Quando è stato arrestato mentre faceva una ricerca sulla magistratura egiziana, Waleed Salem, dottorando dell’università di Washing­ton, negli Stati Uniti, ha chiesto di cosa era accusato. Adesione a un gruppo terroristico e diffusione di notizie false, ha risposto la procura. “Per un attimo sono stato sollevato, perché era così assurdo, non c’erano prove, era tutto molto facile da confutare”, dice il ricercatore di 42 anni. Ma come poi avrebbe scoperto “una volta che ti appioppano queste etichette, entri in un buco nero”. Ormai era intrappolato. Trattenuto in custodia cautelare, Salem non è mai stato processato né formalmente incriminato. Invece, ogni volta che arrivava la scadenza del periodo di detenzione legale, un magistrato prolungava la sua reclusione in un’udienza che di solito durava circa un minuto e mezzo. “I primi cinque mesi cerchi di convincerti che sono solo cinque mesi”, afferma Salem. “Ma una volta che passano e tu sei sempre lì, cominci a temere il peggio”.

Secondo i ricercatori e le organizzazioni per i diritti umani, l’Egitto detiene decine di migliaia di prigionieri politici. Il loro numero è lievitato a causa della repressione sempre più dura attuata dal presidente Abdel Fattah al Sisi contro i dissidenti. Anche i predecessori di Al Sisi incarceravano gli oppositori, ma lui lo ha fatto su scala enormemente più vasta, trasformando la procedura amministrativa della detenzione preventiva nel motore principale della repressione.

Le forze di sicurezza arrestano le persone in strada o nelle loro case, facendole sparire senza comunicarlo alle famiglie o agli avvocati. Quando i detenuti ricompaiono sotto custodia i procuratori li accusano di attività terroristica e li trattengono per mesi o anni senza neppure dover presentare le prove in un processo.

La vicenda di cui Salem è rimasto vittima nel 2018 ha colpito egiziani di ogni tipo, etichettati come nemici dello stato anche per critiche molto blande. Un politico è stato arrestato perché pensava di candidarsi contro Al Sisi; due donne per essersi lamentate dell’aumento del biglietto della metropolitana; e una recluta per aver pubblicato su Facebook un’immagine di Al Sisi con le orecchie da Topolino. Alcuni prigionieri politici hanno avuto dei processi, anche se sbrigativi, e hanno ricevuto condanne pesanti. Ma ai detenuti in custodia cautelare non è concessa nemmeno questa giustizia di facciata.

Nei tribunali speciali per il terrorismo, in cui il governo di Al Sisi trascina gli oppositori politici, le autorità non presentano accuse formali o prove, e in molti casi non consentono ai detenuti neanche di difendersi. Non esistono atti pubblici che documentino quante persone sono detenute in custodia cautelare. Ma un’analisi fatta dal New York Times sui registri dei tribunali scritti a mano da avvocati difensori volontari mostra per la prima volta il numero di persone detenute senza processo, e la spirale di procedure legali che può trattenerle a tempo indeterminato.

Per stimare quanti sono stati incastrati in questo circolo vizioso, il New York Times ha confrontato i nomi e i numeri di fascicolo delle persone comparse più volte in tribunale. Spesso sono usate grafie e numeri di fascicolo diversi, rendendo impossibile un calcolo esatto. Ma abbiamo usato un soft­ware per esaminarli e controllare attentamente tutte le voci tenendo conto delle grafie simili.

Il totale reale è probabilmente maggiore della nostra stima, che è solo un’istantanea parziale del sistema. Infatti il nostro calcolo non considera i detenuti arrestati e rilasciati entro i cinque mesi, che è il limite dopo il quale si viene chiamati in tribunale per la prima volta. E non include neppure gli egiziani incriminati fuori della capitale. Inoltre non ci sono resoconti pubblici dei prigionieri trattenuti in modo non ufficiale nelle stazioni di polizia e nelle basi militari, o di chi è semplicemente scomparso.

Protestare è vietato

“I cittadini comuni finiscono in arresto sempre più spesso”, afferma Khaled Ali, un avvocato per i diritti umani. La custodia cautelare dovrebbe servire per dare alle autorità il tempo di indagare, dice. “Ma in realtà è usata come punizione”. Le organizzazioni per i diritti umani stimano che in Egitto ci siano 60mila prigionieri politici, un numero che comprende i detenuti in custodia cautelare e quelli che sono stati processati e condannati, le persone sospettate di terrorismo o accusate di avere opinioni politiche non allineate.

L’Egitto da tempo smentisce di avere prigionieri politici. Le persone arrestate con l’accusa di criticare le autorità, dicono i funzionari, minacciano l’ordine pubblico. “Anche protestare è vietato per legge”, ha dichiarato in un’intervista Salah Sallam, ex esponente del consiglio nazionale per i diritti umani, un organo di nomina governativa. “Non si può definire prigioniero politico una persona che ha cospirato contro lo stato”.

Alcuni funzionari hanno cominciato ad ammettere che s’incarcerano persone per le loro idee politiche, affermando però che è una pratica necessaria per ripristinare la stabilità dopo la rivoluzione del 2011.

In carcere e nei tribunali non c’è mai stata alcuna finzione sulla natura del reato. Secondo avvocati ed ex detenuti, le guardie e i giudici si riferiscono apertamente ai detenuti non legati a crimini violenti chiamandoli “politici”. Ufficialmente, però, la maggior parte di quelli che si trovano in custodia cautelare è accusata di adesione a gruppi terroristici, indipendentemente dal fatto di essere o meno legati a fatti violenti. Così le autorità arrestano in nome della sicurezza chi è considerato un oppositore. Il governo non fa distinzione tra un militante che piazza bombe e un utente di Facebook che si lamenta dell’aumento dei prezzi: entrambi sono etichettati come terroristi.

Un gruppo di ricerca egiziano che monitoria il sistema giudiziario ha scoperto che dal 2013 al 2020 circa 11.700 persone sono state incriminate per reati di terrorismo. La stragrande maggioranza non ha legami con l’estremismo violento. “Questo dimostra come l’accusa di terrorismo abbia perso qualunque significato”, dice Mohamed Lotfy, direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecrf), che rappresenta i prigionieri politici. “È una cosa insensata, irrazionale”.

Gabbie di vetro

Il quadro giuridico della custodia cautelare dà una parvenza di giusto processo. Ma le interviste condotte con decine di persone – tra cui detenuti, ex detenuti, familiari, avvocati, attivisti e ricercatori – dipingono un sistema in cui procuratori e giudici restringono o negano sistematicamente qualunque diritto dei carcerati.

Durante un processo al Cairo, l’8 settembre 2018  (Mohamed el Shahed, Afp/Getty Images)

Nei primi cinque mesi, i detenuti possono essere trattenuti legalmente per due settimane sulla base delle accuse presentate dai procuratori, e il periodo può essere prorogato se i procuratori chiedono più tempo per indagare. È quello che succede nella maggior parte dei casi, così la reclusione si rinnova ogni quindici giorni senza che siano presentate accuse formali o prove. Dopo cinque mesi il detenuto ottiene un’udienza davanti al giudice di un tribunale antiterrorismo, che può rinnovare la reclusione per 45 giorni. In teoria le udienze danno ai detenuti la possibilità di contestare la loro incarcerazione. In realtà, gli avvocati difensori sono rari e quasi mai vengono presentate delle prove. Le udienze sono chiuse al pubblico, perfino ai familiari dei detenuti. Gli imputati compaiono in gabbie di vetro affollate e insonorizzate, quindi non possono parlare al giudice né sentire i verdetti.

Dopo cinque mesi di custodia cautelare, Waleed Salem è passato al tribunale antiterrorismo. Quando è stato fatto il suo nome, il giudice ha premuto un pulsante riattivando l’audio della gabbia e consentendogli di parlare. “Vostro onore, io sono solo uno studioso come lei”, ha detto. “Ho una figlia, la prego, lo tenga in considerazione”. Un avvocato nominato per rappresentare Salem e una mezza dozzina di altri imputati si è avvicinato al banco, spiegando che l’accusa non aveva mostrato prove e che le incriminazioni erano vaghe e infondate. Il giudice ha prorogato la reclusione per altri 45 giorni.

Salem è stato liberato nel dicembre 2018, quasi sette mesi dopo il suo arresto. Ma non può ancora lasciare il paese, e non può vedere la figlia che vive in Polonia con la madre. “Sapevo cosa aspettarmi”, dice, “ma ci si aggrappa sempre alla speranza”.

La pandemia ha peggiorato la situazione. Dal 2021 gli agenti portano i detenuti in stanze sotto le aule senza condurli davanti al giudice: un modo per rispettare l’obbligo di trasferirli in tribunale impedendogli però di rivolgersi al giudice, e per risparmiare tempo. Le autorità presentano le misure come precauzioni contro il covid-19. Ma questa spiegazione sarebbe più credibile, dicono avvocati e organizzazioni per i diritti umani, se le carceri non fossero sovraffollate, se le autorità non avessero negato i dispositivi di protezione ai detenuti e non avessero impedito ai familiari di fornirglieli.

Tutto da capo

Alcune udienze durano pochi minuti prima che il giudice firmi l’ordine di rinnovo. “Tutto questo non ha nulla a che fare con la giustizia”, dice Khaled el Balshy, il direttore di Darb, uno dei pochi mezzi d’informazione non allineati al governo. “Recitiamo tutti una parte. È una farsa”. I periodi di 45 giorni possono essere rinnovati ripetutamente per un massimo di due anni. Dopodiché la legge prevede che il detenuto sia rilasciato, ma non sempre succede. In molti casi le procure aprono un nuovo procedimento, facendo ricominciare da capo il conto dei due anni. Tra il gennaio 2018 e il dicembre 2021 è capitato ad almeno 1.764 detenuti, secondo l’Egyptian transparency center for research, documentation and data management. Più di un quarto di loro ha dovuto affrontare due inchieste. Alcuni sette.

Ola Qaradawi, 56 anni, e suo marito Hosam Khalaf, 59, sono stati arrestati durante una vacanza con la famiglia nel nord dell’Egitto nel 2017. I coniugi, entrambi residenti negli Stati Uniti, sono stati accusati di legami con un gruppo terroristico. Ma sembra che il vero crimine fosse che erano vicini a un dissidente di spicco del colpo di stato che nel 2013 aveva portato al potere Al Sisi. Dopo due anni di carcere, che Qaradawi ha trascorso in isolamento, è arrivato l’ordine di scarcerazione per entrambi. Ma invece di mandarli a casa, gli agenti li hanno portati in procura, dove sono stati accusati di aver commesso nuovi reati in carcere. “Stavamo organizzando la festa per il rilascio”, racconta la figlia, Aya Khalaf, cittadina statunitense. “Era come se tutto quello che avevamo passato fosse stato gettato al vento”. Ola Qaradawi è stata rilasciata nel dicembre 2021, dopo quattro anni di detenzione. Suo marito è ancora in carcere.

Anche se custodia cautelare e pena detentiva sono legalmente due cose diverse, spesso la prima equivale a una pesante punizione. I detenuti sono chiusi in carceri sovraffollate e sporche, a volte per anni. Sono spesso privati di visite, lenzuola, cibo e cure mediche. La tortura è diffusa. Le organizzazioni per i diritti umani affermano che negli ultimi cinque anni in Egitto centinaia di persone sono morte mentre erano in custodia cautelare.

Il governo sostiene che uno dei motivi per cui bisogna aspettare tanto per avere un processo è che il sistema giudiziario è intasato. Procure e tribunali non riescono a stare dietro al ritmo degli arresti, aumentati man mano che l’Egitto estendeva la sua crociata contro il dissenso. Andato al potere dopo che nel luglio 2013 l’esercito aveva deposto Mohamed Morsi (il primo presidente democraticamente eletto del paese) Al Sisi aveva promesso sicurezza e prosperità, tutto quello che molti egiziani desideravano dopo anni di caos e conflitto sociale. Ma ha usato la stabilità per giustificare l’autoritarismo.

All’inizio il governo si è concentrato sui Fratelli musulmani, il movimento islamista guidato da Morsi, accusandoli degli attacchi armati che tormentavano il paese. Il gruppo era considerato una minaccia politica, così le autorità hanno preso di mira chiunque fosse sospettato di farne parte o di andare alle sue manifestazioni. Poi è stato il turno di oppositori politici, attivisti, giornalisti e professori universitari. Secondo l’organizzazione che monitora il sistema giudiziario, dal 2013 al 2020 sono stati arrestati 110 attivisti, 733 operatori dell’informazione e 453 professori. Alla fine la repressione ha toccato anche manifestanti e cittadini comuni.

Retate e agguati

Quando nel 2019 ci sono state deboli proteste antigovernative sono state arrestate almeno quattromila persone, comprese molte che erano solo di passaggio. Questi arresti hanno anticipato un giro di vite molto più ampio in cui le autorità, memori della rivoluzione del 2011, hanno cercato di prevenire nuove agitazioni arrestando persone che secondo loro potevano avere idee sovversive.

A piazza Tahrir, nel centro del Cairo, dove nel 2011 Facebook e Twitter avevano contribuito a radunare centinaia di migliaia di manifestanti, gli agenti della sicurezza hanno cominciato ad arrestare i passanti dopo averli fermati in modo casuale e aver ispezionato i loro telefoni e i profili sui social network alla ricerca di contenuti politici. Al ministero dell’interno esiste un’unità apposita, che passa al setaccio i social network alla ricerca di post critici verso il governo, facendo arrestare alcuni utenti per aver semplicemente cliccato “mi piace” o condiviso i contenuti. Durante gli anniversari politicamente sensibili come quello della rivoluzione, la polizia fa retate e arresta i giovani che camminano vicino ai punti caldi della protesta del 2011.

Secondo l’Egyptian transparency center, tra il 2020 e il 2021 più di 16mila persone sono state incarcerate, arrestate o convocate dai servizi di sicurezza per ragioni politiche, una cifra che non include gli arresti nel Sinai del nord, dove il governo combatte un’insurrezione islamista e da dove arrivano poche informazioni. Nella maggior parte dei casi queste persone sono finite direttamente in custodia cautelare, anche se per lo più non compaiono nelle stime del New York Times, perché sono state rilasciate entro i cinque mesi.

L’impennata di casi ha intasato il sistema, rallentando i tribunali e affollando le carceri. I giudici faticano a smaltire le cause. Gli avvocati raccontano di aver assistito a sessioni in cui ottocento imputati sono rimasti ammassati nelle gabbie ben oltre la mezzanotte.

4.500
persone
In detenzione preventiva tra il settembre 2020 e il febbraio 2021

L’accumulo di arretrati rende le lunghe attese prima dei processi “inevitabili”, afferma il generale Khaled Okasha, capo del Centro egiziano per gli studi strategici, un istituto di ricerca filogovernativo. E ha anche prodotto una corsa alla costruzione di penitenziari. Dal 2011 in Egitto ne sono stati aperti sessanta, secondo la stampa e l’Arabic network for human rights information, un’ong con sede al Cairo costretta a chiudere nel gennaio 2022 per le intimidazioni del governo.

Premio di consolazione

Quando le persone scompaiono in Egitto – trascinate via da casa in piena notte da uomini armati, prelevate mentre camminano per strada – non possono neppure fare una telefonata. Le famiglie a volte aspettano mesi prima di sapere che i loro cari sono entrati nel limbo della custodia cautelare. Alcune non sapranno mai nulla. Genitori e fratelli vanno a bussare ai commissariati e agli uffici della sicurezza nazionale, spesso solo per sentirsi dire dai funzionari che chi cercano non è lì.

I legali spiegano che possono volerci una o due settimane prima che i sospettati siano portati in procura per essere interrogati. A volte gli avvocati per i diritti umani li aspettano, allertati dalle famiglie. Hanno sviluppato un modo semplice per verificare chi c’è: alle udienze espongono un foglio di carta con un nome scritto a mano, sperando che qualcuno dalla gabbia risponda con un saluto. Per alcuni detenuti è l’unico modo per far sapere ai familiari dove si trovano. “Le famiglie sono catapultate in un vortice di incertezza”, dice Khaled Ali, l’avvocato per i diritti umani. “A volte si augurano che chi è stato arrestato compaia in procura, perché così almeno sanno che è vivo”.

Per reagire alle critiche della comunità internazionale sulle violazioni dei diritti umani e per placare il presidente statunitense Joe Biden, che in campagna elettorale aveva promesso che non ci sarebbero stati più “assegni in bianco” per Al Sisi, nell’autunno 2021 il governo egiziano ha inaugurato una “strategia nazionale per i diritti umani”. Quest’anno inoltre Al Sisi ha lanciato un “dialogo nazionale”, un’opportunità per l’opposizione, afferma, di tornare a confrontarsi e sollecitare le riforme. Un comitato presidenziale ha concesso l’amnistia a decine di detenuti politici. Alcune figure vicine al governo hanno discusso pubblicamente l’ipotesi di limitare la durata della detenzione preventiva.

Ma pur avendo rilasciato alcuni dissidenti e politici dell’opposizione, l’Egitto ne ha condannati altri al carcere. Gli arresti continuano a ritmo sostenuto. E le famiglie dei detenuti dicono che gli abusi nelle carceri non si sono mai fermati.

La maggior parte dei funzionari egiziani contattati per questo articolo si è rifiutata di commentare. Le richieste inviate all’ufficio del procuratore di stato, ai penitenziari e alla presidenza non hanno ricevuto risposta. Salah Sallam riconosce che ci sono state alcune “infrazioni”, ma afferma che spie e organizzazioni straniere hanno esagerato questi problemi per danneggiare il governo.

Nel gennaio 2022 l’amministrazione Biden ha deciso di trattenere 130 milioni degli 1,3 miliardi di dollari in aiuti militari che gli Stati Uniti assicurano all’Egitto ogni anno come lascito del trattato di pace del 1979 tra Egitto e Israele, affermando che le riforme in tema di diritti umani erano insufficienti rispetto a quanto chiesto da Washington. Ma ne ha concessi altri 170 milioni, anche questi in teoria subordinati alle riforme.

E poi c’è stato un premio di consolazione: un accordo da 2,5 miliardi di dollari per la vendita di armi, svelato qualche giorno prima del taglio degli aiuti.

A volte il detenuto sparisce nelle fauci del sistema, e non viene mai più ritrovato. Abdo Abdelaziz, un commerciante di pesce in salamoia di 82 anni che vive ad Assuan, nel sud del paese, in un piccolo appartamento impregnato dell’odore acre della merce, ha aspettato per giorni nella stazione di polizia dopo che gli agenti della sicurezza avevano arrestato suo figlio nel 2018. Era certo che Gaafar sarebbe uscito presto: era un autista, padre di quattro figli, non aveva tempo per la politica.

“Quando sentivo che qualcuno era arrestato pensavo che doveva aver fatto qualcosa di sbagliato”, dice. “Ma siccome noi non facciamo politica e non siamo fondamentalisti, ero sicuro che l’avrebbero lasciato andare”.

In seguito Abdelaziz è andato in tribunale, e gli avvocati gli hanno spiegato che per loro aiutarlo poteva essere rischioso. Allora ha contattato il procuratore capo egiziano. Non avendo ricevuto risposta, è andato al Cairo per la prima volta in vita sua viaggiando in treno per quindici ore, determinato a smuovere qualcosa. Cacciato anche dalla procura della capitale, è stato indirizzato all’ufficio di Assuan, che l’ha liquidato.

“Credevo che la legge e la costituzione fossero rispettate. Per questo ci sono andato”, dice Abdelaziz. “E non ho trovato nulla di tutto ciò”. I due uffici non hanno risposto alle richieste di commenti.

Alcuni avvocati senza scrupoli hanno approfittato della disperazione di Abdelaziz, dicendogli che Gaafar era stato incriminato per adesione a un’organizzazione terroristica, e che avrebbero potuto trovarlo per circa 640 dollari. Lui ha pagato. Poi è tornato ancora al Cairo, ma non ha mai visto suo figlio. Allora ha fatto un altro tentativo: è andato in tutti i padiglioni della famigerata prigione di Tora, nella remota possibilità che gli agenti gli confermassero che Gaafar era lì. Le guardie hanno controllato i registri e hanno risposto che suo figlio non era nell’elenco. Non sapendo più cosa fare, Abdelaziz è tornato ad Assuan.

Ha avuto un po’ di speranza quando Biden è stato eletto alla fine del 2020. “Con lui forse la libertà varrà qualcosa”, si è detto. Dopo le elezioni statunitensi l’Egitto ha liberato più di duecento prigionieri in quello che alcuni hanno interpretato come un gesto di buona volontà. Poco dopo, riferiscono gli avvocati, contro almeno 140 di loro sono stati aperti nuovi procedimenti. ◆ fdl

Da sapere
Una nuova udienza per Zaki

◆ Il 27 settembre 2022 è fissata in un tribunale di Mansura la nuova udienza del processo contro Patrick Zaki. L’attivista egiziano e studente dell’università di Bologna è stato arrestato al Cairo nel febbraio 2020 e scarcerato nel dicembre 2021, senza però essere assolto dall’accusa di diffusione di notizie false per un articolo pubblicato nel 2019 sul sito libanese Daraj, in cui denunciava le discriminazioni subite dai cristiani copti, la minoranza di cui fa parte. Zaki ha trascorso ventidue mesi in detenzione preventiva e il suo processo è stato rinviato più volte. Anche se è stato scarcerato non può lasciare l’Egitto. Amnesty international


Da sapere
Le richieste di Alaa Abdel Fattah

◆ Uno dei più noti prigionieri politici egiziani è Alaa Abdel Fattah, figura di spicco della rivoluzione del 2011 e da allora arrestato più volte. L’ultima nel settembre 2019, nella repressione seguita a un’ondata di proteste contro il governo. Nel dicembre 2021 è stato condannato da un tribunale speciale a cinque anni di carcere per “diffusione di informazioni false”. Abdel Fattah, che ha anche la cittadinanza britannica, dal 2 aprile 2022 è in sciopero della fame per protestare contro le condizioni di detenzione. Il 12 settembre il quotidiano britannico The Guardian ha fatto sapere che durante una visita della madre al carcere di Wadi al Natrun, Abdel Fattah ha avvertito che potrebbe morire in prigione e ha consegnato una lista di richieste, tra cui il rilascio delle persone detenute dalle forze di sicurezza egiziane e delle migliaia in custodia preventiva.

◆ Il 15 settembre 2022 le autorità egiziane hanno annunciato la scarcerazione di 46 prigionieri, tra cui Haitham Mohamadein, avvocato e militante di sinistra che ha passato quattro anni in detenzione preventiva. Il giorno prima è stato annunciato anche il rilascio di Ahmed al Najdi, giornalista di Al Jazeera in carcere dall’agosto 2020.


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Questo articolo è uscito sul numero 1479 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati