Per provare a spiegare le recenti rivolte nelle periferie francesi, sicuramente le più gravi da quelle del 2005, e le incomprensioni politiche che suscitano è indispensabile analizzare il malessere nelle diverse aree del paese. Le periferie oggi in fiamme hanno in comune con le cittadine e i paesi di campagna molte più cose di quanto si pensi. Per uscire dalle contraddizioni attuali la politica dovrà avvicinarsi a questi territori svantaggiati.

Facciamo un passo indietro. Tra il decennio 1900-1910, e il 1980-1990, in Francia le disuguaglianze economiche tra le diverse aree del paese sono diminuite, sia per quanto riguarda il prodotto interno lordo (pil) pro capite nei vari dipartimenti sia per la ricchezza immobiliare o il reddito medio nei comuni e nei dipartimenti. Dopo il 1990 invece è successo il contrario: il rapporto tra il pil pro capite dei cinque dipartimenti più ricchi e il pil dei cinque più poveri – sceso da 3,5 a 2,5 tra il 1900 e il 1985 – è salito di nuovo a 3,4 nel 2022.

Le periferie hanno in comune con i piccoli centri e i paesi di campagna molte più cose di quanto si pensi. Il punto è che oggi ci sono ovunque grandi disuguaglianze

Stiamo assistendo a una concentrazione inedita del prodotto interno lordo in alcuni dipartimenti dell’Île-de-France (in particolare Parigi e l’Hauts-de-Seine) dovuta all’espansione senza precedenti del settore finanziario e all’aumento del personale nelle grandi aziende, a scapito dei centri industriali della provincia. Questa evoluzione è stata esasperata dalla deregolamentazione finanziaria e dalla liberalizzazione commerciale, oltre che da investimenti pubblici favorevoli a Parigi e alle grandi città (più fondi per i treni ad alta velocità rispetto ai regionali).

Evoluzioni simili si osservano nelle disuguaglianze tra i comuni. Il rapporto tra la ricchezza immobiliare media dell’1 per cento dei comuni più ricchi e dell’1 per cento dei più poveri è passato da dieci nel 1985 a sedici nel 2022. In alcuni dipartimenti del centro-sud il prezzo medio delle case è di appena sessantamila euro. Supera gli 1,2 milioni nel settimo arrondissement di Parigi e in altre località dell’Île-de-France vicino alla capitale.

Il rapporto tra il reddito medio dell’1 per cento dei comuni più ricchi e il reddito medio dell’1 per cento dei più poveri è passato invece da cinque nel 1990 a più di otto nel 2022. Il reddito medio è di appena otto-novemila euro all’anno in questi ultimi. Raggiunge i settanta-ottantamila nei primi. E supera i centomila nel settimo e ottavo arrondissement della capitale.

Il punto centrale è che in Francia attualmente ci sono grandi disuguaglianze ovunque, sia nelle grandi città sia nei piccoli paesi. Al vertice della gerarchia si trovano i quartieri più ricchi delle città, una parte dei centri di provincia e di piccoli paesi ricchi. In fondo alla piramide ci sono le periferie povere, pesantemente colpite dalla deindustrializzazione, ormai nelle stesse condizioni di alcune cittadine, e i paesi di campagna più poveri.

Questi diversi territori svantaggiati affrontano problemi specifici. Le periferie povere hanno un’esperienza più forte delle discriminazioni, com’è emerso dal comportamento della polizia. È urgente che lo stato si doti dei mezzi per misurare rigorosamente l’evoluzione di queste discriminazioni.

I territori svantaggiati sono caratterizzati anche da un’integrazione specifica nella struttura produttiva. Le periferie povere ospitano molte persone impiegate nei servizi (commercio, ristorazione, pulizie, sanità), che continuano a votare a sinistra. Al contrario, nelle cittadine e nei piccoli paesi vivono soprattutto operai esposti alla concorrenza internazionale, che si sono sentiti abbandonati dai governi di sinistra e di destra degli ultimi decenni e sono passati a sostenere il Rassemblement national di Marine Le Pen (estrema destra). Ma, contrariamente a quanto immaginano i politici dello schieramento nazionalista, questi elettori si aspettano delle risposte socioeconomiche ai loro problemi e non battaglie identitarie.

La verità è che le periferie e le cittadine povere hanno molte cose in comune, soprattutto per quello che riguarda l’accesso ai servizi pubblici e ai bilanci comunali. Il motivo è semplice: le risorse degli enti pubblici dipendono per lo più dalla base fiscale locale e i dispositivi nazionali che dovrebbero ridurre queste disuguaglianze non hanno risolto il problema.

Dopotutto la spesa pubblica per abitante è più alta nei comuni ricchi che in quelli poveri, per cui i fondi pubblici esasperano le disuguaglianze invece di correggerle. Di fronte all’immobilismo del governo Macron e dell’estrema destra, ora spetta alla sinistra aggregare le aree svantaggiate attorno a una piattaforma comune. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1520 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati