Il 27 dicembre 2023 con la morte di Jacques Delors, presidente della Commissione europea dal 1985 al 1995, si è chiusa una pagina della storia europea. Oggi è tempo di fare un bilancio critico di quel periodo e di trarne insegnamenti per il futuro, a pochi mesi dalle elezioni europee. L’Atto unico europeo del 1986 (che stabiliva la libera circolazione di beni e servizi), la direttiva del 1988 sulla liberalizzazione dei flussi di capitali, il trattato di Maastricht del 1992: dire che l’Europa attuale è stata plasmata in quegli anni è riduttivo. In particolare fu il trattato di Maastricht, approvato con un referendum dagli elettori francesi nel settembre 1992, a trasformare la vecchia Comunità economica europea (Cee) in Unione europea e a dotarla di una moneta unica.
L’euro è entrato in vigore nel 1999 per le aziende e nel 2002 per le persone fisiche. Il trattato per istituire la costituzione europea, entrato in vigore con qualche piccolo cambiamento come trattato di Lisbona il 1 dicembre 2009, si è limitato a consolidare le decisioni prese tra il 1986 e il 1992 e a inserire nella costituzione i princìpi di libera concorrenza e di libera circolazione, senza grandi novità. Il patto di stabilità e crescita del 2012 ha inasprito i criteri di Maastricht fissati sul debito e i deficit, anche qui senza innovazioni sostanziali.
Nessuno sa cosa sarebbe successo senza la moneta unica. D’altra parte, sappiamo che per risolvere tutti i problemi non basta semplicemente battere moneta
Per capire cosa ci fosse in gioco nei negoziati europei tra il 1985 e il 1995, l’opera di riferimento resta Capital rules. The construction of global finance (Harvard University Press, 2007) del professor Rawi Abdelal. Sulla base di decine d’interviste con protagonisti politici e alti funzionari europei dell’epoca, Abdelal analizza le visioni per il futuro e i margini di trattativa degli uni e degli altri. Per riassumere, i socialisti francesi scommettevano sul fatto che la creazione dell’euro e della Banca centrale europea (Bce), un’istituzione federale che prende le decisioni a maggioranza, avrebbe creato un potere pubblico europeo in grado di regolare meglio le forze economiche, rispetto per esempio al governo di unità delle sinistre francesi emerso dalle elezioni del 1981. Per ottenere quel risultato, i socialisti accettarono la richiesta dei cristiano-democratici tedeschi, che caldeggiavano la liberalizzazione totale dei flussi di capitale senza alcuna regolamentazione pubblica. Furono così poste le basi del compromesso.
Trent’anni più tardi il bilancio di queste innovazioni è fortemente ridimensionato. Da un lato la Bce ha avuto un ruolo chiave per evitare il collasso generalizzato in seguito alla crisi finanziaria del 2008 e alla pandemia. Dopo alcuni errori iniziali in occasione della crisi greca e della ricaduta nell’austerità del 2012-2013, la modalità di decisione a maggioranza ha permesso alla Bce di superare i veti nazionali (soprattutto tedeschi) e di mobilitare somme considerevoli per stabilizzare l’economia europea. Nessuno sa cosa sarebbe successo senza la moneta unica, anche se va detto che i paesi nordici rimasti fuori dall’euro non se la sono cavata così male (ma neppure così bene). Oggi nessun politico credibile in Francia propone di tornare al franco.
D’altra parte, sappiamo che per risolvere tutti i problemi non basta semplicemente battere moneta. I banchieri centrali, inoltre, hanno preferito salvare gli istituti di credito che investire nella formazione, nella sanità e nella lotta ai cambiamenti climatici. Così hanno contribuito ad aumentare la concentrazione delle ricchezze, perché i più ricchi beneficiano della crescita dei titoli di borsa e immobiliari consentita dalle acquisizioni dei titoli e dal denaro pubblico, mentre il risparmio delle persone meno abbienti è schiacciato dall’inflazione. Le regole europee di libera circolazione dei capitali si sono rivelate così estreme che perfino il Fondo monetario internazionale ha deciso di reintrodurre alcune forme di controllo dei capitali.
Le nuove regole europee hanno anche contribuito ad aggravare il dumping fiscale (quando uno stato offre tasse più basse per attirare aziende e persone straniere): riduzione senza limiti dell’imposta sulle aziende, sviluppo dei paradisi fiscali, imposizione fiscale debole sui miliardari e i milionari.
Cosa deve fare la Francia di fronte a questa eredità? Innanzitutto, proporre ai suoi partner europei di costituire all’interno dell’Unione uno zoccolo duro in grado di prendere decisioni a maggioranza in materia di bilancio, fisco e ambiente, quella che io chiamo Unione parlamentare europea (Upe). Anche se non dovesse vedere la luce a breve termine, questo dev’essere l’obiettivo primario.
In seguito, in attesa di trovare un compromesso, serviranno misure contro il dumping fiscale, sociale e ambientale europeo ed extraeuropeo. Questo provocherà delle crisi complesse ma superabili, se manterremo una coerente direzione internazionalista, e probabilmente inevitabili se vogliamo uscire dallo stallo attuale. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1548 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati