sua fine.

La valigetta, scrive il biografo Robert Dallek, fu ritrovata in tempo, e finché Kennedy è rimasto in vita quasi nessuno ha saputo della sua malattia. A ricostruirne minuziosamente la storia, sulla base delle cartelle cliniche, è stato proprio Dallek, che nel 2003 ha pubblicato il libro JFK. John F. Kennedy, una vita incompiuta (Mondadori 2013).

Secondo lui, nel 1947 un medico di Londra diagnosticò all’allora trentenne Kennedy il morbo di Addison durante un viaggio in Europa. I sintomi sono nausea, vomito, febbre, stanchezza, perdita di peso e un particolare colorito bronzeo. Il morbo di Addison distrugge la corteccia surrenale, responsabile della produzione di cortisolo.

La carenza di cortisolo indeboliva Kennedy e danneggiava il suo sistema immunitario. Secondo il medico probabilmente non gli restava neanche un anno di vita. Quando Kennedy tornò negli Stati Uniti, a bordo della Queen Mary venne fatto salire un prete, per dargli l’estrema unzione. Ma Kennedy sopravvisse. Inizialmente gli somministravano estratti ghiandolari che fornivano piccole quantità di cortisolo. Poi, quando furono inventati, cominciò ad assumere farmaci corticosteroidei, ossia cortisolo sintetico. Kennedy li prese per tutta la vita.

Nelle situazioni di stress più acuto, per esempio durante la crisi di Cuba del 1962, gliene servivano dosi particolarmente elevate. Senza queste cure sarebbe morto, perché, se non si compensano le carenze di cortisolo, il morbo di Addison risulta letale.

Senza cortisolo non ci sarebbe stato nessun presidente Kennedy. E non ci sarebbe stata nessuna cattedrale di Canterbury. Senza cortisolo non ci sarebbero stati le ricerche di Clemens Kirschbaum, i libri di Anna Schaffner, l’azienda di Jan-Philipp Martini, la clinica di Johanna Zabell. Alla Lufthansa, allo scattare dell’allarme, gli assistenti di volo sarebbero rimasti ai loro posti, andando passivamente incontro al proprio destino.

Troppo cortisolo e troppo stress portano all’esaurimento, l’assenza di cortisolo porta alla morte. Come fare a trovare un equilibrio?

Quasi tutti gli esperti concordano sull’utilità di alcune cose semplici e poco spettacolari: un’alimentazione sana e regolare, fare attività fisica e dormire bene

Un’armatura di affetto

E poi c’è un’altra cosa da fare, probabilmente la migliore di tutte. È stata studiata a fondo, perché sono tanti i ricercatori che se ne sono occupati, spesso usando il Trier social stress test.

Per uno di questi studi, il Tsst è stato leggermente modificato: prima di cominciare a descrivere agli esaminatori annoiati le loro caratteristiche personali e a sottrarre 17, i soggetti passavano dieci minuti a farsi incoraggiare dai loro part­ner. Dagli esami risultava che queste persone avevano livelli di cortisolo più bassi rispetto a chi si era sottoposto al test senza ricevere parole di conforto.

L’affetto degli altri è come un’armatura. Il social support, come lo chiamano gli psicologi, aiuta a sopportare lo stress. Un partner empatico, un buon amico, qualcuno che dopo una dura giornata di lavoro ti ascolta veramente – ecco il rimedio magico contro lo stress. È anche gratis. Solo che non puoi comprarlo, neanche con tutto il denaro del mondo. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1607 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati