I festeggiamenti a Damasco sono stati interrotti da alcune voci: alla periferia della città era stata trovata una porta. Oltre quella porta c’era un vasto edificio sotterraneo su cinque livelli dov’erano rinchiusi gli ultimi prigionieri del regime di Assad.
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Molti sono corsi in auto verso la prigione di Sednaya, conosciuta come “il mattatoio umano”, il più noto centro di tortura nella vasta rete di strutture gestite dal governo siriano. Abbiamo seguito il flusso del traffico finché non si è bloccato, mentre circolavano delle voci tra i finestrini abbassati: c’erano 1.500 persone intrappolate sottoterra che dovevano essere salvate; tra loro, forse, anche i familiari di chi chiedeva notizie. Alla fine, abbandonate le macchine per strada, la gente si è incamminata a piedi.
Una processione illuminata da migliaia di telefoni ha attraversato i cancelli del carcere, dove fino all’8 dicembre – il giorno in cui i ribelli ne hanno preso il controllo – si poteva entrare ma non uscire. Le famiglie si sono radunate intorno ai fuochi accesi nel cortile della prigione per scaldarsi, mentre tenevano d’occhio gli ingressi della prigione per vedere se riconoscevano i volti di chi usciva. I combattenti ribelli cercavano di non far entrare nessuno, sparando dei colpi in aria. Ma la folla è andata avanti, imperterrita. All’interno si aggirava per la struttura labirintica, spostandosi da una cella all’altra alla ricerca di indizi che potessero rivelare dove si trovavano parenti e amici. Avevano tutti fretta di trovare un’ala sotterranea nascosta per paura che i prigionieri, rimasti senza mangiare, stessero morendo di fame o per la mancanza d’aria.
“Tre persone della mia famiglia mancano all’appello. Abbiamo saputo che ci sono ancora quattro livelli sotterranei e che lì sotto stanno soffocando, ma non sappiamo dove sono”, ha detto Ahmad al Shnein mentre perlustrava il corridoio. “Quelli che sono usciti sembravano degli scheletri. Immaginate come saranno quelli che escono da sottoterra”.
La prigione sembra costruita per dare l’idea di non essere in nessun luogo. Al centro c’è una scala a chiocciola che, vista dal pianterreno, sembra infinita. È circondata da sbarre metalliche, oltre le quali si aprono delle grandi porte a volta identiche, da cui si può accedere alle tre sezioni in cui è diviso il carcere. Secondo i combattenti ribelli, ogni sezione era specializzata in una diversa forma di tortura. Non ci sono finestre rivolte all’esterno. Le persone continuavano ad aggirarsi intorno alla scala: entravano e uscivano da porte diverse, ma tornavano sempre al centro. Sembrava che i ribelli non ne sapessero più degli altri. Uno di loro ha trovato una mappa e la folla gli si è accalcata intorno mentre esaminava il foglio largo mezzo metro pieno di scarabocchi ormai illeggibili.
Le celle minuscole erano piene di coperte e vestiti, gettati via dai prigionieri improvvisamente liberati dai ribelli nel corso della giornata. Alcune avevano delle nicchie scavate nelle pareti, dove erano stati stipati altri detenuti. Alcuni video mostrano la liberazione di un gruppo di donne, che per uscire dovevano essere incoraggiate perché non credevano a quello che stava succedendo.
Le celle larghe pochi metri ospitavano più di una decina di persone, che non avevano lo spazio per sdraiarsi, hanno denunciato le organizzazione per i diritti umani. Le urla dei prigionieri torturati riecheggiavano in tutti i corridoi.
◆ Il regime di Bashar al Assad controllava più di cento prigioni in Siria, oltre a un numero imprecisato di strutture segrete. Le più temute erano Sednaya, vicino a Damasco, e Tadmor, nel deserto vicino a Palmira. In particolare Sednaya era detta il “mattatoio” perché lì, secondo un rapporto di Amnesty international pubblicato nel 2017, migliaia di detenuti, in gran parte prigionieri politici, sono stati uccisi in esecuzioni extragiudiziali (impiccati, torturati a morte, affamati) e i loro corpi sepolti in fosse comuni. Si calcola che tra il marzo 2011, l’inizio delle rivolte contro Assad, e l’agosto del 2024 siano stati arrestati 157.634 siriani, tra cui 5.274 minori e 10.221 donne. Il 10 dicembre Abu Mohammad al Jolani, leader del gruppo Hayat tahrir al Sham, ha annunciato la pubblicazione di una lista di funzionari del governo siriano coinvolti nelle torture sistematiche del regime e in altri crimini di guerra. I funzionari, ha detto Al Jolani, dovranno rispondere delle loro azioni, anche se sono scappati all’estero.
Basta così
Secondo Amnesty international, a Sednaya sono state rinchiuse fino a ventimila persone, la maggior parte delle quali dopo processi farsa che si svolgevano in segreto e non duravano più di qualche minuto. Quelle sopravvissute hanno raccontato dei brutali pestaggi e delle torture quotidiane delle guardie carcerarie, che includevano stupri, scosse elettriche e altro. Molte sono state torturate a morte.
Hanno raccontato anche che le guardie pretendevano il silenzio assoluto all’interno della prigione. I detenuti perciò non potevano parlare, ma potevano scrivere. Le pareti delle celle erano ricoperte di messaggi scritti a mano. Tab, khadni. “Basta, prendetemi”, si leggeva in uno.
Un altro pezzo di carta trovato per terra strappato e calpestato descriveva la morte di un prigioniero. Probabilmente era stato scritto da un detenuto che voleva documentare la morte di un amico. Il biglietto, firmato da un uomo di 63 anni di nome Mohammed Abdulfatah al Jassem, racconta che un prigioniero – dal nome illeggibile – era caduto e aveva battuto la testa durante una crisi epilettica. Sul biglietto c’era anche un numero di telefono da chiamare. Quando abbiamo provato non ha risposto nessuno.Nel caos dell’evasione i registri della prigione sono stati presi dalle famiglie in cerca dei loro cari. Ogni registro, pieno di nomi e altri dettagli, è stato portato all’aria aperta dove gruppi di persone si sono riuniti per vedere se conoscevano qualcuno. Le organizzazioni umanitarie hanno avvertito che i registri devono essere conservati in modo ordinato, così da poter documentare il destino di circa 136mila persone che nel corso degli anni sono state arrestate dal regime.
A un certo punto, da qualche parte all’interno della prigione, si sono sentite delle urla e la gente si è messa a correre: qualcuno aveva sfondato una porta e diceva di aver sentito una voce provenire dal basso. I combattenti hanno invitato alla calma, mentre centinaia di persone si accalcavano per vedere chi c’era là sotto. Si sono messi al lavoro e il suono metallico della pala che cercava di forzare un lucchetto è riecheggiato per tutta la fortezza.
Il 9 dicembre la protezione civile siriana ha dichiarato che, nonostante le ricerche approfondite, non ha trovato nessuno sottoterra. Ha invitato la popolazione a non farsi illusioni mentre circolano voci e informazioni non controllate.
Per molti Sednaya era l’ultima speranza di ritrovare i familiari scomparsi. Mentre ce ne andavamo dalla prigione abbiamo incontrato Yamen al Alaay, diciott’anni, originario delle campagne intorno a Damasco, che ci ha raccontato di aver cercato in diverse prigioni lo zio, scomparso nel 2017.
“Oggi abbiamo continuato a cercare, senza trovare nulla. Quelli della sezione rossa non sono ancora stati trovati”, ha detto Al Alaay, ripromettendosi di tornare il giorno dopo. A notte fonda, mentre gran parte della persone lasciava Sednaya, altre migliaia di persone arrivavano da Damasco. Un uomo appena giunto sul posto ha chiesto a un altro che partiva: “Hai trovato qualcuno? È uscito qualcun altro?”. L’uomo gli ha risposto a bassa voce: “No, ma spero domani”. ◆ dl
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Questo articolo è uscito sul numero 1593 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati