La luce delle foto che ci arrivano da Los Angeles è soprannaturale, anche se questa è la parola sbagliata. Cinematografica? Neanche questa è adatta: non c’è nessuna finzione negli incendi o nelle sagome di figure umane che cercano di scappare dal fuoco o di affrontarlo. Le fotografie più diffuse immortalano momenti drammatici: edifici e paesaggi in fiamme, il teatro delle ombre con le palme che bruciano, i panorami offuscati dal fumo in cui, qua e là, la gente indossa maschere respiratorie di dubbia efficacia.
Il fumo è soffocante. Non possiamo decidere di non respirare. Quando inaliamo fumo, tutto ciò che desideriamo è non farlo. I nostri polmoni implorano che l’aria sia pulita e che il fumo non ci sia (si muore di più, si dice, per l’inalazione del fumo che per le ustioni). Il modo in cui il fuoco e il fumo alterano il mondo ci offre un dramma visivamente affascinante, che di certo non ne compensa la pericolosità. Come per tutti i disastri naturali, è molto più facile guardare il fuoco da lontano. E quindi, per tutti noi che non siamo sul posto, il fuoco arriva sotto forma di fotografie.
Le fotografie non sono molto diverse dai video. A chi non è capitato di fermarsi su un’immagine fissa dei notiziari, per poi scoprire che era in movimento? La gamma dei colori è la stessa – giallo ocra, arancio cadmio, cremisi d’alizarina, terra di Siena bruciata – e le scene sono le stesse. Forse, in realtà, i video servono per essere consumati ancora più velocemente, ed essere eliminati altrettanto in fretta. In fondo, un video dura solo finché dura, pochi secondi, mentre una fotografia può durare finché vogliamo. È stato detto che il cambiamento climatico somiglia a una proliferazione sterminata di filmati amatoriali sempre più allarmanti finché, un giorno, siamo noi quelli che girano i filmati. Finché siamo noi a essere in pericolo.
Queste fotografie e questi video non dureranno. Non dureranno per lo stesso motivo per cui non ci sono foto durature degli uragani e dei terremoti più recenti. Nonostante l’altissima domanda d’immagini di questo tipo, l’offerta è sempre troppa. Ma sono immagini effimere anche per un altro motivo: la loro funzione è cambiata. Ci portano notizie lampo subito soppiantate da altre. Sono vittime dell’incessante bisogno di novità del pubblico. Il significato di queste immagini – che parlano del collasso ambientale, del fallimento della politica, di un’impotenza ineluttabile – non invita a usarle come oggetti di contemplazione. Alle pareti di casa non appendiamo le fotografie del rogo di Camp Fire del 2018. Il nostro modo di vedere le cose non è ancora adeguato alla situazione.

Una volta, diciamo cinquecento anni fa, immagini di questo tipo avevano una funzione diversa. Intorno agli inizi del sedicesimo secolo, in Europa, aumentò l’apprezzamento per i dipinti di paesaggi in fiamme (è più o meno in quel periodo che si sviluppò un gusto per i paesaggi in generale: “L’invenzione della nave è stata anche l’invenzione del naufragio”, come scrisse Paul Virilio). Era un’epoca in cui molte persone avevano avuto un’esperienza diretta delle devastazioni della guerra. I dipinti evocavano in parte quegli orrori; molti, tra cui le scene infernali di Hieronymus Bosch, contenevano un criptico commento politico alle crudeltà dell’epoca. I dipinti dei paesaggi in fiamme rappresentavano scene bibliche o religiose. Il castigo divino era un tema centrale, ma c’era anche l’implicita possibilità della fuga. Non c’era solo sventura in quei dipinti: potevano essere guardati con spirito contemplativo. E poiché erano ricchi di particolari spesso fantastici, potevano essere guardati anche per puro piacere.
Prendiamo il Paesaggio con la distruzione di Sodoma e Gomorra di Joachim Patinir, del 1520 circa. Il dipinto, oggi conservato al museo Boijmans Van Beuningen a Rotterdam, è piccolo, poco meno di trenta centimetri sul lato più lungo, ma offre molto all’occhio. Nella parte in alto a sinistra vediamo un cielo aspramente trasformato dal fuoco. L’occhio pittorico di Patinir conosce bene le gradazioni sinuose che si possono ricavare da un monocromo caldo. Sotto il cielo ci sono città lontane che bruciano, con le forme scure dei palazzi cosparse di punti di luce. Le città sono cinte da mura inutilmente elaborate. Da un’unica porta monumentale defluisce una massa di figure minuscole, ma non c’è via di scampo. Bruceranno o annegheranno.
Le città in fiamme sono l’immagine stessa della paura, lo spettro di una sofferenza di massa indiscriminata. Pochi fortunati, però, riescono a mettersi in salvo. Sulla parte destra del dipinto di Patinir si vedono contorte formazioni rocciose in tonalità di grigio. Sotto il cielo livido, accompagnati da una coppia di angeli, ci sono Lot e le sue figlie, in una specie di rovesciamento dell’espulsione dal Paradiso. Qui l’uscita porta alla salvezza, anche se non esattamente alla pietà. In alto a destra c’è un’immagine che anticipa la scena della tenda in cui la famiglia graziata si abbandonerà all’ebbrezza e all’incesto. E proprio al centro della tela, in una campagna piatta e buia, c’è una piccola, incerta linea verticale di pittura bianca. L’artista sapeva che avremmo cercato una statua di sale.
Tre giorni prima di Natale, poco dopo la mezzanotte, sono stato svegliato da qualcuno che gridava. Ho guardato dalla finestra. La strada era oscenamente affollata dalle luci lampeggianti dei camion dei pompieri. Da un appartamento di fronte usciva una colonna di fumo. In cima al palazzo si vedevano tremolare delle fiamme. I camion dei pompieri non avevano le sirene accese e il vicino aveva smesso di gridare. In questo caos muto, le cose sembravano irreali. Gli inquilini dell’edificio in fiamme sono scesi sulla strada fredda e una donna rimasta intrappolata nel suo appartamento è stata messa in salvo con una scala. Due ore dopo, le persone che vivevano nel palazzo, ormai danneggiato, sono andate a prendere parte dei loro effetti personali e si sono allontanate in cerca di un alloggio temporaneo. La mattina dopo ho raccontato a un’amica cos’era successo. “Gli incendi sono sempre orribili”, mi ha detto. Quel giorno, più che a qualsiasi altra cosa, ho pensato a questa risposta non sorprendente, ma misteriosamente adeguata.
Gli incendi sono davvero orribili. Sono improvvisi, si propagano, minacciano o portano via vite. Un incendio ci fa venire il timor di dio. Ho guardato una fotografia che ho scattato quella notte. Il colore rosso sangue dell’edificio era quello della luce proiettata dai camion dei pompieri. Il fumo pungente che si alzava dall’appartamento in fiamme sembrava ora una nuvoletta innocente. La fotografia era intensa, ma era intensa come una fotografia, non come un incendio. ◆ fas
Teju Cole è uno scrittore e fotografo statunitense di origine nigeriana. Il suo ultimo libro pubblicato in italiano è Tremore (Einaudi 2024). Questo articolo è uscito sul New Yorker con il titolo A city on fire can’t be photographed.
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Questo articolo è uscito sul numero 1600 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati