Qualche mese fa, quando stava per staccare dal lavoro, Javier Villoldo ha sentito il suono di arrivo di un fax nell’ufficio postale di Corcovado. Era il 26 aprile. Si ricorda tutto benissimo, del resto dirigeva lui quella filiale, oltre a essere il postino, il responsabile di magazzino e l’unico dipendente: “Insomma”, dice, “la posta ero io”. Il fax era indirizzato all’“egregio signor Villoldo”. Le poste argentine lo ringraziavano per gli anni di onorato servizio, ma purtroppo non avevano più bisogno di lui. Con effetto immediato. “Di punto in bianco mi sono trovato senza lavoro”, racconta. E Corcovado senza ufficio postale.

Corcovado è un piccolo comune della provincia di Chubut, in Patagonia, nell’estremo meridionale del Sudamerica. ­Pick-up ammaccati, cani spelacchiati e casette colorate tra aspre montagne. La città più vicina è a 70 chilometri, non tutti di strade asfaltate. In Argentina quasi un terzo della popolazione si concentra tra la capitale Buenos Aires e i dintorni, mentre il resto è sparso tra cittadine, villaggi, borghi e fattorie isolate nella vastità della pampa, dell’altipiano di Puna o in Patagonia. In queste condizioni mantenere i contatti non è facile. Con la neve e con la pioggia le strade diventano impraticabili. I cellulari spesso non prendono, internet nel migliore dei casi funziona a singhiozzo e a volte ci sono blackout totali. Per fortuna c’è la posta. Anzi c’era: le filiali stanno chiudendo in tutto il paese. Secondo l’ultraliberista presidente argentino Javier Milei, infatti, le poste non servono, così come la radio e la televisione pubblica, la compagnia aerea statale o il sistema sanitario nazionale. Il presidente ha 53 anni e si definisce un “anarcocapitalista” libertario: meno stato c’è, più è contento. Il mercato dev’essere libero di agire.

Milei, in carica da dicembre, sta chiudendo uffici statali, cancellando finanziamenti e bloccando opere pubbliche. “Io sono la talpa dentro lo stato, lo distruggo dall’interno”, annuncia a gran voce, mentre i suoi sostenitori in tutto il mondo lo incoraggiano. In Argentina, però, le persone cominciano ad avere dei ripensamenti. Forse non a Buenos Aires, che ha milioni di abitanti, ma di certo in posti come Corcovado, dove già si vede cosa succede se un nemico dello stato ne assume la guida.Corcovado ha circa 2.500 abitanti e Villoldo dice di conoscerli tutti. Chiunque prima o poi ha a che fare con la posta per spedire una lettera, ritirare un pacco o la pensione. “All’ufficio postale facciamo tutto”, spiega, come se ci lavorasse ancora.

Villoldo ha 52 anni e la foto profilo di Whatsapp lo mostra mentre fa rafting, con le punte dei baffi ben arricciate. Ora ha la barba incolta e non fa sport da mesi. “A volte non riesco a uscire di casa”, dice. Oggi però si trascina ai fornelli e mette l’acqua sul fuoco, poi versa il mate in un grosso bicchiere e si lascia cadere sulla sedia di legno accanto al tavolo da pranzo. In teoria Villoldo non dovrebbe più stare qui: dal momento che l’appartamento è di proprietà delle poste, insieme al lavoro ha perso anche la casa. Ma non sapeva dove andare: ha lavorato alle poste per più di metà della sua vita. Dopo il diploma aveva cominciato a consegnare la posta a Esquel, una città ai piedi delle Ande argentine. Non era il lavoro dei suoi sogni, ma lo stipendio era buono e lui si trovava bene. In poco tempo era passato allo sportello, poi in amministrazione. Quando si liberò il posto di direttore dell’ufficio postale di Corcovado gli chiesero di gestire una filiale. L’offerta era allettante: uno stipendio migliore e un appartamento di servizio. Ma l’impatto fu scioccante: “Non c’era nemmeno un computer”, ricorda Villoldo. Non voleva restare più di due anni in questo paese abbandonato da dio.

“Invece ne sono passati venti”.

L’acqua per il mate

Sicuramente ha influito la posizione: Corcovado è circondata da fiumi con acque cristalline, in autunno le foglie dei faggi australi colorano di rosso le montagne e dalle sue finestre Villoldo vede i colibrì svolazzare sopra l’abbeveratoio. “Dove lo trovi un altro posto così?”.

Poi c’era il lavoro. Toccava darsi molto da fare, racconta, dato che era da solo in filiale: “Le giornate sembravano non finire mai”. Spesso le persone arrivavano dopo il tramonto e qualche volta prima dell’alba, in una mano le redini del cavallo che li aveva portati a Corcovado dal villaggio vicino, nell’altra un pezzo di carne per ringraziare Villoldo, che consegnava la posta prima di entrare in servizio. “Per cominciare mettevo a bollire l’acqua”, racconta. Poi restavano in cucina a bere il mate. “Amavo il mio lavoro”, dice passando una mano sul tavolo.

Con il senno di poi avrebbe dovuto aspettarselo, visto che Milei non ha mai tenuto nascosti i suoi piani. In campagna elettorale il leader di estrema destra esibiva spesso la motosega con cui avrebbe fatto a pezzi lo stato in caso di vittoria. Villoldo definisce “spaventose”quelle immagini, ma non si era preoccupato più di tanto: “Pensavo che non ci avrebbe riguardato”, dice. Era certo che a Buenos Aires nessuno avrebbe perso tempo con un villaggio sperduto della Patagonia.

Villoldo non credeva che il suo impiego potesse essere a rischio: oltre che un gran lavoratore era l’unico dipendente dell’ufficio postale di Corcovado. È stato tutto merito suo se in filiale sono arrivati i computer, racconta. Inoltre, quando era necessario, andava lui a consegnare lettere e pacchi nelle fattorie più isolate. “Con la pioggia, con il vento e anche con la neve”, dice.

Di sicuro non era uno ñoqui, la parola con cui in Argentina si definiscono quegli impiegati statali che incassano ottimi stipendi senza muovere un dito. Per Milei simboleggiano l’odiato stato, un’“associazione a delinquere”, come la chiama spesso. Una delle sue promesse prima di essere eletto era “ñoquis afuera”, fuori i fannulloni. Lo slogan ha funzionato anche a Corcovado, dove Milei ha vinto con 566 voti a favore.

Sarebbe stato interessante parlare con chi lo ha votato per sapere cosa pensa del fatto che a Corcovado non c’è più l’ufficio postale. E per chiedergli se Javier Villoldo era un fannullone o se il suo licenziamento è stato semplicemente un danno collaterale nella grande guerra di Milei contro i dipendenti statali che lavorano poco.

Nel piccolo supermercato il cassiere è sulla difensiva: “Lasciamo stare la politica”, dice. In piazza le cose non vanno meglio, pure dal ferramenta e nell’unico ristorante aperto del paese nessuno vuole parlare: a quanto pare tutti si sono astenuti o hanno votato per l’opposizione.

Una coincidenza? “Sciocchezze”, commenta Alejandra Ocampo. La gente si vergogna: “Chi ammetterebbe mai di aver votato per Milei?”. Lei non l’ha votato e quindi non ha nessun problema a parlare di politica. Tutt’altro: è un fiume in piena. “Ho grinta da vendere”. Prima di tutto, però, mi invita a entrare: “Ho preparato una torta”, dice.

Il laboratorio nella casa di Alejandra Ocampo. Corcovado, 2024

Ocampo ha 57 anni, i capelli grigi, una collana di legno e una voce risoluta. Per trent’anni ha insegnato nella scuola materna ed elementare di Corcovado e ora è in pensione. Ma non si annoia affatto. Dà ripetizioni e ha collaborato alla pubblicazione del libro “Corcovado, storie e ricordi”. E poi si dà un gran da fare per la questione dell’ufficio postale: con alcuni vicini ha presentato ricorso in tribunale per chiederne la riapertura. Il punto non sono solo le lettere e i pacchi, spiega Ocampo, il punto è lo stato nel suo insieme. “Qui ne abbiamo bisogno”, sostiene. Perché lei, la vita senza stato se la ricorda bene. Ocampo ci fa entrare nella casa costruita da lei e dal marito, con le loro mani. C’è tanto legno, ci sono ceramiche fatte a mano e strofinacci ricamati. Ocampo viene da Buenos Aires, ma fin da bambina sognava di diventare insegnante, preferibilmente in campagna. Subito dopo la laurea chiese di essere trasferita in Patagonia. La sua prima destinazione fu un paese a circa cento chilometri da Corcovado, praticamente quattro case a bordo strada. “Era un altro mondo”, racconta. Lì ha capito quello che nella capitale in molti ancora non sanno: l’Argentina è enorme e piena di differenze.

Quando a Buenos Aires già da un pezzo le famiglie avevano la tv a colori, in paese c’erano ancora adulti che non sapevano cosa fossero i mesi o i giorni della settimana. “Per loro c’erano solo le stagioni”, dice Ocampo: la stagione della semina e quella del raccolto, il resto non contava niente.

Ricorda una volta in cui mostrò ai suoi alunni alcune foto che li ritraevano e nessuno riuscì a riconoscersi. Solo dopo capì il motivo: i ragazzi non avevano mai visto i propri volti, perché in paese non c’erano specchi. “Stiamo parlando della fine degli anni ottanta”, dice.

Ocampo accende la luce sopra il tavolo della cucina e comincia a tagliare la torta. A Corcovado, la sua destinazione successiva, la vita era un po’ più moderna, ma d’inverno c’erano comunque bambini che non andavano a scuola perché non avevano le scarpe. C’era l’elettricità, ma solo fino a mezzanotte: il generatore comunale non riusciva a fare di più. L’isolamento era così forte che a volte gli abitanti non conoscevano la data delle feste nazionali.

Proprio per questo i pochi collegamenti con il mondo esterno erano importantissimi, primo fra tutti la radio: si ascoltavano soprattutto il programma Mensajes al poblador, messaggi alla popolazione, prodotto dalla sede locale della radiotelevisione pubblica. Nel programma vengono letti i messaggi degli abitanti del posto. Esiste ancora, perché molti villaggi argentini non sono connessi alla rete cellulare, a quella telefonica o a internet. Lo ascoltiamo un mercoledì alle sei del pomeriggio: un certo Juan vuole far sapere al fratello che non trova la catena della motosega, i nipoti fanno gli auguri di buon compleanno a Horácio, il cavallo di Nicolás è scappato e Néstor dovrà rimanere qualche altro giorno in qualunque posto si trovi, perché l’ospite non è ancora arrivato.

Messaggi in radio

Ocampo ascolta volentieri il programma radiofonico, anche se ormai a Corcovado tutti hanno il telefono e da qualche anno addirittura internet. “Ma per la gente è ancora importante”, spiega. La Patagonia è enorme e la radio ti fa sentire meno solo: avverti la presenza dei vicini e quella dello stato. Eppure a Javier Milei tutto questo non interessa: vuole chiudere le radio locali e i piccoli uffici postali, perché secondo lui non servono a nessuno.

Ocampo sbatte il pugno sul tavolo per quanto è arrabbiata. Per lei è una questione di principio: con l’ufficio postale, aperto poco tempo dopo il suo trasferimento a Corcovado, al villaggio fu assegnato un codice di avviamento postale (cap), il 9204. Oggi si è perso tutto, l’ufficio postale e anche il cap. “È come se ci avessero cancellato dalla cartina geografica”, dice la donna.

Poi ci sono i problemi pratici: sua figlia, per esempio, vive a Córdoba, una città nel nord dell’Argentina. Ocampo le spedisce spesso vestiti e marmellate di fragoline di bosco fatte in casa. Inoltre, lei e suo marito, spiega, hanno bisogno della posta per il lavoro: proprio di fronte alla cucina, lui ha un piccolo laboratorio pieno di trucioli e assi di legno, dove intaglia piatti e statuette di animali che una volta al mese spedisce ai clienti in tutto il paese. Prima gli bastava scendere all’ufficio postale e Javier Villoldo, in attesa dietro allo sportello, lo accoglieva con il suo “Come stai?”. Oggi, invece, devono arrivare fino a Trevelin, la città più vicina, 70 chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. “Lo sa quanto costa?”, chiede Ocampo. Da quando Milei ha cancellato i sussidi al carburante, il prezzo della benzina è triplicato. E spesso quando nevica è impossibile raggiungere Trevelin, perché la strada è in pessime condizioni. Anche in questo caso, la colpa è di Milei. “Comunque è meglio parlarne anche con il sindaco”, dice Ocampo al momento dei saluti, mentre mi consegna un barattolo di marmellata fatta in casa.

Il municipio di Corcovado è un edificio disadorno a un solo piano con il tetto di lamiera verde. All’ingresso c’è un cartello che avverte della presenza di puma nei dintorni. “Non date mai la schiena all’animale”, c’è scritto. E se non dovesse bastare, urlate a più non posso.

Il sindaco Ariel Molina ci riceve nel suo ufficio. “Buenos Aires e Corcovado sono due mondi completamente diversi”, dice. Forse nella capitale non hanno bisogno dello stato, “ma noi invece sì”. La strada è un buon esempio: per molto tempo è stata un semplice sterrato, poi qualche anno fa il governo decise di asfaltarla. “Una pietra miliare”, la definisce Molina. I lavori procedevano bene fino a quando Milei ha vinto le elezioni e ha subito bloccato tutte le opere pubbliche. Oggi sulla strada che collega Corcovado a Trevelin l’asfalto s’interrompe a metà. “Non ha senso”, dice Molina.

Certo, i lavori potrebbe terminarli un’azienda privata, che attraverso un pedaggio potrebbe coprire i costi e guadagnarci. L’idea di Milei è più o meno questa: lasciare che se ne occupi il mercato. A Buenos Aires, che ha milioni di abitanti e ancora più automobili, questa strategia forse può funzionare, commenta Molina. Ma a Corcovado è impossibile: può capitare che in un’intera giornata non passino più di cento auto.

Molina è sindaco da quasi nove anni e i vincoli a cui devono sottostare i politici li conosce bene: i soldi sono sempre pochi e le esigenze tante. Prima però è stato imprenditore e sa bene che i numeri contano, “ma non sono tutto”, sostiene.

Si prenda come esempio il tasso d’inflazione in calo, che ultimamente ha raggiunto all’incirca il 4 per cento: sembrerebbe un’ottima notizia, eppure è dovuta principalmente al fatto che la gente non ha più soldi da spendere. Con Milei al governo in Argentina sono crollati i consumi e, secondo Molina, anche a Corcovado tanti negozianti sono sull’orlo della disperazione. “Non hanno scelta: sono costretti ad abbassare i prezzi”, spiega. Così scende pure il tasso d’inflazione.

Ovviamente Molina conosce le vanterie di Milei secondo cui finalmente l’Argentina è tornata ad avere un avanzo di bilancio. “Ma a che prezzo?”, si chiede il sindaco. A Buenos Aires gli anziani scendono in piazza perché con le loro pensioni, che il governo rifiuta di aumentare, non arrivano a fine mese. Molina ha visto le immagini delle manifestazioni in tv: lacrimogeni, idranti e poliziotti che picchiano persone anziane. “È assurdo”, commenta, lo stato dovrebbe proteggere i suoi cittadini.

Bandiera ammainata

E invece a Corcovado si distribuiscono pacchi alimentari ai bisognosi, finanziandoli con i soldi delle casse comunali già quasi vuote. Sempre più spesso gli abitanti chiedono legna da ardere: la maggior parte delle case è allacciata al gas, spiega Molina, ma da quando il governo ha tagliato i sussidi, molti non possono più permettersi di usarlo per il riscaldamento e la cucina. “Alla fine non rimane altro che la buona vecchia stufa a legna”.

E ora? Molina fa spallucce. Hanno ottenuto il proseguimento dei lavori per asfaltare la strada, i soldi non li metterà lo stato ma la provincia. E un negoziante si occupa di trasportare lettere e pacchi nella città più vicina: “Costa il triplo di quanto costava all’ufficio postale”, osserva Molina. Ma l’ufficio resta chiuso. Qualche anno fa Villoldo aveva montato un’asta all’esterno della piccola filiale e ogni mattina issava la bandiera nazionale bianca e azzurra per poi ammainarla a sera.

“Mi sembrava naturale”, spiega. La posta non è solo un servizio, è un simbolo dello stato, che doveva mostrare la sua presenza anche a Corcovado, a duemila chilometri dalla capitale. Alle finestre e alla staccionata dell’ufficio postale oggi sono appese delle lenzuola colorate. “No alla chiusura dell’ufficio postale”; “Ecco dove comincia la demolizione di Milei”, c’è scritto. L’asta è ancora in piedi, ma la bandiera argentina non sventola più. ◆ sk

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1585 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati