Ci vuole un bello sforzo per far rimpiangere i politici della prima repubblica italiana, ma nella scorsa settimana quelli della seconda ci sono riusciti.
Il modo in cui sono arrivati a rieleggere presidente della repubblica Sergio Mattarella, ottant’anni, ha messo in luce una classe politica in conflitto con se stessa, ma con un comune interesse egoistico per la propria sopravvivenza. La rielezione evita un disastro immediato: la caduta del governo riformista del presidente del consiglio Mario Draghi. Ma ci si chiede se i politici italiani, pur avvantaggiandosi in vista delle elezioni politiche del 2023, siano in grado di mostrare un maggior senso di responsabilità nei confronti di un paese che affronta un momento critico.
L’espressione “prima repubblica è generalmente usata per definire il sistema politico che ha governato l’Italia dalla fine della seconda guerra mondiale all’inizio degli anni novanta, quando è stato travolto da accuse di corruzione e altri scandali. La seconda repubblica, che negli ultimi trent’anni è passata da una crisi all’altra, avrebbe dovuto rappresentare un nuovo inizio.
Opportunità unica
Gli eventi che hanno preceduto l’elezione di Mattarella dimostrano invece i penosi difetti dei partiti, sia dei vecchi come la Lega sia di quelli relativamente nuovi come il Movimento 5 stelle. Per garantire la stabilità, la democrazia italiana si è affidata sempre di più al talento e alla maturità di persone che non appartengono alla politica, come Draghi, chiamate per tenere dritta la barra del timone, cosa che i politici non riescono a fare da soli.
I partner europei e i mercati finanziari saranno sollevati nel sapere che per il prossimo anno Draghi sarà in grado di consolidare le riforme che ha impostato da quando è diventato capo del governo nel 2021. Queste riforme sono finanziate con circa duecento dei 750 miliardi di euro del fondo europeo per la ripresa. Questi soldi rappresentano un’opportunità unica per aiutare la crescita, l’occupazione e l’innovazione in un’economia che dagli anni novanta langue a causa della stagnazione e dell’alto debito pubblico.
Potrebbe anche succedere che Mattarella svolga solo una parte del suo secondo mandato di sette anni, dando a Draghi la possibilità di prendere il suo posto, continuando così a supervisionare le riforme. Ma questo risultato è tutt’altro che garantito e lascerebbe comunque aperta la questione di quanto sarà riformista il governo che si formerà dopo le elezioni del 2023.
Sistema bloccato
Il 29 gennaio è stato straordinario vedere i politici applaudire quando, all’ottava votazione, si sono trovati finalmente uniti nel nome di Mattarella, mentre la precedente situazione di stallo aveva sottolineato le divergenze nel governo di cosiddetta “unità nazionale”. Non per niente Enrico Letta, il segretario del Partito democratico (Pd), ha affermato che le elezioni presidenziali hanno rivelato “un sistema politico bloccato”. Come Giorgio Napolitano, che nel 2013 aveva accettato un secondo mandato da presidente con profonda riluttanza, Mattarella aveva detto di non volere una rielezione, ma i partiti non sono riusciti a trovare qualcuno che avesse la sua statura istituzionale e la sua popolarità. Alla fine hanno deciso per un suo secondo mandato, perché temevano che qualsiasi altra scelta avrebbe potuto causare la caduta del governo e le elezioni anticipate: il prossimo parlamento avrà un numero minore di seggi per cui molti parlamentari avrebbero perso potere, privilegi e pensioni.
In mezzo a tutti questi calcoli egoistici, un partito ha cercato di distinguersi: Fratelli d’Italia, la formazione di estrema destra guidata da Giorgia Meloni, è stato l’unico grande partito ad aver rifiutato di entrare nel governo Draghi, e i sondaggi dimostrano che attualmente è il partito più popolare della destra. Tra quasi un anno l’Italia potrebbe decidere di nominare la prima presidente del consiglio di estrema destra dal dopoguerra. ◆ bt
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Questo articolo è uscito sul numero 1446 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati