Le cariche della polizia contro gli operai delle acciaierie di Terni, la vicenda del processo Cucchi e oggi le manifestazioni in Francia per la morte di Rémi Fraisse hanno riacceso la discussione sulla polizia, sul ruolo delle forze dell’ordine e sulla violenza di stato. L’anno scorso l’editore La Linea ha pubblicato “La forza dell’ordine”, un libro di Didier Fassin, antropologo francese, che ha fatto un lavoro di ricerca etnografica sulla polizia. Ecco un estratto sul discrimine tra forza e violenza della polizia, nella traduzione di Lorenzo Alunni.

Può sembrare strano stupirsi dell’esistenza delle violenze commesse dalla polizia. Da un punto di vista sociologico – e dunque al di là dello specifico caso francese – la violenza è infatti costitutiva del ruolo stesso della polizia. Nelle società moderne, è alla polizia che lo stato delega il suo “monopolio dell’uso legittimo della forza fisica”, secondo la celebre formula di Max Weber.

Al di là di questo principio sociologico generale, i teorici della forza pubblica, in particolar modo nell’America del Nord, hanno fatto loro la formula di Egon Bittner, secondo cui “la facoltà di usare la forza è l’essenza del ruolo della polizia”. In altre parole, al di là della diversità delle missioni – che si tratti di arrestare un malfattore, di tenere sotto controllo una manifestazione, di evitare che un litigio familiare degeneri, di fare la multa a un conducente che sta commettendo un’infrazione o d’intervenire d’urgenza in caso di ferimento – ciò che distingue i poliziotti dagli altri lavoratori o anche dagli altri cittadini è la possibilità, se lo ritengono necessario, di utilizzare la forza per risolvere i problemi; oltre al fatto che la gente lo sa, comportandosi dunque di conseguenza.

Secondo lo stesso Bittner, a differenza delle civiltà del passato, le società moderne si caratterizzano per una ricerca della pace attraverso mezzi pacifici. Tuttavia, come regola generale, il ricorso alla forza diviene legittimo in tre particolari contesti: l’autodifesa di fronte agli aggressori; il potere di coercizione attribuito a certi mestieri nei confronti di certi cittadini (per esempio alla polizia penitenziaria nei confronti dei detenuti); e, infine, l’istituzione di una polizia per la quale l’uso della forza è “quasi senza restrizioni”, a condizione che non provochi morti se non in situazioni eccezionali, che non si giustifichi per ragioni personali ma per il bene collettivo e che non corrisponda alla semplice volontà di nuocere o di sfogarsi.

Per Egon Bittner, sono tre gli elementi a caratterizzare la forza pubblica: “Non esiste nessuna direttiva, nessun ventaglio di obiettivi, nessun limite di qualunque tipo che mostri al poliziotto ciò che può e deve fare”; “non esiste neanche nessun criterio che permetta di giudicare se un intervento di forza è necessario, auspicabile o appropriato”; infine, “è estremamente raro che le azioni della polizia che implicano l’uso della forza vengano valutate e giudicate da qualcuno”.

In pratica, non solo non c’è alcuna direttiva o dottrina precisa che orienti l’azione a priori, ma non c’è neanche alcuna analisi o sanzione a posteriori. L’uso della forza è lasciato alla sola valutazione dei poliziotti, praticamente senza nessuno sguardo dall’esterno. Si capisce allora come il limite fra il ricorso alla forza e l’esercizio della violenza sia qualcosa di delicato da identificare, per quanto ci si sforzi di farlo: allo stesso modo in cui la guerra non è che un prolungamento della politica, la violenza non è che una continuazione della forza.

La distinzione fra i due termini si rivela essenzialmente normativa. Il poliziotto deve saper usare la forza, ma non deve esercitare la violenza. Nella misura in cui non esiste tuttavia né direttiva, né criterio, né valutazione, né giudizio concernente la maniera appropriata di ricorrere alla forza, si può immaginare che, dal punto di vista dei poliziotti, la violenza sia una nozione praticamente senza oggetto, salvo in casi estremi identificati come tali.

Per i poliziotti, l’uso della forza è semplicemente un mezzo per raggiungere un fine come lo è, per esempio, immobilizzare un individuo in arresto. Questa prospettiva è lontana dall’essere condivisa dal resto della popolazione, che interpreta i placcaggi al suolo, le tecniche di sottomissione, le compressioni toraciche, le prese articolari e i colpi inferti come altrettanti insopportabili atti di violenza. Alcuni cittadini tentano allora d’intromettersi, di denunciare o, al giorno d’oggi, di filmare queste azioni per testimoniare. Laddove gli uni affermano di usare la forza, gli altri vedono della violenza.

Come mi diceva una donna poliziotto, i metodi utilizzati nello svolgere un arresto sono a volte plateali: “È una cosa che sconvolge la gente [, mentre] si tratta semplicemente di una misura precauzionale [, perché] di fronte al rifiuto di ottemperare, all’inizio non sai mai se hai di fronte un pericoloso malfattore o magari solo un automobilista che non ha la patente con sé”.

Riconosceva tuttavia che “a separare un arresto energico da un eccesso della polizia c’è solamente una linea sottile”. E continuava asserendo che, comunque, contrariamente a ciò che pensa la gente, le tecniche sperimentate di cui si servono gli agenti permettono di “evitare che loro stessi corrano rischi e che l’individuo da immobilizzare si faccia del male”. L’agente convenne, del resto, che il risultato non era sempre convincente, poiché, in occasione di una dimostrazione fatta su richiesta del prefetto, desideroso di dare prova dell’innocuità di questo tipo d’interventi di fronte a un gruppo di parlamentari, i due istruttori che “recitavano” la scena – uno nei panni dell’arrestato, l’altro di chi arresta – erano finiti all’ospedale con contusioni e slogature. L’aneddoto fece sorridere l’agente che me lo raccontava, ma era comunque significativo, perché suggeriva che la distinzione fra la forza e la violenza stava nell’intenzione.

In questo caso, era poco credibile che gli agenti si fossero volontariamente feriti tra di loro, e il fatto che ci siano state conseguenze fisiche non indicava dunque violenza, ma tutt’al più un uso inappropriato o maldestro della forza. Le contusioni riportate dagli agenti deponevano paradossalmente in favore del fatto che, quando qualcuno veniva ferito durante gli arresti, si trattasse solo di un danno collaterale e involontario. In situazioni reali in cui i poliziotti non hanno a che fare con dei colleghi ma con dei sospetti, le loro intenzioni sono tuttavia ben più difficili da capire. Di solito, quindi, in questi casi la distinzione sulla base di questo criterio non è utilizzabile. Tutt’al più, una commissione disciplinare o un giudice istruttore possono farsi un’idea di tali intenzioni dopo che sono state rilasciate e trasmesse delle deposizioni.

In pratica, gli elementi utilizzati per parlare di violenza della polizia – e farla eventualmente condannare di fronte a un tribunale – sono di natura più tecnica che psicologica, come abbiamo visto nel processo citato precedentemente. In occasione di un intervento, l’uso della forza dev’essere giustificato e proporzionato: giustificato rispetto al pericolo (legittima difesa) e al reato commesso (sufficientemente grave), e proporzionato all’azione condotta (immobilizzazione e applicazione delle manette), oltre che alle caratteristiche dell’individuo (forza e resistenza).

Si parla di violenza della polizia – ovvero di atti potenzialmente condannabili dalla giustizia – quando l’uso della forza si rivela ingiustificato (in caso di percosse a un individuo ammanettato o di coercizione fisica per la mancanza di documenti d’identità), sproporzionato (una presa articolare o una compressione che causino un’asfissia prolungata, o un brutale accanimento che causi ferite gravi) o tutte e due le cose insieme (un colpo alle spalle a un persona disarmata in fuga).

Certo, esistono altri elementi che possono portare a un’istruttoria, o a un processo, per esempio l’omissione di soccorso a una persona messa in pericolo dall’intervento della polizia (il caso dei due giovani morti per folgorazione a Clichy-sous-Bois nel 2005) o un incidente automobilistico che faccia pensare a un’imprudenza colpevole o addirittura a una volontà deliberata (il caso della morte dei due giovani investiti a Villiers-le-Bel nel 2007): non si tratterà qui di violenza propriamente detta, ma di esito violento di un’operazione condotta dalle forze dell’ordine.

Che sia diretta o indiretta, la violenza della polizia, così come è individuata nell’ambito delle inchieste amministrative o giudiziarie, presenta tre caratteristiche essenziali. In primo luogo, è strettamente fisica: si manifesta come un’azione su un corpo. In secondo luogo, ha conseguenze facilmente identificabili: si tratta, il più delle volte, di lesioni o, più raramente, di un decesso. E in terzo luogo, è definita in rapporto a una norma professionale: il poliziotto deve dare prova di discernimento riguardo all’uso della forza, che dev’essere giustificata e proporzionata.

Queste tre caratteristiche al lettore possono sembrare evidenti, ed è infatti così che la violenza della polizia viene sempre rappresentata. Tale definizione amministrativa e giudiziaria appare del resto talmente scontata che, da mezzo secolo, tutti i lavori di sociologia della polizia, in America come in Europa, vi fanno riferimento. Così studiamo la violenza della polizia (alla maniera di William Westley), la sua coercizione (come dice Jean-Paul Brodeur), la sua brutalità (per Jill Nelson) o i suoi “eccessi” (con Fabien Jobard) riferendoci a quella che possiamo chiamare una “definizione interna”, ovvero stabilita secondo criteri che l’amministrazione della polizia accetta di riconoscere e che l’istituzione giudiziaria tenta di applicare.

Ci sono certamente delle buone ragioni per sostenere questa posizione, ragioni allo stesso tempo pratiche (si parla lo stesso linguaggio dei poliziotti e dei giudici) e metodologiche (si adotta la prospettiva dei gruppi che vengono studiati). Ci si può tuttavia chiedere cosa si guadagnerebbe nella comprensione della violenza esercitata dalla polizia – così distante, dal punto di vista lessicale, dalla “violenza della polizia”, come l’intendono le autorità amministrative o giudiziarie – a mettere in discussione questa definizione, non per contestarne la validità, ma per coglierne i limiti.

Il mio proposito è quello di comprendere la violenza esercitata dalla polizia come interazione che si riverbera sull’integrità e la dignità degli individui (e non solamente sul loro corpo), che può essere profonda e invisibile e che implica una componente etica non strettamente normativa. Si tratta, in altre parole, di prendere una certa distanza dai tre criteri usuali, precedentemente citati.

Questo approccio si allontana decisamente da quello delle commissioni disciplinari e dei giudici istruttori, in quanto non mira a dare fondamento alle sanzioni, ma a fornire elementi di comprensione. L’osservazione avanzata a volte dagli agenti che un bello schiaffo dato a un adolescente colpevole di un piccolo reato (di quelli che si potevano dare senza tante preoccupazioni una volta e che vengono mollati ancora oggi probabilmente più spesso di quanto non si creda) ha ancora un valore pedagogico, meriterebbe forse d’essere completata da una constatazione parallela che i poliziotti invece non fanno, vale a dire che esistono delle pratiche ben più mortificanti, delle ferite ben più profonde per le quali non serve l’uso della forza fisica.

Il confronto fra queste due asserzioni suggerisce in effetti che sarebbe possibile andare al di là della definizione amministrativa e giudiziaria di violenza, una definizione che porta a condannare lo schiaffo, almeno in via di principio, ma, la maggior parte delle volte, a ignorare l’umiliazione. Di conseguenza, potremmo cominciare a interrogarci non nei termini di ciò che la polizia e la giustizia pensano di tali azioni, ma dal punto di vista di come i cittadini le vivono.

Del resto, questa inversione dello sguardo non si limiterebbe all’esperienza degli individui che hanno a che fare con le forze dell’ordine, ma includerebbe la prospettiva ben più ampia della società. Ovvero includerebbe anche il modo in cui quest’ultima delega alla polizia, in nome della legge, il potere di trattare certe persone al di fuori del diritto o in maniera flessibile rispetto ai diritti umani.

Rinunciando allo stesso tempo al riduzionismo dell’istanza disciplinare e dell’istituzione giudiziaria (che limita la violenza all’uso eccessivo della forza fisica) e al mimetismo delle scienze sociali (che riproducono, per studiarla, la definizione ufficiale dei poliziotti e dei magistrati), ci autorizzeremmo così a dare della violenza una lettura critica nel senso in cui l’intende Walter Benjamin (2008: 467): “Il compito di una critica della violenza si può definire come l’esposizione del suo rapporto con il diritto e con la giustizia. Poiché una causa agente diventa violenza, nel senso pregnante della parola, solo quando incide in rapporti morali”. Sono questi rapporti morali che dobbiamo esplorare.

A una prima analisi, la violenza fisica può essere facilmente distinta dalla violenza morale. Si avrebbe, tipicamente, da un lato lo schiaffo e dall’altro l’umiliazione: nel primo caso sarebbe colpito solo il corpo, mentre nel secondo sarebbe l’intera persona a essere coinvolta. Nella pratica, tuttavia, la distinzione è meno evidente di quanto sembri. L’impotenza di fronte all’uso eccessivo della forza comporta già una dimensione morale di svilimento, per esempio nell’imposizione ingiustificata di manette.

Al contrario, la mortificazione causata da soprusi e vessazioni ha tutta una serie di implicazioni fisiche, in particolar modo se pensiamo alle perquisizioni da nudi, durante i fermi. Come scrivono Nancy Scheper-Hughes e Philippe Bourgois: “La violenza non può mai essere compresa solo in termini fisici – forza, aggressione, dolore. Essa implica anche una minaccia alla persona e alla sua dignità, e alla percezione che la vittima ha del suo stesso valore. Sono le dimensioni sociali e culturali della violenza a conferirle il suo potere e il suo significato”.

La violenza è dunque sempre qualcosa di più di quello che appare. La distinzione proposta conserva comunque la sua validità, poiché ci permette di vedere un senso in ciò che ne è abitualmente privo. La maggior parte delle volte, la violenza fisica è la sola presa in considerazione dalle commissioni disciplinari e dai giudici. Al contrario, la violenza morale viene ignorata. Ritenuta banale, rimane invisibile, perché non lascia tracce, almeno sul corpo, e perché non dà luogo a denunce né è oggetto di sanzioni. Si tratta senza alcun dubbio di violenza, visto che queste pratiche costituiscono un danno all’integrità e alla dignità degli individui, ma non è mai designata come tale. Per il fatto che non viene menzionata, socialmente non esiste. Per il fatto che non viene riconosciuta, non permette di fare giustizia. È questa violenza senza nome e senza giustizia a costituire l’esperienza ordinaria degli adolescenti, dei giovani e degli uomini che vivono nei quartieri popolari.

La relazione fra ciò che possiamo quindi provvisoriamente chiamare violenza fisica e violenza morale è storicamente costituita, nel senso che la pacificazione delle società contemporanee è andata di pari passo con una crescente censura e penalizzazione della prima, lasciando il campo libero all’esercizio della seconda, meno agevolmente identificabile e più raramente condannata. Quest’ultima è diventata allora una sorta di violenza “di sostituzione”, come si dice delle sostanze che rimpiazzano le droghe inducendo effetti simili ma senza avere le stesse implicazioni legali.

Nelle società contemporanee, tale evoluzione si è relativamente ben realizzata nell’ambito della tortura, le cui forme più brutali tendono a sparire in favore di tecniche psicologiche più efficacemente distruttive, e in quello delle pene, che non consistono più in supplizi corporali ma in programmi di reclusione e rieducazione. Ma concerne anche più in generale i differenti campi nei quali la violenza viene esercitata. Non si tratta evidentemente di negare la persistenza della violenza fisica, ma di suggerire uno spostamento verso la violenza morale, il cui rapporto costo-efficacia è, per chi la pratica, ben più vantaggioso.

È probabile che gli effetti della violenza siano più profondi e duraturi, quando ne è garantita l’impunità. Se infatti a volte si possono mostrare le prove dei colpi ricevuti, attraverso i loro segni sul corpo, è molto più delicato dimostrare che siano stati commessi atti degradanti o umilianti. Una commissaria affermò che, non appena si profilava il sospetto di violenze contro un individuo arrestato, veniva chiamato il medico (cosa vera solo fino a un certo punto, come ebbi modo di rendermi conto), ma che quest’ultimo certificava le tracce fisiche e non quelle psicologiche. È significativo come, mentre il trauma viene rivendicato e ricercato dappertutto – nelle vittime, nei testimoni e anche nei perpetratori –, in seguito a ogni evento violento, per le persone vittime di un uso eccessivo di forza da parte della polizia la questione non venga mai sollevata, come se queste fossero escluse dalla comunità morale dei potenziali traumatizzati.

Durante le mie ricerche, sono stato di fatto spettatore di violenze fisiche solo in rari casi. Per più ragioni. Intanto, perché queste non sono certo frequenti, cosa che non mancava comunque di stupire il brigadiere capo responsabile di una stazione di polizia, in quanto «quando vedo quello che succede, come ci sputano addosso, come ci prendono a sassate, come ci insultano, mi stupisco che non ci siano più sbandamenti ed eccessi». E in secondo luogo perché la mia presenza le rendeva ancora meno probabili. Alcuni poliziotti mi hanno fatto notare più volte, con un sorriso d’intesa, che, se non fossi stato là, gli individui arrestati avrebbero “passato un brutto quarto d’ora”. Infatti, se una persona veniva colpita, la cosa accadeva sempre lontano dai miei occhi.

Didier Fassin è un antropologo francese. Nato nel 1955, è stato vicepresidente di Medici senza frontiere tra il 2001 e il 2003.

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