A che punto sono le indagini sull’attentato di Ankara
È il gruppo Stato islamico il principale indiziato per il doppio attentato suicida avvenuto il 10 ottobre alla partenza di un corteo pacifista ad Ankara, in Turchia. Lo ha riferito il primo ministro turco Ahmet Davutoğlu in un’intervista all’emittente Ntv, sottolineando che l’attacco voleva influenzare i risultati delle elezioni politiche in programma per il 1 novembre e che il suo governo prenderà tutte le misure necessarie per superare eventuali lacune sulla sicurezza.
Gli ultimi sviluppi. Davutoğlu ha confermato che le due esplosioni sono state provocate da altrettanti attentatori suicidi e che gli inquirenti stanno per terminare l’esame del dna. “Siamo molto vicini a un nome, che porta a un gruppo ben preciso”, ha annunciato il premier.
Le vittime. Il bilancio ufficiale dell’attentato, il più grave nella storia del paese, è ancora di 97 morti ma il Partito democratico del popolo (Hdp), la formazione filocurda guidata dall’avvocato e attivista per i diritti umani Selahattin Demirtaş, ha contato 128 cadaveri di cui centoventi sarebbero già stati identificati. I feriti sono invece ufficialmente 160 di cui 65 ricoverati in gravi condizioni.
La crisi. Finora nessun gruppo ha rivendicato l’attacco, arrivato in un momento di grave crisi politica ed economica per il paese. Alla fine del luglio scorso è finita la tregua tra il governo di Ankara e il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), e i confini del paese sono sotto minaccia costante, a causa dei combattimenti lungo il confine con la Siria e le ultime incursioni aeree da parte della Russia, nell’ambito della campagna militare di Mosca in sostegno al regime siriano di Bashar al Assad.
La Turchia, inoltre, non ha un vero governo dalle ultime elezioni politiche del giugno 2015, quando per la prima volta in dodici anni il Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), guidato dal presidente Recep Tayyip Erdoğan, si è trovato senza una maggioranza assoluta con cui governare, a causa soprattutto del successo dell’Hdp che è riuscito a entrare in parlamento nonostante lo sbarramento del 10 per cento.
Le trattative per formare il governo, condotte dal premier prima con i Partito popolare repubblicano (Chp) e poi con i nazionalisti di estrema destra del Partito di azione nazionalista (Mhp), non hanno portato ad alcun accordo, e le nuove elezioni sono state convocate per il primo novembre.
In questo contesto, il governo aveva inizialmente citato fra i possibili colpevoli il Pkk, i jihadisti dello Stato islamico e gruppi di estrema sinistra. Ma i leader e gli attivisti curdi hanno sottolineato negli ultimi giorni l’incapacità delle forze di sicurezza di evitare l’attentato lasciando intendere possibili omissioni o complicità da parte di servizi segreti deviati.
Le lacune delle forze di sicurezza. In una conferenza stampa convocata subito dopo la strage, il ministro dell’interno Selami Altınok aveva respinto le accuse di negligenza ma diversi testimoni, come l’opinionista del quotidiano Hürriyet Faruk Bildrici hanno raccontato che la polizia non ha preso le necessarie misure di sicurezza alla manifestazione e che, subito prima della partenza del corteo, sulla piazza della stazione in cui ci sono state le esplosioni c’erano solo due volanti della polizia.
I retroscena. In un articolo pubblicato domenica dal quotidiano Yeniçağ, l’editorialista Ahmet Takan ha citato un rapporto dell’intelligence che sarebbe stato portato all’attenzione del governo cinque giorni prima della strage di Ankara, in cui si sosteneva che i servizi segreti siriani si trovassero nella capitale turca per progettare un attentato simile a quello avvenuto l’11 maggio 2013 nel distretto di Reyhanlı della provincia meridionale di Hatay: un doppio attacco suicida in cui morirono 52 persone, tra cui cinque bambini.
Nello stesso articolo, Takan ha fatto riferimento a un altro documento in cui i servizi segreti avvertivano che cinque presunti attentatori del Pkk erano entrati nella capitale, chiedendosi come sia potuto succedere che – nonostante queste indicazioni – nessuno sia riuscito a impedire un attentato come quello di sabato nel centro di Ankara, sorvegliato da telecamere di sicurezza 24 ore su 24 e sette giorni su sette.
Secondo diverse fonti di stampa, le autorità ritengono che uno degli attentatori potrebbe essere il fratello del terrorista di 20 anni che si è fatto esplodere il 20 luglio a Suruç durante un raduno di attivisti turchi, uccidendo 32 persone. All’epoca dell’attacco la polizia aveva avvertito che il responsabile, Şeyh Abdurrahman Alagöz, era un jihadista che militava nello Stato islamico dal 2014 insieme al fratello, Yunus Emre Alagöz, e che quest’ultimo era ancora a piede libero e avrebbe potuto commettere altri attentati.
Manifestazioni. Migliaia di persone si sono date appuntamento domenica nella piazza Sıhhıye, vicino al luogo delle esplosioni, per ricordare le vittime della strage. I manifestanti hanno gridato slogan contro l’Akp e il presidente Erdoğan, ritenuti responsabili dell’accaduto. I vertici del sindacato Kesk (funzionari pubblici) hanno convocato due giorni di sciopero e la polizia ha impedito con la forza che la manifestazione raggiungesse la piazza della stazione in cui sono avvenuti gli attentati.
La guerra con il Pkk. Nel fine settimana i caccia dell’aviazione turca hanno bombardato postazioni del Partito dei lavoratori del Kurdistan nel sudest del paese e nel nord dell’Iraq, nonostante i guerriglieri curdi il 10 ottobre – subito prima dell’attentato di Ankara – avessero annunciato un cessate il fuoco in vista delle elezioni anticipate del primo novembre. Le postazioni colpite si trovavano nella zona di Metina e Zap, in Iraq settentrionale, e nella zona di Lice in Turchia. Si parla di decine di morti.