Stagnazione e crisi. È questa l’impressione che dà l’Ungheria oggi. Nei piccoli centri le locande e i ristoranti hanno chiuso da tempo. Su autostrade non riparate le auto si muovono nella nebbia invernale della puszta, la pianura stepposa ungherese. Le mura dei palazzi di Budapest sono fatiscenti. La città sembra stanca e provata. L’unica nota vivace è rappresentata dagli onnipresenti manifesti colorati di Fidesz contro “i nemici del popolo ungherese”. Attualmente il partito del premier Viktor Orbán ha scelto come bersagli la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il figlio del miliardario e filantropo George Soros, Alex. Il paese è tappezzato di cartelloni con i loro volti e un messaggio per gli “ungheresi normali”: “Non ballate quando LORO suonano”. A parte questa piccola novità, in Ungheria non c’è più niente di cui sorprendersi.
Una volta messo in moto, lo stato governato da Fidesz procede da solo lungo un percorso già stabilito. Per evitare che l’opposizione possa ottenere risultati troppo positivi, basta girare leggermente il volante. Così, con l’avvicinarsi delle elezioni locali e per il parlamento europeo, le autorità hanno cambiato per precauzione la legge elettorale, rendendo più difficile la nascita di un fronte unito contro Fidesz: un colpo duro per gli ultimi baluardi dell’opposizione, cioè le amministrazioni comunali di Budapest e di altre città, insediate dopo il voto locale del 2019. In quell’occasione Fidesz ha ceduto il potere senza fare problemi, ma – spiega il sindaco di Budapest Gergely Karácsony – ha subito cominciato a tormentare i comuni intentando cause giudiziarie per i motivi più vari.
Per fare un ulteriore dispetto agli avversari, Fidesz ha anche deciso di accorpare le elezioni amministrative e quelle europee. Il motivo ufficiale è risparmiare denaro; quello reale è mettere in difficoltà i partiti di opposizione, che non sono riusciti a trovare un’intesa su una lista comune per le europee e si presenteranno alle urne separatamente. Il risultato è facile da prevedere: perderanno tutti.
Con ogni probabilità, Fidesz riuscirà a ridimensionare ulteriormente l’opposizione, a riprendersi la capitale, a cacciare gli avversari dalle amministrazioni locali. E a consolidare il suo ruolo nella politica ungherese.
Uguale e contrario
L’opposizione ungherese si era unita in vista delle elezioni parlamentari del 2022, ma dopo averle perse si è sgretolata di nuovo. Oggi fa i conti con lo scarso consenso che ha conservato e si lecca le ferite. Per rendere l’idea: Péter Márki-Zay, sindaco del comune di Hódmezővásárhely e candidato premier della coalizione anti-Orbán alle ultime elezioni, accusa Péter Ungár, presidente del partito La Politica può essere diversa/Verdi d’Ungheria, di essere una spia di Fidesz. Queste lotte intestine sono seguite con una certa soddisfazione dalla stampa filogovernativa.
Anche il partito Momentum, che pochi anni fa era considerato la principale risorsa nella battaglia contro Orbán, oggi è decisamente in declino. “Sono finiti”, è il verdetto emesso dai salotti dell’opposizione. Il più criticato, tuttavia, rimane Ferenc Gyurcsány, leader di Coalizione democratica (Dk) ed ex premier socialista. Fu il suo governo, più volte accusato di corruzione e incompetenza, a mettere in moto indirettamente la svolta a destra dell’Ungheria che avrebbe portato Orbán al governo.
“Gyurcsány è come Orbán, solo che è di sinistra. Non so se avrebbe senso cambiare l’uno con l’altro”, dice Miklós Gábor, del quotidiano Népszava. “Tuttavia, a parte Gyurcsány non c’è assolutamente nessuno nell’opposizione che abbia un carisma paragonabile a quello del premier”, continua. “I giovani emigrano perché qui non vedono un futuro. L’atmosfera è soffocante”.
Quando al governo in Polonia c’erano i sovranisti di Diritto e giustizia (Pis), “a Varsavia l’opposizione era guidata da Donald Tusk. Noi invece abbiamo Gyurcsány. C’è una bella differenza”, ritiene Róbert Puzsér, celebrità mediatica e commentatore politico vicino all’opposizione, che nel 2019 si era candidato a sindaco di Budapest. “Gyurcsány è la nostra maledizione perché blocca l’opposizione. Anche se – per ipotesi – dovesse morire, gli altri politici continuerebbero a dire e fare le stesse cose che ha detto e fatto lui. È una situazione senza speranza”, conclude Puzsér rassegnato.
“Abbiamo molte riserve nei confronti dei vecchi politici dell’opposizione, per questo abbiamo lanciato un partito tutto nostro”, racconta Suzi Döme, copresidente del Partito ungherese del cane a due code (Mkkp). Nato per gioco, promettendo vita eterna, birra gratis e l’innalzamento di una gigantesca montagna nel mezzo della pianura ungherese, oggi è uno dei pochi partiti d’opposizione a superare, nei sondaggi, la soglia di sbarramento del 5 per cento. L’Mkkp non fa parte della coalizione dell’opposizione. “In Ungheria si dice che partecipare a un’alleanza del genere, in cui tutti sono alleati con tutti e contro Fidesz, sia come fare blocco con il diavolo contro Satana”, spiega Döme.
“Orbán cadrà solo quando l’economia crollerà”, dice Puzsér. Stiamo bevendo tequila in un bar di Budapest. Ogni tanto qualcuno si avvicina per un autografo. I suoi articoli impazzano sui siti web e sui social media ungheresi. “In Ungheria non c’è una società, c’è una folla”, commenta Puzsér davanti a un tavolo pieno di bicchieri e boccali di birra. I commensali annuiscono. “Questa folla si lascia manipolare. E Orbán ne approfitta”.
“È quello che si diceva anche da noi in Polonia prima delle elezioni del 15 ottobre 2023, vinte dall’opposizione…”, faccio notare io. “Ma voi polacchi almeno avete delle priorità chiare”, insiste Puzsér. Poi si spiega: i leader del Pis, Mateusz Morawiecki e Jarosław Kaczyński, sono comunque politici occidentali. Sono rimasti legati all’occidente. “Guardate l’Ungheria, invece: è paese osservatore nell’Organizzazione degli Stati turchi, sostiene la Russia, la Cina… Il trattato del Trianon del 1919 ha sottratto al paese le terre che, tra la metà del cinquecento e la fine del seicento, non avevano vissuto sotto il dominio turco: la Transilvania, l’Alta Ungheria, oggi Slovacchia. È lì che si sarebbe potuta sviluppare una sorta di società civile. All’Ungheria è rimasto solo il pezzo centrale, quello dove l’eredità ottomana è più radicata”.
Grandi ambizioni
Dalla vittoria elettorale dell’aprile 2010 il partito di Orbán ha assunto il controllo di tutte le istituzioni statali e ha introdotto una nuova costituzione; il governo modifica le leggi a piacimento, ha il dominio sull’informazione e gestisce direttamente i fondi europei, che assegna a persone fedeli al premier, creando così una classe imprenditoriale vicina a Fidesz e conservando un serbatoio politico di fondamentale importanza.
In questo sistema l’opposizione non ha vita facile. L’ultimo giro di vite è arrivato lo scorso anno, quando il governo ha vietato l’uso di fondi stranieri per finanziare le attività politiche. Ormai tutte le risorse sono controllate da Fidesz. Così la politica ungherese è al riparo da imprevisti. Tanto che lo stesso Orbán se ne disinteressa. Ha lasciato il paese nelle mani dei suoi politici e dei suoi funzionari e preferisce viaggiare per il mondo, incontrare i grandi del pianeta e costruire la sua rete globale di estrema destra, piuttosto che occuparsi dei problemi del suo paese. Nell’ottobre 2023 ha partecipato al forum della nuova via della seta, organizzato dalla Cina, dove ha incontrato il presidente russo Vladimir Putin e, seguendo la terminologia ufficiale del Cremlino, ha chiamato l’invasione russa dell’Ucraina “operazione militare speciale”.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, Orbán ha puntato su Donald Trump, che sostiene con tutte le sue forze: partecipando, per esempio, ai meeting politici, dove esorta i repubblicani statunitensi (tra i quali è molto popolare) a respingere la proposta di concedere nuovi aiuti all’Ucraina. Se Trump vincerà le presidenziali del prossimo novembre, come prevedono in molti, le quotazioni internazionali del primo ministro ungherese saliranno alle stelle. I leader dei paesi dell’Unione europea e i funzionari della Nato (organizzazioni di cui l’Ungheria fa parte) guardano a Orbán con un misto di frustrazione e invidia, stupiti per come il premier di un paese piccolo e non particolarmente importante sia stato capace di costruirsi un simile profilo internazionale. “Orbán è un eterno ribelle ed è proprio su questo che ha costruito il suo successo: sul suo essere sempre contro”, dice Miklós Gábor. “Se la corrente principale della politica globale fosse di destra, lui sarebbe di sinistra e liberale. L’Ungheria non gl’interessa più da tempo. Oggi segue la grande politica”.
Il colesterolo del leader
A Budapest, d’altra parte, il suo potere è al riparo da rischi e minacce, anche se la propaganda del regime è tutt’altro che coerente e presenta diversi punti deboli: per esempio sul tema degli immigrati. Orbán ha sempre alimentato il risentimento contro i migranti, considerati una minaccia alla civiltà europea e al futuro dell’Ungheria. Tuttavia, nel marzo 2023 ha annunciato l’arrivo, distribuito su più anni, di milione di lavoratori stranieri, da impiegare nel nuovo stabilimento della fabbrica automobilistica Bmw e nell’azienda cinesa Catla, che produce batterie elettriche.
Nella città di Berettyóújfal, dove sorgerà lo stabilimento Bmw, sono già arrivati diversi lavoratori indiani, cosa che ha lasciato interdetta la popolazione locale, bombardata per anni dalla retorica xenofoba del governo. Fidesz ha reagito con una doppia strategia: da una parte ha difeso la decisione di accogliere gli immigrati “legali”, come sottolineano le autorità; dall’altra gli ha vietato di rimanere in Ungheria per più di due anni, progettando nuovi ghetti dove sistemare gli stranieri. Si tratta di incongruenze che Orbán può permettersi. I sondaggi danno Fidesz in vantaggio di 30 punti percentuali sul suo principale avversario, la Coalizione democratica di Gyurcsány.
“Ma c’è qualcosa che può cambiare la situazione nell’Ungheria di oggi?”, chiedo a Puzsér. Siamo a tavola e scorriamo le notizie sui cellulari. Orbán ha sempre l’aspetto di un uomo di successo, sicuro di sé mentre posa con i grandi del mondo. È felice e si vede. Ed è anche ingrassato. Sembra addirittura obeso.
Puzsér alza gli occhi dal bicchiere di tequila e mi guarda. “L’unica cosa che può cambiare la situazione è il valore del colesterolo di Orbán”, risponde. ◆ sib
◆ Dopo settimane di stallo per l’opposizione dell’Ungheria, nel Consiglio europeo straordinario del 1 febbraio 2024 i 27 paesi dell’Unione hanno trovato un accordo su una revisione del bilancio che prevede lo stanziamento di un pacchetto di aiuti da cinquanta miliardi di euro per l’Ucraina. I fondi (17 miliardi di sovvenzioni e 33 miliardi di prestiti garantiti) saranno usati per fini umanitari, assistenza energetica, interventi strutturali e riforme economiche, e copriranno il periodo 2024-2027. La resistenza di Budapest, che chiedeva una revisione annua degli aiuti, è stata superata grazie a un compromesso: la verifica avrà cadenza biennale e ogni modifica dovrà essere approvata all’unanimità. Euractiv
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Questo articolo è uscito sul numero 1549 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati