I parlamentari statunitensi vogliono vietare l’uso di TikTok. Gli sfugge però una questione più importante: dovrebbero proibire anche Instagram, Facebook e X, noto in precedenza con il nome di Twitter? La risposta ovvia è “no” perché, anche se tutti ci lamentiamo dei social, continuiamo a usarli e questo suggerisce che in fondo gli attribuiamo ancora un valore. Ma se non fosse così? Se ci fosse qualcosa nei social media che c’induce a usarli anche se non ci piacciono? Un confronto ovvio è quello con il fumo. Uno studio condotto più di vent’anni fa dagli economisti Jonathan Gruber e Sendhil Mullainathan si chiedeva: “Le tasse sulle sigarette rendono i fumatori più felici?”. La conclusione era “sì”. Gli autori avevano scoperto che le tasse sulle sigarette giovano al tipo di persona che ha più probabilità di fumare, perché dissuadono alcuni dal cominciare a fumare e convincono altri a smettere.
Un punto di vista più intrigante è che i social media siano, per dirla con gli economisti Leonardo Bursztyn, Ben Handel, Rafael Jiménez e Christopher Roth, una “trappola collettiva”. Mettiamo che non vi piacciano Instagram o Facebook ma che i vostri amici li ritengano un modo comodo per comunicare: a quel punto potreste convincervi che usare queste piattaforme abbia senso, anche se vivreste meglio senza. Seguendo la tesi di Bursztyn e dei suoi colleghi, anche se gli smartphone di per sé non provocassero dipendenza (e la provocano), potremmo essere costretti ad aprire i social sul telefono perché l’alternativa è essere tagliati fuori.
È plausibile che i social media stiano distruggendo il benessere degli adolescenti, e al tempo stesso che ciascuno di loro pensi che la sua vita sarebbe peggio se li abbandonasse
I ricercatori hanno testato quest’idea reclutando studenti e offrendogli dei soldi per disattivare i loro account TikTok e Instagram per quattro settimane. In media per convincerli servivano circa cinquanta dollari per account. Quando, però, si prospettava l’idea che a tutti gli studenti dell’università fosse chiesto di disattivare i loro account, gli intervistati erano disposti a pagare loro circa cinquanta dollari per vivere un mese in un mondo senza TikTok e Instagram (67 dollari per far spegnere a tutti TikTok, 39 per far spegnere a tutti Instagram).
Non serve soffermarsi sui numeri per restare colpiti dal contrasto. Agli studenti non piace l’idea di essere gli unici a non poter accedere ai loro account, ma sarebbero felici di vivere in un mondo in cui i social non esistono. È un genere di esternalità molto pericoloso. Come ha dichiarato Bursztyn al podcast Freakonomics, una trappola collettiva prodotto-mercato è come il fumo passivo, solo che “l’unico modo per evitare il fumo passivo è fumare”.
Questa scoperta offre nuove indicazioni sul fatto ormai dimostrato che i social media ci stanno rendendo tutti – soprattutto gli adolescenti, e in particolare le ragazze – più infelici. Secondo i dati resi noti nei giorni scorsi dal World happiness record, negli Stati Uniti la felicità delle persone che hanno meno di tredici anni è in forte calo. Dal 2012, anno in cui il rapporto ha cominciato a essere pubblicato, gli Stati Uniti erano sempre tra i venti paesi più felici al mondo. Oggi la crisi dei più giovani ha trascinato il paese fuori da quel gruppo di testa: se valutiamo il benessere di quella fascia d’età, gli Stati Uniti si collocano al 62° posto. Questo è dovuto all’ubiquità dei social media? Non è chiaro.
C’è differenza tra quello che ci dicono le tendenze generali e le scoperte di ricerche specifiche. Le tendenze generali sembrano fosche secondo Jean Twenge, autore di Iperconnessi (Einaudi 2018), e Jonathan Haidt, autore di The anxious generation (Penguin Press 2024), che indicano un incremento di livelli d’ansia, depressione e autolesionismo negli adolescenti dal periodo in cui hanno avuto accesso ai social media sugli smartphone.
D’altro canto, ricerche più specifiche non forniscono prove del fatto che gli adolescenti stiano meglio quando tentano una disintossicazione digitale. Al contrario, se si disconnettono si sentono tagliati fuori. Dal punto di vista della trappola collettiva, però, non ci sono contraddizioni.
È plausibile che i social stiano distruggendo il benessere di una generazione, e al tempo stesso che ciascun adolescente pensi che la sua vita sarebbe peggio se li abbandonasse. Si potrebbe estendere il ragionamento all’automobile. Le persone prendono la macchina anche quando potrebbero camminare o andare in bicicletta perché non si sentono al sicuro per strada. Ma quali sono i pericoli più grandi per strada? Le persone che guidano.
È in momenti come questo che il libertario assopito dentro di me si sveglia per ricordare che la libertà individuale è preziosa. Vero. In realtà non penso che Instagram o le auto dovrebbero essere vietati. Ma le trappole collettive sono reali. Ci sono momenti e luoghi (vicino alle scuole) in cui quasi tutti starebbero meglio se a nessuno venisse permesso di usare uno smartphone. O un’automobile. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1556 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati