Il primo dei tre paesi che occupano il versante meridionale del Caucaso, l’Azerbaigian, è il protagonista della regione, ricco di petrolio, sicuro di sé e governato con mano ferma. Gli altri due, la Georgia e l’Armenia, sono i vicini poveri, segnati da profonde spaccature interne ed esposti alle influenze esterne, soprattutto a quelle russe.
Caso, storia, dinamica degli eventi: in qualunque modo si osservi la situazione, oggi ognuno di questi paesi deve affrontare una scelta cruciale. In cosa consiste?
Azerbaigian: il presidente unico
Questa scelta, in realtà gli azeri l’hanno già fatta, votando per il presidente all’inizio dell’anno e per il parlamento lo scorso 1 settembre. L’esito di entrambe le elezioni era facilmente prevedibile. Il vincitore è stato Ilham Aliyev, in carica da oltre vent’anni, con il suo partito Yeni Azərbaycan (Nuovo Azerbaigian), al governo addirittura da più tempo.
A fondarlo era stato il padre di Ilham, Heydar Aliyev, che aveva governato a Baku prima come capo del Partito comunista dell’Azerbaigian, ai tempi dell’Unione Sovietica (dal 1969 al 1982), e poi, con l’indipendenza del paese nel 1991, come presidente (dal 1993 al 2002). Morto mentre era ancora in carica, oggi è considerato il fondatore del moderno stato azero. In realtà, un Azerbaigian sovrano era già esistito nel 1918, prima repubblica del mondo musulmano. Tuttavia quell’esperimento durò appena due anni. L’Azerbaigian fu infatti conquistato dai bolscevichi, che poco dopo occuparono anche l’Armenia e la Georgia.
Sotto gli Aliyev, il paese ha continuato a essere una repubblica. Tuttavia, quando dopo la morte di Heydar è arrivato al potere il figlio Ilham, si è parlato della prima successione dinastica nel mondo postsovietico. Oggi l’Azerbaigian è l’unica repubblica al mondo in cui la moglie del capo di stato è anche la sua vice.
Ilham è diventato presidente a 42 anni, e non sembrava avere un grande futuro davanti a sé. Era considerato un debole, senza interesse per il potere né senso di responsabilità. In fin dei conti, era stato suo padre a costruire l’Azerbaigian: prima blandendo il Cremlino in modo da ottenere i rubli necessari per realizzare strade e fabbriche, poi modernizzando lo stato ormai indipendente con i soldi del petrolio, venduto alle grandi aziende energetiche occidentali. Aliyev senior aveva intuito che le petroliere e gli oleodotti occidentali sarebbero stati un’ottima protezione dalle mire della Russia.
Heydar Aliyev ha perso solo una battaglia: la guerra per il Nagorno Karabakh. Nel 1994 gli azeri subirono un’umiliante sconfitta da parte dei loro nemici storici, gli armeni. In realtà la guerra era già persa prima che lui diventasse presidente (a dirla tutta furono proprio le disfatte dei suoi predecessori a portarlo al potere), ma la sconfitta definitiva arrivò all’inizio del suo mandato. Ed è proprio su questo fronte che Aliyev junior ha superato il padre: riconquistando il Nagorno Karabakh. Grazie alla manna dei petrodollari, ha armato e addestrato un esercito. L’hanno aiutato i turchi, i parenti più stretti degli azeri. Ilham Aliyev ha comprato armi dalla Turchia e da Israele, con il quale condivide un nemico: l’Iran. E venticinque anni dopo la sconfitta si è preso la rivincita sugli armeni.
Nell’autunno del 2020, dopo una guerra durata 44 giorni, ha ripreso il controllo di buona parte del Nagorno Karabakh (allora Repubblica armena dell’Artsakh) e di tutti i distretti azeri circostanti, che gli armeni avevano trasformato in una zona cuscinetto da cui era stato espulso quasi un milione di contadini azeri. Poi, nel settembre del 2023, ha colpito di nuovo. In due giorni gli armeni sono stati sconfitti e hanno deposto le armi. E la popolazione della Repubblica dell’Artsakh, più di centomila persone, è fuggita in Armenia.
Ilham Aliyev ha deciso di onorare il trionfo bellico anticipando le elezioni presidenziali previste per l’autunno del 2025. E naturalmente le ha vinte, per la quinta volta consecutiva: già da tempo aveva fatto eliminare dalla costituzione la norma che limitava il numero dei mandati presidenziali.
Dopo la vittoria in Nagorno Karabakh l’Azerbaigian si è fatto ancora più audace. Fino a quel punto aveva tenuto in qualche considerazione l’occidente, anche se pensava ancora che gli Stati Uniti e l’Europa gli avrebbero perdonato quasi tutto, a patto che continuasse a vendergli il petrolio e a condividere l’ostilità verso gli ayatollah iraniani. Oggi Ilham Aliyev non permette più a nessuno di dirgli cosa può fare. La scorsa primavera il Consiglio d’Europa lo ha criticato per la mancanza di trasparenza nelle ultime elezioni, per la repressione dell’opposizione e la censura. Per tutta risposta lui ha minacciato di abbandonare l’organizzazione.
Ad agosto il presidente russo Vladimir Putin è stato in visita a Baku. Aliyev lo ha ospitato nella sua residenza e il giorno dopo la sua partenza ha annunciato che l’Azerbaigian sarebbe entrato nei Brics, un raggruppamento di paesi emergenti (tra cui Cina, India, Russia, Brasile e Sudafrica) considerato un’alternativa al dominio mondiale dell’occidente.
L’Azerbaigian, paese a maggioranza musulmana sciita, tratta la Turchia come una sorella maggiore e Israele come un alleato (l’Armenia cristiana è invece alleata dell’Iran e sostiene la lotta dei palestinesi). Tra i nemici di Aliyev ci sono l’Iran (dove vive una comunità azera che conta quasi il doppio dei dieci milioni di abitanti dell’Azerbaigian), con cui ha temporaneamente sotterrato l’ascia di guerra, e la Francia. Come ritorsione per la decisione di Parigi di farsi protettrice degli armeni, Aliyev sostiene il movimento di liberazione della Nuova Caledonia, un territorio francese d’oltremare nel Pacifico. I suoi piccoli e poveri vicini – l’Armenia, meno di tre milioni di abitanti, e la Georgia, quattro milioni – non lo preoccupano. Quando Aliyev vuole qualcosa da loro, non chiede: pretende.
Il presidente azero sogna un’alleanza con la Cina, che sta tagliando fuori la Russia non solo dal Caucaso ma anche dall’Asia centrale. Si sente sempre più vicino alle classiche autocrazie centrasiatiche, e vuole che servano come fabbriche e luoghi di passaggio per i cinesi lungo la loro nuova “via della seta”.
Armenia: dopo la sconfitta
La perdita della regione del Nagorno Karabakh ha scosso il mondo armeno fino alle fondamenta. È andata in frantumi la fiducia nella Russia, a cui gli armeni avevano affidato la loro sicurezza. Quando gli azeri hanno attaccato, la Russia, impegnata nel conflitto in Ucraina, non è intervenuta in soccorso di Erevan.
Legata all’Armenia da un trattato difensivo, la Russia ha spiegato che formalmente gli azeri non avevano attaccato l’Armenia, ma una loro provincia ribelle. E, da garante della tregua raggiunta anni prima, si è limitata ad assistere passivamente alla fuga degli armeni dal Nagorno Karabakh. Dopo aver perso la guerra, gli armeni hanno ricordato che Mosca aveva venduto armi agli azeri, mentre a loro non aveva consegnato in tempo nemmeno quelle che avevano già pagato.
“Abbiamo commesso un grosso errore puntando tutto sulla Russia”, ha ammesso il primo ministro Nikol Pashinyan, che sta riorientando il paese verso l’occidente. L’Unione europea ha stanziato un po’ di risorse e la Francia si è offerta di sostituire la Russia nel ruolo di fornitrice di armi agli armeni (anche l’India vende armi a Erevan, mentre il Pakistan sostiene l’Azerbaigian).
Pashinyan ha invitato l’esercito statunitense a organizzare manovre congiunte e ha annunciato che l’Armenia si sarebbe ritirata dall’alleanza di difesa sancita dal Trattato di sicurezza collettiva (Ctso) con la Russia. Ha chiesto ai soldati russi di lasciare l’aeroporto Zvartnots, a Erevan, e ha annunciato che chiederà al Cremlino di ritirare le truppe che sorvegliano i confini dell’Armenia con l’Iran e la Turchia. Ha perfino accennato alla chiusura della base bellica russa di Gyumri, l’ultima – se non si contano le repubbliche filorusse non riconosciute di Abkhazia e Ossezia del Sud – nel Caucaso meridionale.
Il Cremlino intende comunque inviare i suoi soldati per monitorare il corridoio di Zangezur, il collegamento stradale – al momento in fase di progettazione – che dovrebbe passare in territorio armeno per collegare l’Azerbaigian con la sua exclave del Naxçıvan e poi proseguire fino in Turchia. Anche lì, però, Pashinyan vorrebbe sostituire i russi con soldati di qualche azienda di mercenari occidentale.
Il punto è che Pashinyan aspira alla pace con Baku: in questo modo l’Armenia non sarà più ostaggio del conflitto del Nagorno Karabakh, i confini con l’Azerbaigian e con la Turchia saranno finalmente aperti, il commercio e l’economia decolleranno e finirà l’epoca dell’isolamento e della povertà.
Ilham Aliyev, però, non ha nessuna fretta di arrivare alla pace. Perché sa che una volta tracciato un confine e concordata la pace con gli armeni, non potrà più continuare ad alzare la posta. Nel frattempo l’Azerbaigian – il più forte dei tre stati del Caucaso – ama costringere i vicini all’obbedienza: pretende che gli armeni accettino la costruzione del corridoio di Zangezur e che modifichino la costituzione, in cui si afferma che l’obiettivo del paese è l’unificazione con il Nagorno Karabakh.
Pashinyan non può acconsentire a queste richieste. Nel 2018 è diventato primo ministro al culmine di una mobilitazione di piazza durata diverse settimane. Oggi anche i suoi ex sostenitori lo accusano di tradimento. Dopo aver perso la guerra nel 2020, ha ceduto alla pressione popolare e ha indetto elezioni anticipate, che ha vinto nel 2021. Al prossimo voto mancano solo due anni. E se le proteste dovessero costringerlo ad anticipare di nuovo le elezioni, Pashinyan sarebbe comunque pronto a ricandidarsi, forte della pace raggiunta e di un’economia in ripresa.
In tutto questo la Russia non sopporta le cosiddette rivoluzioni colorate, che considera intrighi imbastiti dall’occidente. Non si è mai fidata di Pashinyan e farà di tutto per sostituirlo con un suo candidato. Il potere di farlo non le manca perché, insieme alla sicurezza, in passato gli armeni hanno affidato a Mosca anche la loro economia, energia compresa.
Al momento Erevan è in trattative con l’Unione europea per l’abolizione dei visti e l’inizio del processo d’integrazione. Nell’autunno 2013 il paese era sul punto di firmare l’accordo di associazione con l’Ue, ma all’ultimo momento, su richiesta della Russia, aveva cambiato idea, ripiombando nell’abbraccio di Mosca (in Ucraina una svolta simile dell’allora presidente Viktor Janukovyč portò alla rivolta di Euromaidan). Ora a Erevan si stanno nuovamente raccogliendo le firme per chiedere un referendum sull’adesione all’Unione. “Ma l’Europa è davvero pronta a lasciarci entrare?”, chiede a gran voce Pashinyan.
◆ L’Azerbaigian (10,3 milioni di abitanti), l’Armenia (2,8 milioni) e la Georgia (3,7 milioni) sono ex repubbliche sovietiche diventate indipendenti nel 1991 in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.
◆ Per anni gli armeni e gli azeri si sono scontrati per il controllo del Nagorno Karabakh, una regione autonoma dell’Azerbaigian a maggioranza armena. La prima guerra del Nagorno Karabakh (1988-1994) si è conclusa con la vittoria di Erevan, che ha portato alla nascita della Repubblica armena dell’Artsakh nella regione contesa e all’occupazione dei territori azeri confinanti con l’Armenia. Tra il 2020 e il 2023 l’Azerbaigian ha ripreso il controllo del Nagorno Karabakh e dei territori circostanti. Tutta la popolazione armena del Karabakh, più di centomila persone, ha lasciato la regione e si è rifugiata in Armenia.
◆ Dopo mesi di proteste e tensioni, il 26 ottobre 2024 i georgiani andranno alle urne per eleggere il nuovo parlamento. Secondo gli ultimi sondaggi (Edison research 29 settembre) è in testa il partito di governo Sogno georgiano, ultraconservatore e filorusso, con il 33 per cento delle intenzioni di voto, seguito da Unità, una coalizione liberale ed europeista costruita intorno al Movimento nazionale unito (19 per cento), e da partiti e coalizioni (Georgia forte, Coalizione per il cambiamento, Per la Georgia) sempre favorevoli all’integrazione europea.
Georgia: la scelta cruciale
Il 26 ottobre i georgiani voteranno per il rinnovo del parlamento. E faranno la loro scelta di campo. “Il giorno delle elezioni più importanti si avvicina”, ha annunciato la presidente Salomé Zourabichvili. “Possiamo scegliere: essere un paese libero tra paesi liberi in Europa o vendere l’anima a Mosca facendo miserevoli concessioni e cadendo nella schiavitù”. Di tutte le province dell’Unione Sovietica, solo la Lituania, la Lettonia e l’Estonia si sono avvicinate all’occidente con la stessa determinazione della Georgia. Tra il 1992 e il 2003 il presidente Eduard Ševardnadze, che era stato l’ ultimo ministro degli affari esteri sovietico, aveva guidato il paese con prudenza. Dopo averne rovesciato il governo con la “rivoluzione delle rose”, il nuovo capo di stato Mikheil Saakashvili si è gettato a capofitto verso ovest. La Georgia ha pagato la sua scelta con la guerra del 2008 contro la Russia e la perdita delle province ribelli dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud.
All’epoca buona parte dei georgiani pensò che, con la sua inutile spavalderia, Mikheil Saakashvili aveva fatto il gioco della Russia. Con la sua arroganza e saccenza si era anche alienato le simpatie di molti. Quando nel 2011 il miliardario Bidzina Ivanishvili ha fondato il suo partito, Sogno georgiano, promettendo di sbarazzarsi di Saakashvili, i georgiani gli hanno dato fiducia. Sogno georgiano è ancora al potere. Nei primi anni del suo governo, i rapporti con l’occidente sono stati ottimi e il paese ha inserito nella costituzione l’obiettivo dell’ingresso in Europa. Poco dopo i georgiani, in grande maggioranza favorevoli all’alleanza con l’occidente, sono stati esentati dall’obbligo di visto per entrare in Europa.
Ma l’idillio è entrato in crisi dopo le ultime elezioni legislative, nell’autunno del 2021, quando Saakashvili è tornato in Georgia dall’esilio, dopo una condanna in absentia per abuso di potere. Era convinto che la sua presenza a Tbilisi avrebbe innescato una nuova rivoluzione. Questo non è successo e l’ex presidente è finito in prigione, dove si trova tuttora. Dal canto suo, Ivanishvili ha interpretato il ritorno del rivale come frutto di una cospirazione occidentale per destituirlo. E da quel momento ha preso a considerare l’occidente un nemico.
A quel punto l’Unione europea ha cominciato a chiedere a Sogno georgiano di rispettare l’indipendenza dei giudici, lo stato di diritto, la libertà di parola e le libertà civili, e di tollerare le critiche dell’opposizione. Ivanishvili non aveva nessuna intenzione di cedere. Voleva la Georgia in Europa, ma senza rinunciare al suo potere personale, messo in discussione dalle riforme raccomandate da Bruxelles. Voleva i vantaggi ma non le responsabilità che derivano dall’integrazione europea.
Negli ultimi anni Ivanishvili ha guidato la Georgia da dietro le quinte, senza occupare incarichi ufficiali, cambiando a suo piacimento i primi ministri e ripetendo che l’obiettivo del paese era l’Europa. In realtà era una posizione di facciata.
Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, nel 2022, la Georgia non ha aderito alle sanzioni occidentali né ha rotto con Mosca, sostenendo di non poterselo permettere. Oggi l’occidente accusa Tbilisi di contrabbandare in Russia merci sottoposte a sanzioni. Gli oppositori sostengono che dopo aver costruito la sua fortuna grazie alla Russia oggi Ivanishvili sta ripagando il debito. Da parte sua, il fondatore di Sogno georgiano accusa il “partito globale della guerra” (cioè l’occidente) di aver spinto la Russia in guerra e di voler trascinare nel conflitto anche la Georgia, per aprire un “secondo fronte” nel Caucaso.
Come il presidente russo Putin, anche Ivanishvili si dichiara difensore del cristianesimo e dei valori tradizionali minacciati dal liberalismo occidentale, che considera una moderna Sodoma e Gomorra. È diventato un seguace dell’idea di “democrazia sovrana”. Nega di essere alla ricerca di un’alleanza con la Russia, ma ammette di guardare alla Cina. Ritiene il modello dell’autocrazia orientale più adatto al paese e più funzionale di quello occidentale, basato sullo stato di diritto, le libertà civili e la separazione dei poteri.
Nella primavera del 2024, nonostante le più grandi proteste di piazza degli ultimi vent’anni, il parlamento georgiano – dominato dal partito di Ivanishvili – ha approvato la legge sui cosiddetti agenti stranieri, che prende di mira le ong e la società civile. Sempre seguendo il modello russo, a settembre ha approvato una legge “sui valori della famiglia e la protezione dei minori” che in realtà discrimina la comunità lgbt. Per tutta risposta, Bruxelles ha bloccato il processo d’integrazione, formalmente avviato nel dicembre 2023, gli Stati Uniti hanno congelato gli aiuti già decisi, e al Vertice per i 75 anni della Nato a Washington nessuno ha parlato di Georgia.
Divisa tra i sostenitori dell’occidente e i difensori della “tradizione e della fede”, tra la capitale e la campagna, tra i giovani e gli anziani, la Georgia è un paese spaccato, come ai tempi della guerra civile scoppiata dopo l’indipendenza del 1991.
I sondaggi prevedono che alle elezioni del 26 ottobre Sogno georgiano sarà il partito più votato. Tuttavia, l’opposizione filooccidentale, costituita dal Movimento nazionale unito (l’ex partito di Saakashvili) e da altri partiti minoritari, potrebbe ottenere fino al 50 per cento dei voti complessivi.
“Europa o Russia, libertà o schiavitù? Scegliete!”, ha detto la presidente Zourabichvili ai suoi concittadini. “Perché una simile opportunità non si presenterà una seconda volta”. ◆ sb
**Wojciech Jagielski **è un giornalista polacco. Specialista dell’area del Caucaso, ha scritto Le torri di pietra (Bruno Mondadori 2007).
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Questo articolo è uscito sul numero 1586 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati