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Cinque idee sbagliate sull’islam e sul terrorismo

Una donna musulmana prega in una moschea di Srinagar, nel Kashmir indiano, il 16 settembre 2015. (Mukhtar Khan, Ap/Ansa)

Dopo gli attentati del 13 novembre rivendicati dallo Stato islamico circolano molti pregiudizi o stereotipi sull’islam. Ecco come evitare i cinque pregiudizi più diffusi:

1) Un salafita non è necessariamente un terrorista in potenza

Negli ultimi giorni si parla molto del salafismo, una corrente tradizionalista che mira al ritorno all’islam delle origini. In Francia ha preso piede negli anni novanta, soprattutto grazie al proselitismo di studenti che avevano seguito una formazione in studi religiosi in Arabia Saudita. Questa corrente è associata a una visione dell’islam che in Francia è accettata con difficoltà: prevede pratiche molto rigorose e l’uso del velo o di un abito specifico per le donne, della barba per gli uomini.

Tuttavia, è sbagliato pensare che il salafismo in quanto tale sia uno strumento del terrorismo. La maggior parte dei salafiti non si riconosce nel jihadismo e appartiene a una corrente non violenta che rifiuta qualunque impegno politico, fonte di fitna (divisione), e si concentra sulla pratica religiosa.

Esiste un ramo “rivoluzionario” del salafismo, il takfirismo, che mira a instaurare con la forza uno stato governato secondo le regole dell’islam radicale. Se però si osserva il profilo dei terroristi jihadisti che hanno colpito la Francia, da Mohamed Merah ad Abdelhamid Abaaoud, si può constatare che non corrispondono al modello classico del “salafita” barbuto che per anni ha studiato l’islam. Si tratta per lo più di giovani criminali, spesso radicalizzati nel corso di soggiorni in carcere, che sono stati in Siria ma non hanno un passato di religiosi ferventi.

2) L’islam non è un criterio etnico ma una pratica religiosa

“I musulmani devono sconfessare i terroristi”, “i musulmani non devono cedere al senso di appartenenza”. Da molti anni si osserva nelle discussioni una semplificazione dell’islam: i musulmani sono spesso considerati come un “blocco” unico, si rimprovera loro il senso di appartenenza, considerandoli di fatto come un’unica comunità. A tal punto da far credere che tutte le persone di cultura musulmana siano dei credenti.

Ma questo è falso. Da un lato l’islam, come il cristianesimo o il buddismo, è una religione: non si nasce musulmani, lo si diventa. Si può essere maghrebini e atei, siriani e cristiani. E anche se si afferma di essere credenti, la pratica può essere più o meno regolare, così come l’osservazione dei dogmi e delle regole. Inoltre non esiste un’unica pratica, ma diverse pratiche: gli sciiti e i sunniti non osservano gli stessi riti, e da una moschea all’altra le prediche e la visione dell’islam possono cambiare molto, come del resto in tutte le religioni.

3) Non tutti i musulmani sono arabi e viceversa

A causa della sua eredità coloniale e dell’importante numero di francesi di origine marocchina, algerina e tunisina presenti sul territorio nazionale, in Francia si assimilano spesso musulmani e arabi. Ma questa idea è del tutto sbagliata per tre motivi.

Prima di tutto, da un punto di vista geografico il termine “arabo” rimanda alle popolazioni originarie della penisola arabica (Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, eccetera) ed è quindi impreciso utilizzarlo per le popolazioni di origine maghrebina.

In secondo luogo la confessione religiosa e l’origine geografica non dipendono l’una dall’altra. Così come esistono dei marocchini ebrei e cristiani, ci sono anche dei musulmani francesi.

Infine, il volto dell’islam cambia considerevolmente da un paese all’altro, a seconda della sua storia. Nel Regno Unito, per esempio, la maggior parte della popolazione musulmana è di origine pachistana; in Germania è di origine turca. A livello mondiale il paese musulmano più popolato si trova in Asia ed è l’Indonesia, con più di 200 milioni di fedeli, davanti all’India e al Pakistan.

4) La Francia non è “invasa” dalle moschee

Al contrario di quello che affermano diverse personalità o mezzi d’informazione, la Francia non è “invasa” dalle moschee. Il numero dei luoghi di culto non è facile da quantificare, in particolare a causa della mancanza di centralizzazione dell’islam: al contrario del cattolicesimo, che dispone di un’organizzazione chiara e strutturata, è poco gerarchizzato.

Nel 2012 il ministero dell’interno francese ha stimato che nel paese ci sono 2.449 luoghi di culto musulmano, di cui solo il 2,5 per cento rappresentato da moschee con minareto. Nell’ultimo decennio il numero di moschee è aumentato: il precedente censimento, nel 2000, aveva registrato 1.536 luoghi di culto.

Ma rispetto al numero di fedeli, questa cifra rimane molto inferiore ai luoghi di culto cattolici. Se si stima che in Francia ci siano due milioni di praticanti musulmani, si arriva a un rapporto di un luogo di culto per 816 fedeli. Se si prende invece il dato di tre milioni di cattolici praticanti, cioè che partecipano a una messa almeno una volta al mese, e lo si rapporta alle 40mila chiese consacrate, si arriva a un rapporto di una chiesa per 75 fedeli.

5) Il Corano non lancia un appello esplicito al jihad armato

Dopo gli attentati del 13 novembre, così come dopo quelli di gennaio, le vendite del Corano sono molto aumentate (nella classifica dei 20 libri religiosi più venduti su Amazon Francia sette riguardano l’islam, e il Corano è al primo posto), come se si volesse cercare in questo libro l’origine dell’appello alla violenza.

Sull’esempio della Bibbia e della Torah, il Corano contiene concezioni molto datate sulla giustizia e alcune sure incitano alla violenza contro le altre confessioni, così come altre fanno appello alla tolleranza. Per esempio nella sura 47, detta la sura di Maometto, è scritto:

Quando [in combattimento] incontrate i miscredenti, colpiteli al collo finché non li abbiate soggiogati.

Ma nella sura 3, detta la sura della famiglia Imran, è scritto:

Tu non hai nessuna parte in ciò, sia che [Allah] accetti il loro pentimento sia che li castighi, ché certamente sono degli iniqui. Ad Allah appartiene tutto quello che è nei cieli e sulla terra. Egli perdona chi vuole e castiga chi vuole. Allah è perdonatore, misericordioso.

In ogni modo il jihad non è mai citato come uno dei pilastri dell’islam. Il concetto di “jihad” (letteralmente “lo sforzo”) si applica prima di tutto al lavoro del praticante per conformarsi alle regole dettate dalla sua credenza. Non è quindi un appello alla lotta armata.

“Nessun libro sacro oggi è invocato così spesso per appoggiare forme di violenza o di oppressione”, affermano il professore di filosofia Faker Korchane e Sophie Gherardi, fondatrice del sito d’informazione fait-religieux.com, ora chiuso. “A tal punto che ci si può legittimamente chiedere quello che nei suoi versetti o nel suo statuto può prestarsi a una tale strumentalizzazione politica e religiosa”.

L’alternanza tra chiarezza e ambiguità all’interno di questo libro autorizza molte interpretazioni. Per Korchane e Sophie Gherardi nell’islam l’interpretazione è una vera e propria “passione”, e citano spesso Youssef Seddik, filosofo e antropologo: “Il corano ha abolito qualunque interpretazione imposta da una chiesa. Nell’islam ognuno può interpretare secondo gli strumenti a propria disposizione, anche il più semplice dei credenti. Conta solo l’intenzione”.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Una versione di questo articolo è uscita sul blog di data journalism di Le Monde, Les décodeurs. Clicca qui per leggere l’originale.

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