Spesso ho la sensazione che la mia città sia in guerra con se stessa. Non nel senso di una battaglia con le armi, ma di un’insidiosa crociata di ideologia e volontà. È il piano del presidente Abdel Fattah al Sisi per rimodernare la capitale egiziana, una campagna faraonica talmente grottesca che sarebbe da ignorare se non implicasse il saccheggio del Cairo così com’è (in alcune zone) da secoli, con la cancellazione di intere fette del patrimonio urbano e la devastazione di tutto quello che incontra sulla strada, dai vivi ai morti. Potrebbe sembrare un’esagerazione, ma la distruzione è davvero catastrofica e ampia. Sono stati rasi al suolo migliaia di edifici, per lo più residenziali. Interi isolati di appartamenti che coprivano migliaia di ettari (e rappresentavano risparmi di una vita, storie familiari e ricordi) sono stati ridotti in macerie. Uno dei primi quartieri ad andarsene – un’area nota come Maspero, a pochi minuti da piazza Tahrir, che in parte risaliva al quindicesimo secolo – comprende circa 34 ettari di terreno dove vivevano 18mila persone: è stato raso al suolo con il pretesto che fosse un “insediamento informale”, l’eufemismo degli urbanisti moderni per baraccopoli. Eppure chiunque, visitando il posto prima che gli edifici fossero demoliti, avrebbe confermato che anche se alcuni erano stati costruiti illegalmente in anni più recenti, la maggioranza era composta di palazzi in stile art déco risalenti agli anni venti del novecento, sontuosi e ben preservati, con mensole in pietra finemente intagliate sulle facciate e imponenti scalinate di marmo che portavano ad appartamenti con soffitti stuccati alti più di tre metri.
La demolizione è in corso in tutta la città. Percorro regolarmente la “circonvallazione”, una tangenziale lunga 64 chilometri che circonda Il Cairo, e nell’ultimo anno ho visto edifici sventrati su entrambi i lati: salotti, bagni e cucine esposti all’aria mentre sono buttati giù. Anche se erano stati frettolosamente costruiti su terreni agricoli, probabilmente con permessi ottenuti tramite tangenti ai municipi perché chiudessero un occhio sulle violazioni del piano regolatore, in questi isolati abitavano decine di migliaia di persone. Quando resto bloccata nel traffico ho tempo di osservare le parti rimaste in piedi degli edifici. La cosa più difficile è guardare quelle che dovevano essere le camere dei bambini, tinteggiate di rosa, verde e blu. In questi quartieri poveri e sovraffollati, raramente avevano una vista panoramica: i pois e i personaggi Disney sui muri spesso erano l’unico piacere di quei bambini.
Neppure i morti del Cairo sono stati lasciati in pace. Il governo ha demolito centinaia di loculi nella storica Città dei morti, leggermente a est del centro. Alcune tombe e mausolei decorati risalgono ai periodi dei mamelucchi e degli ottomani; altre sono normali tombe di famiglia, che appartengono a persone come noi. All’inizio dell’anno alcuni amici hanno chiesto a me e mio fratello di controllare dov’erano sepolte le loro famiglie; un altro ci ha chiamato, preoccupato per la tomba di sua nonna. Ho visto parenti in lacrime guardare le tombe di famiglia finire sotto le pale delle ruspe, con il geometra a dirigere i lavori – “qualche metro più in qua, un po’ più in là” – in una spietata profanazione. Quel giorno alcuni resti umani sono stati inavvertitamente dissotterrati, alcuni erano stati tumulati da poco.
In nome del progresso
Lo schema di questa distruzione si può comprendere – in senso puramente tecnico – facendo una mappa di autostrade, ponti, corsie supplementari e viadotti che hanno preso il posto di tombe, alberi e case. La segnaletica che indica le costruzioni dell’Autorità generale dello stato per le strade, i ponti e il trasporto terrestre è ovunque in città. Quando chiedi ai direttori dei lavori a cosa serve tutto questo, ti rispondono che è per “il nostro progresso” e per “il bene pubblico”. Il governo ha il diritto di appropriarsi di qualunque proprietà privata che decida di reclamare “per la pubblica utilità”, di fatto un esproprio in stile egiziano.
Alcuni sostengono che il traffico automobilistico si sia ridotto, ma a che prezzo? Sono stati spesi centinaia di milioni di dollari, in parte per fare più spazio per l’immensa e crescente popolazione di proprietari di auto (a settembre i dati ufficiali annunciavano circa 6.400 chilometri di nuove strade, per un costo di 1 miliardo di dollari). Molte di queste nuove strade collegano Il Cairo alla Nuova capitale amministrativa, com’è chiamata ufficialmente, 45 chilometri a est della città. Questa capitale sostitutiva è quasi ultimata. È costata 58 miliardi di dollari, e occupa più di 650 chilometri quadrati. Il progetto è stato avviato nel 2015 e sarà inaugurato alla fine dell’anno. Ora sembra che la capitale che abbiamo sempre conosciuto debba adattarsi alla nuova.
Stanno sorgendo enormi edifici, che trasformano i vecchi quartieri in nuove enclave. Maspero è diventato lo sfondo per una serie di grattacieli, che non hanno alcuna relazione, né per dimensioni né per stile architettonico, con il centro cittadino esistente. Le famiglie che vivevano su questa terra privilegiata sulle sponde del Nilo sono state trasferite in periferia, in appartamenti che valgono solo una frazione di quelli dei loro antenati, e con risarcimenti insignificanti. L’orizzonte del centro, totalmente alterato, ora appartiene ai ricchi imprenditori dell’edilizia, al governo e agli investitori.
I presidenti egiziani hanno sempre avuto progetti dettati dalla vanità. Al nostro tempo è toccato questo. Quando Al Sisi è stato accusato da un costruttore edile di sperperare i fondi pubblici, in particolare di aver speso milioni di dollari per costruirsi nuovi palazzi, lui ha risposto come tutti i leader che si sono costruiti nuovi palazzi: “Perché non dovrei?”.
Il primo ministro egiziano Mostafa Madbouly professa un interesse personale per il patrimonio architettonico, eppure non ha fatto nulla per fermare la distruzione (solo un quartiere finora è stato salvato, grazie a una decisa campagna e alla controproposta di un architetto, che il caso vuole sia mio amico). Ho parlato con molte persone – restauratori, urbanisti, perfino consulenti del primo ministro – in cerca di risposte sul perché sia stato ritenuto necessario tutto questo. Le giustificazioni che mi hanno dato rientrano in due categorie: una pubblica e una privata.
La versione pubblica è che Il Cairo era diventata troppo grande e aveva bisogno di aggiornare le infrastrutture. Era così urgente, dicono, che non c’era tempo per coordinarsi con gli enti statali o con i gruppi comunitari che si interessano del patrimonio storico. Nuovo è meglio di vecchio. E il paese ha problemi più pressanti della conservazione di edifici e alberi che erano d’intralcio al progresso.
Decine di migliaia di alberi – eucalipti giganti, ficus benjamin, jacarande e alberi della fiamma australiani in piena fioritura – sono stati abbattuti, lasciando poche tracce, a parte qualche ceppo: centinaia di ettari di schermo ombroso di foglie verdi vecchio più di un secolo. In un quartiere a nord del Cairo migliaia di alberi che ricoprivano più di 40 ettari (l’equivalente di quasi sessanta campi di calcio) sono stati tagliati nel giro di qualche settimana. Di recente, andando fuori città verso sud, ho visto che tutti gli alberi di eucalipto che un tempo fiancheggiavano un canale erano spariti. Ho guidato per più di cinquanta chilometri prima di tornare indietro, ma quella strada continua per altri centinaia di chilometri.
◆ Il 25 novembre 2021 durante una sfarzosa cerimonia il presidente Abdel Fattah al Sisi ha inaugurato il viale delle sfingi, che anticamente collegava il tempio della città di Luxor a quello di Karnak, nel sud dell’Egitto. Risalente a 3.500 anni fa, il sito archeologico ha aperto al pubblico per la prima volta da quando fu scoperto nel 1949. Ai lati del viale, lungo 2,7 chilometri, ci sono 1.350 statue della creatura mitologica. L’obiettivo, annunciato dal ministero del turismo, è di fare del sito “un museo a cielo aperto”.
Afp, Egyptian Streets
In privato, alcuni funzionari mi dicono che gli alberi sono considerati un problema per la sicurezza: per un governo che si ritiene più o meno costantemente in guerra con i terroristi le strade alberate potrebbero aiutare i miliziani a nascondersi prima di compiere un attentato. Gli alberi consumano anche acqua, aggiungono, e una delle grandi sfide strategiche dell’Egitto è garantire la sicurezza idrica della nazione, visti i timori del governo per gli effetti della diga Grand ethiopian renaissance sulla portata del Nilo. Un’argomentazione che non quadra molto se si pensa a tutti gli alberi piantati nella nuova capitale. Ma d’altronde poche cose hanno senso nel modo in cui è gestita la città.
Da un posto all’altro
Alcuni amici coinvolti in progetti locali di sviluppo o restauro affermano che lo stato si muove in modo sconsiderato, senza coordinamento o pianificazione, pensando solo alla rapidità. La Cina è spesso citata come esempio del modello egiziano: tutto questo edificare non è per i cittadini, e neppure per il presente, ma per il futuro della nazione. Si tratta di creare un’eredità. Dunque, chi decide questa eredità? Quando in un giardinetto pubblico nel quartiere in cui abito sono spuntati dei cartelli che annunciavano che lì sarebbe sorto il cosiddetto Cairo eye, un’immensa ruota panoramica come quella di Londra, abbiamo scoperto che per pianificare un progetto simile basta che un generale dell’esercito venga a farsi un giro. Così, l’utilità pubblica diventa quello che può essere utile per il turismo. Anche il nostro quartiere, un tempo una tranquilla zona residenziale che ospitava vecchie dinastie politiche egiziane oggi decadute, è stato sequestrato dal governo e trasformato in qualcosa di paragonabile a un centro commerciale a cielo aperto.
Niente è troppo sacro, e questo vale anche fuori del Cairo. C’è stata una smania di trasferire antichi monumenti e beni culturali (statue, mummie, reperti) da un posto all’altro. Un obelisco del faraone Ramses II (1279-1213 aC) è rimasto per 45 anni su un podio a dieci minuti da casa mia, prima di essere improvvisamente spostato due estati fa a “New Alamein”, un complesso in stile Dubai vicino alla storica cittadina di Alamein, sulla costa mediterranea dell’Egitto. Questa conurbazione fatta di volgari grattacieli a specchi costati milioni di dollari, che ostruiscono la vista del mare per chilometri, è un altro dei progetti prediletti del presidente. Un altro obelisco, sempre del regno di Ramses II, è stato trasferito da un governatorato del delta del Nilo a piazza Tahrir al Cairo, mentre la collezione di reperti del vicino museo della capitale veniva dispersa in nuovi musei satellite. Un egittologo che ha lavorato come consulente al progetto conferma che anche questo trasferimento è avvenuto alla rinfusa: pezzi appartenenti alle stesse statue o agli stessi fregi, a volte provenienti dalla stessa teca, sono stati separati e spediti in giro per il paese apparentemente a casaccio.
La parata d’oro dei faraoni che si è svolta ad aprile aveva uno spirito simile: un grande sfoggio, con tanto di salve di cannone, in cui le spoglie di ventidue faraoni sono state trasportate attraverso Il Cairo al nuovo Museo della civiltà egiziana, che sembra il terminal di un aeroporto. C’è qualcosa d’indecente nell’organizzare una cerimonia così pomposamente stravagante per trasferire di nuovo dei morti (alcuni di quei faraoni erano nel vecchio museo egizio dal 1881) per mero spettacolo e pubblicità. Nel grande disegno dei misfatti ufficiali, però, la parata è stata forse meno sconsiderata della rimozione delle sfingi con la testa di ariete dalla loro collocazione originale dietro il tempio di Karnak di Luxor (risalente a millenni fa). Sono state trasferite al Cairo per circondare il nuovo obelisco di piazza Tahrir.
La nuova versione di questo famoso luogo al centro del Cairo serve a cancellare la memoria di tutto ciò che è successo prima, e soprattutto a rimuovere qualsiasi traccia della rivoluzione del 2011. I murales dedicati ai martiri della rivoluzione egiziana sono spariti. La nuova piazza Tahrir rompe qualunque legame con la storia recente. Il saccheggio del Cairo è arbitrario e superficiale per come tratta la vera civiltà e il vero patrimonio dell’Egitto, ma è anche uno sforzo consapevole di creare un mito nazionale che unisca con una linea retta il passato faraonico dell’Egitto a una città moderna costruita per il futuro che porta il marchio di Al Sisi. ◆ fdl
Yasmine el Rashidi è una scrittrice egiziana. In Italia ha pubblicato Cronaca di un’ultima estate (Bollati Boringhieri 2018).
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Questo articolo è uscito sul numero 1438 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati