Il 22 novembre un decreto del governo ha messo quattro banche in “risoluzione”, o liquidazione ordinata, per non farle chiudere a causa dei crediti in default. Si tratta di Banca Marche, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di risparmio di Ferrara e CariChieti, istituti di piccola o media dimensione che nel complesso hanno una quota di mercato pari all’uno per cento dei depositi.
Il salvataggio. Per salvarle, con un decreto del consiglio dei ministri, sono state create quattro nuove “banche ponte” al posto delle vecchie. Per ciascuna delle quattro banche, la parte “buona” del bilancio è stata separata da quella cattiva e tutti i prestiti in sofferenza – cioè quelli la cui riscossione non è certa perché i debitori sono insolventi o in grave difficoltà – sono stati trasferiti in un’unica bad bank. A ciascuna banca ponte sono state invece affidate tutte le attività diverse dai prestiti in sofferenza.
Chi paga. Il neonato Fondo di risoluzione (previsto dalle norme europee e amministrato dalla Banca d’Italia) ha ricostituito il capitale delle quattro banche ponte, che in totale è ora pari a 1,8 miliardi. Il fondo è stato alimentato dalle altre banche italiane secondo diversi criteri, tra cui le dimensioni e il profilo di rischio. La liquidità necessaria per l’immediata operatività del fondo è stata anticipata dalle tre banche più grandi, Banca Intesa Sanpaolo, Unicredit e UBI Banca. In tutto l’operazione di salvataggio costerà circa 3,6 miliardi, ha calcolato la Banca d’Italia.
Il ruolo dello stato. Finora lo stato non ha messo soldi nel salvataggio perché, in virtù del regime di unione bancaria in Europa, l’operazione di salvataggio si è svolta sulla base di alcuni princìpi della direttiva comunitaria su risanamento e risoluzioni degli istituti, che si basa su una comunicazione della Commissione europea del 2013 ed entrerà in vigore dal 1 gennaio 2016. Secondo queste regole, azionisti e obbligazionisti non privilegiati devono contribuire ai costi di ristrutturazione e risoluzione delle banche prima di qualunque intervento pubblico.
Il cosiddetto bail in. Bail in vuol dire “garanzia interna” e, nel caso dei salvataggi bancari, è il contrario di bail out, ossia l’impegno del sistema (e quindi dei soldi pubblici) per sostenere le banche in difficoltà. Con il cosiddetto decreto salva banche, il governo ha scongiurato almeno in parte il rischio del bail in previsto dal nuovo schema europeo, che in caso di crisi bancaria coinvolge anche azionisti, obbligazionisti e, se necessario, correntisti oltre i 100mila euro per lasciare indenni i conti correnti e le obbligazioni ordinarie dei clienti. L’entrata in campo del nuovo Fondo di risoluzione ha però fatto scattare automaticamente la “condivisione degli oneri”. L’aiuto del sistema, dicono le regole dell’Unione europea, arriva solo dopo che azionisti e obbligazionisti subordinati (cioè i prestatori di denaro che hanno accettato un rischio maggiore a fronte di una cedola molto più alta della media) hanno partecipato al salvataggio.
Gli azionisti e i piccoli investitori. Oltre al complesso sistema bancario italiano che alimenta il fondo, chi ha pagato il salvataggio delle quattro banche sono quindi proprio gli azionisti e chi aveva investito in obbligazioni subordinate, che sono quelle più redditizie ed erano più esposte alla possibilità di perdere il capitale. Rischia di essere praticamente azzerato il patrimonio di azioni e obbligazioni subordinate, che prima della crisi valeva complessivamente 2,7 miliardi.
Un caso di suicidio. Nei giorni scorsi un pensionato di Civitavecchia si è suicidato dopo avere perso i propri risparmi a causa del provvedimento di salvataggio delle banche. In una lettera, l’uomo avrebbe spiegato di avere perso oltre 100mila euro investiti in obbligazioni subordinate emesse da Banca Etruria.
Chi salva i piccoli investitori? Negli ultimi giorni si è parlato della possibilità di un altro intervento, anche con soldi pubblici, per procedere a un rimborso parziale dei sottoscrittori di obbligazioni subordinate: il governo ha lavorato all’ipotesi di un nuovo fondo da circa 100 milioni, all’interno della legge di stabilità. La maggior parte delle risorse verrebbero ancora dal sistema bancario italiano, mentre il resto arriverebbe dal tesoro. Questa strada sarebbe però difficilmente conciliabile con le normative europee contro gli aiuti di stato.
Il governo starebbe quindi pensando alla soluzione adottata di recente in Spagna, dove il rimborso agli obbligazionisti che hanno dimostrato di essere stati raggirati è stato riconosciuto dai tribunali. Per questo si è ipotizzata la creazione di un foro arbitrale con il quale risolvere le controversie e stabilire il rimborso a favore di chi dimostrerà di non essere stato informato a dovere sui rischi degli investimenti.
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